lunedì 28 marzo 2016

Medicina generale e cure primarie tra ATS e ASST

La MG vive da sempre in una specie di limbo, in una sorta di terra di nessuno e di confine tra salute e malattia, rapporto di dipendenza e libera professione, apprendimento teorico e sapere pratico, istituzioni sanitarie e comunità locali, organizzazione formale e informalità relazionale, regole/vincoli normativi ed adattamenti pratici, livello macro e micro etc…

Dal punto di vista del profilo giuridico il rapporto di lavoro autonomo coordinato e continuativo del medico convenzionato con il SSR è stato in passato connotato come parasubordinato, a rimarcare la posizione di confine dal medico del territorio nell'ambito della sanità pubblica. La recente riforma del SSR lombardo, legge 23 dell'agosto 2015, non fa eccezione e ripropone nell'attuale fase di implementazione pratica delle nuove norme la dicotomia di cui sopra.

Lo sdoppiamento delle funzioni tra ATS o Agenzia Territoriale per la Salute (ex ASL provinciale)  e le ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) ha fatto emergere il problema della collocazione dei MMG nel nuovo assetto della sanità Lombarda, da definire con chiarezza al più presto pena il rischio di sovrapposizioni di compiti e disorganizzazione pratica, peraltro inevitabile entro certi limiti nella fase di transizione dalla vecchia organizzazione alla nuova.

In particolare il settore della formazione sembra essere il primo banco di prova e di rodaggio della riforma nell'attuale fase di decollo in quanto si pone trasversalmente e a cavallo tra le due Agenzie sanitarie. Da un lato infatti le iniziative formative in grande gruppo a dimensione provinciale non possono che passare al vaglio organizzativo dell'ATS, al fine di garantire quell'indispensabile omogeneità degli eventi formativi ECM che hanno come destinatari la platea dell'intera popolazione di MMG, in sintonia con i piani formativi regionali e provinciali.

Dall'altro se uno degli obiettivi prioritari della riforma è la promozione dell'integrazione tra ospedale e territorio, per migliorare la continuità assistenziale, le ASST non possono essere ritenute marginali o addirittura emarginate dalla formazione che, per essere efficace a livello organizzativo, deve farsi carico anche di queste tematiche. Per di più il luogo ideale per promuovere l'integrazione sanitaria è la dimensione distrettuale e soprattutto quella funzionale delle AFT, che di fatto fanno riferimento all'ASST locale e non all'ATS provinciale.

Ad esempio iniziative formative “dal basso” e in piccoli gruppi, come quelle previste dalla delibera sulla Formazione sul Campo (Audit, gruppi di miglioramento, ricerca etc..), trovano la loro collocazione ideale nella dimensione sociale e relazione della AFT ed assai meno negli eventi formativi tradizionali in grande gruppo. Perchè è sul territorio che è possibile realizzare interventi efficaci, di integrazione socio-sanitaria ed assistenziale, tra le figure professionali che interagiscono a livello di cure primarie e con i servizi specialistici ed ospedaliere locali.

Tuttavia la separazione istituzionale e giuridica tra ATS e ASST comporta inediti problemi di coordinamento nell'attuazione pratica degli eventi formativi sul territorio, per via di un'inedita frammentazione della catena gerarchica ed operativa, che distingue le due organizzazioni e gli addetti della formazione.

La legge 23, che aveva l'obiettivo di migliorare l'integrazione tra i vari comparti e favorire la continuità ospedale-territorio, sta muovendo i primi passi e per ora ha avuto un effetto contro-intuitivo: la separazione tra ATS e ASST si riverbera per ora sull'organizzazione della formazione ECM, che appare più frammentata e meno integrata rispetto a quanto accadeva con legge 31.

In linea di massima è possibile ipotizzare un collocazione su due livelli gestionali delle cure primarie:

1-Il livello provinciale dell'ATS è il contesto istituzionale per gestire le dinamiche e le negoziazioni a livello macro e top-down, vale a dire l'applicazione degli ACN nazionali, degli AIR regionali e locali, la formazione ECM a dimensione sovra-ASST etc..

2-Le ASST dovranno coordinare le iniziative a dimensione locale micro e dal basso, a misura di AFT/UCCP, attinenti al coordinamento e all'erogazione dei servizi socio-sanitari, alla formazione sul campo, alle iniziative per migliorare l'integrazione tra MMG e medici di CA e tra cure primarie, infermieristiche e specialistiche presenti sul territorio etc...

Il problema della legge 23 è che non si intravvede per ora una chiara indicazione del luogo fisico in cui si possa realizzare concretamente l'integrazione tra i vari attori della sanità territoriale, né le indispensabili risorse e il disegno organizzativo specifico per le cure primarie, necessariamente flessibile, adattabile ai contesti locali e a matrice reticolare.

venerdì 25 marzo 2016

AFT, tecnologia e codici bianchi

In una recente intervista il capo negoziatore del comitato di settore per il rinnovo dell'ACN ( http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=37961 ) afferma che il PS sarebbe oberato di codici bianco/verdi perchè la gente non trova un medico dalle 10 alle 14. La soluzione del problema starebbe nelle AFT "organizzate in modo che ogni cittadino, territorio per territorio, saprà cosa c’è di disponibile dalle 8 alle 20 con la turnazione degli studi dei medici che dovranno obbligatoriamente integrarsi fra loro, non come succede oggi".

Nella realtà, evidentemente sconosciuta al capo negoziatore, in alcune regioni già ora la medicina in associazione prevede il coordinamento degli orari degli studi medici in modo da coprire tutta la giornata e per consentire agli assistiti di trovare sempre un medico disponibile. L'esperienza dimostra però che la soluzione non funziona, come possono testimoniare i colleghi della associazioni, specie nelle piccole realtà dove la gente preferisce andare al PS piuttosto che vagare alla ricerca di uno studio aperto a quell'ora, magari in paese vicini o in zone poco servite dai trasporti pubblici! Più che le AFT sarebbero le Unità Complesse o UCCP ben organizzate, riconoscibili e dotate di adeguate strutture e personale ad attrarre potenzialmente una piccola parte di codici bianchi in cerca di una risposta al proprio bisogno di salute.
Il motivo dell'accesso improprio della gente al PS è noto da tempo, vale a dire il gap tra domanda ed offerta di prestazioni tecno-specialistiche e non saranno certo le AFT o il coordinamento degli orari di studi medici dispersi sul territorio a colmare tale crescente divario. Il Pronto Soccorso è il luogo organizzativo dove vengono dispensate in tempo (quasi) reale e ad libitum tecnologia biomedica e/o prestazioni specialistiche, tant’è che la gente si rivolge alle strutture di emergenza non nel weeck-end, quando il generalista è “a riposo”, ma proprio nelle fasce orarie della settimana quando lo stesso è in attività e il P.S. mette a disposizione tutta la sua potenza tecnologica di fuoco. 

Perchè, se non si è ancora compreso, la tecnologia biomedica ha sconvolto il tradizionale metodo di approccio e risoluzione dei problemi, marca la differenza tra territorio ed ospedale ed attrae in modo irresistibile gli utenti del SSN verso il PS. Basta confrontare l'approccio diagnostico del medico di MG con quello del PS in banali ed ordinarie situazioni, ad esempio la classica forma "influenzale": se il generalista si limita a visitare e prescrivere antipiretici o un antibiotico in caso di paziente a rischio, in Pronto Soccorso il medesimo assistito eseguirà almeno una radiografia del torace e la routine di esami del sangue e solo al termine di questo iter verrà dimesso, spesso con una terapia antibiotica di routine. 

La disponibilità di tecnologia e di risorse specialistiche pronto uso fa la differenza tra ospedale e territorio sia a livello pratico - come e' ovvio e naturale essendo la tecne per definizione un potente strumento per intervenire e modificare la realtà - sia a livello conoscitivo e quindi diagnostico. Molti esperti, medici ma anche giornalisti e decisori pubblici, non si sono ancora resi conto dell'impatto "rivoluzionario" della tecnologia biomedica sull'operato degli addetti ai lavori, sulla percezione della realtà degli assistiti e dei medici e sui bisogni degli utenti in generale. La tecnologia in PS non è solo un indispensabile strumento diagnostico ma è il principale mediatore delle pratiche sanitarie che poggiano su una conoscenza distribuita nell'ambiente sanitario, negli artefatti tecnici ed informatici, nelle routine, nei protocolli e negli automatismi organizzativi.

Un cambiamento epocale, una trasformazione silenziosa e irreversibile che con il tempo emerge in modo vistoso e "catastrofico". Il PS è il luogo elettivo in cui si palesano gli effetti psicologici e pratici, per non dire antropologici, della rivoluzione tecnologica che scorre ormai sotto i nostri occhi da almeno trent'anni. Non e' un caso che il PS abbia subito negli ultimi decenni, sotto la spinta sinergica della ristrutturazione economico-organizzativa del sistema (DRG e riduzione dei posti letto) e dell'impatto dell'evoluzione tecnologica, la più radicale metamorfosi e ristrutturazione di un servizio pubblico: da semplice stazione di smistamento ai reparti a complesso sistema organizzativo che attua un rigido filtro diagnostico-terapeutico all’accesso, offrendo prestazioni diagnostico-terapeutiche concentrate nel tempo e nello spazio come nessun altro servizio. Da questa offerta illimitata deriva l'attrattività del PS nei confronti di una domanda che fatica a trovare altre risposte su percorsi organizzativi ordinari (liste d'attesa, incombenze burocratiche, problemi economici etc..).

Ci da una mano nella comprensione di questa profonda trasformazione Kevin Kelly che nel libro "Quello che vuole la tecnologia", edizioni Codice analizza le rivoluzioni sociali, culturali ed economiche propiziate dalle diverse ere tecnologiche che si sono susseguite nella storia dell'umanità, a partire dalla transizione dal mondo dei cacciatori/raccoglitori alla scoperta dell'agricoltura ( http://www.codiceedizioni.it/wp-content/uploads/2011/02/Kelly_Quello_Che_Vuole_La_Tecnologia_Preview.pdf ) . 

Le argomentazioni di Kelly sono riconducibili all'ipotesi che esista un universo autonomo, il cosiddetto Technium, dove le scoperte e le pratiche tecnologiche umane si susseguono e si affermano stratificandosi e ramificandosi in mille modi: la tecnologia nel suo complesso non e’ solo un guazzabuglio di fili e metallo, ma una sorta di organismo vivente in continua evoluzione, con esigenze proprie e tendenze inconsce. Secondo Kelly il technium vive di vita propria, si nutre di continue ricombinazioni, metamorfosi e procede per dinamiche autonome rispetto alla vita degli uomini, sempre più condizionata dalle scoperte tecnologiche. 

Basti pensare alle specializzazioni mediche - dall’endoscopista all’ecografista, dall’emodinamista al genetista molecolare - che ormai si polarizzano attorno a specifiche tecnologie biomediche. Senza endoscopio, ecografo, microscopio elettronico etc.. la professionalità sarebbe monca e povera: anzi a ben vedere il professionista ha ormai un rapporto simbiotico con lo strumento tecnologico, per non dire parassitario e di vera dipendenza. Ecco, il PS è l’epicentro organizzativo del Sistema Sanitario in cui si manifestano gli effetti, tanto dirompenti quanto profondi, della tecnologia biomedica e del technium sulla vita degli uomini sani e malati.

lunedì 21 marzo 2016

Pedagogia medica, bisogna fare "più meglio"!

La Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPEM) ha pubblicato le 5 principali pratiche a rischio di inappropriatezza che dovrebbero essere abbandonate nella formazione e nella valutazione delle professioni mediche. L'iniziativa rientra nel progetto "Fare di più non significa fare meglio" promosso da Slow Medicine (da ora SM: http://www.slowmedicine.it/pdf/Pratiche/Scheda%20SIPEM%20.pdf ).

Ecco in sintesi le raccomandazioni dei pedagogisti medici:
·Non usare la lezione frontale non interattiva come strumento didattico principale. Privilegiare invece modalità interattive.
·Non trattare argomenti di clinica o organizzazione senza considerarne anche le implicazioni etiche, sociali, economiche, inter-professionali, le aspettative ed i valori dei pazienti
·Non utilizzare l'esame orale non strutturato e non valutare le abilità pratiche unicamente con strumenti di tipo cognitivo
·Non far apprendere le procedure direttamente sul paziente senza preparazione inappropriato modello di simulazione
·Non utilizzare unicamente test di tipo cognitivo ed a prevalente indirizzo biologico per la selezione all'accesso ai corsi di laurea o specializzazione.

Si tratta di affermazioni forti che configurano una sorta di rivoluzione pedagogica per gli standard del nostro paese e, in quanto tale, piuttosto difficile da attuare in tempi brevi e senza scontare l'opposizione di una parte dagli addetti ai lavori. I suggerimenti degli esperti di pedagogia medica, contrariamente allo spirito astensionista dell'iniziativa (fare di più non significa fare meglio), comportano un cambiamento qualitativo e soprattutto quantitativo, all'insegna del fare di più e del fare meglio. Ad esempio la classica alternativa alla lezione frontale, vale a dire l'apprendimento interattivo in piccolo gruppo basato sui problemi (PBL, problem based learning) comporta per il docente un surplus di impegno didattico e di tempo, e non certo un “fare di meno”, come suggerisce implicitamente lo slogan di SM. Insomma per mettere in pratica le raccomandazioni della SIPeM in positivo si dovrà insegnare “più meglio”, come dicono i bambini.

Inoltre sorprende l'insistenza con cui la SIPeM squalifica la componente cognitiva dell'insegnamento e della valutazione, senza tuttavia precisare l'alternativa pedagocica, che è un po' il limite di simili prese di posizione. Evidentemente la pedagogia medica stà un po' stretta nella cornice metodologica “destruens” dell'iniziativa di SM, che prevede solo l'indicazione di pratiche cliniche inappropriate da abbandonare e non la fase “costruens” di alternative appropriate. La lezione frontale è emblematica dei limiti dell'approccio cognitivo, individualistico, mentalistico e decontestualizzato all'insegnamento, che presuppone il passaggio di nozioni, informazioni e concetti dal docente alla mente del discente, considerato come un passivo ricettore delle medesime. Il sapere teorico ed astratto dal contesto viene trasferito nella lezione frontale da una fonte esperta (insegnante, testo, computer etc..) al discente, al quale spetta quindi il semplice compito di applicarlo “tecnicamente” nel proprio lavoro per risolvere i problemi ed agire con competenza professionale.

Nella realtà invece l'apprendimento efficace e la competenza esperta sono sempre situate, vale a dire mediate e contestualizzate in relazione
  • alla dimensione spazio-temporale ed epidemiologica della pratica professionale
  • alla routine e alle regole esplicite e implicite che governano l'organizzazione
  • ai vincoli normativi del sistema sanitario, locale e regionale/nazionale
  • alle conoscenze tacite personali e al sapere pratico frutto dell'esperienzia
  • alle risorse tecnologiche del posto di lavoro
  • alla cultura, alla storia e alle relazioni sociali della comunità di appartenenza
Come specifica il contributo della SIPeM “la lezione ex cathedra rimane lo strumento più utilizzato nella formazione medica, dai corsi di laurea alla formazione continua, spesso nella più completa ignoranza dei principi elementari della comunicazione e della gestione d'aula”, ovvero con modalità didattiche “associate a scarsa attenzione da parte della maggior parte dei discenti e scarsa ritenzione dei contenuti”. Oltre a queste motivazioni, squisitamente cognitive, la messa in discussione della lezione frontale poggia sul suo carattere astratto e decontestualizzato rispetto al sapere pratico e alla formazione situata.

Una verifica empirica della modesta efficacia dell'insegnamento teorico si ha durante il tirocinio post-laurea. Basta esercitare il ruolo di tutor valutatore del tirocinio propedeutico all'esame di stato per toccare con mano i limiti dell'insegnamento basato sulla lezione frontale, specie per quanto riguarda la metodologia clinica ed il procedimento diagnostico. Svolgendo la funzione tutoriale si avverte l'importanza del sapere pratico ed esperienziale - rispetto alla dimensione puramente cognitiva - che i neo-laureati hanno l'occasione di "sperimentare" nel mese di frequentazione dello studio. Anche per loro il tirocinio rappresenta un'occasione di apprendimento sul campo non assimilabile al tirocinio ospedaliero svolto al VI anno per il suo carattere situato nel contesto territoriale.

Nell'esperienza del tirocinio si fondono in modo unico, come in un “crogiuolo”, le componenti cognitive, pratiche, tacite, riflessive e sociorelazionali della professione, che sono state oggetto di distinti insegnamenti teorici durante la formazione curricolare, spesso di buona qualità ma in genere tra loro irrelati. In particolare la metodologia clinica dovrebbe avere la funzione di collante delle dimensioni semeiotico-percettiva, inferenziale e decisionale della pratica clinica; purtroppo non sempre nel contesto formativo ospedaliero si realizzano le condizioni perché si concretizzi questo apprendimento interattivo, che riflette inevitabilmente le caratteristiche epidemiologiche delle cure primarie (alta prevalenza di disturbi minori e auto-limitanti, di condizioni croniche e di problematiche piso-sociali etc..). Il tirocinio pre-esame di stato sopperisce a questo deficit in quanto permette al neo-laureato di venire in contatto con la componente di sapere tacito, informale e situato della pratica ambulatoriale, che per sua natura è la parte meno codificabile e trasmissibile del bagaglio professionale, specie se si utilizzano tecniche didattiche tradizionali.

Al momento della valutazione finale il tutor sconta un certo disagio nel giudicare le abilità e competenze del neo-laureato, che dovrebbe essere preminenti rispetto alla valenza formativa che viene impropriamente ad assumere il tirocinio stesso. Il sistema proposto infatti presuppone una valutazione decontestualizzata della competenza acquisita, mentre nella realtà fattuale il tirocinio serve più che altro a colmare le lacune pratiche del neo-laureato, specie per quanto riguarda il procedimento diagnostico nel contesto epidemiologico e relazionale territoriale, tema trascurato a favore della tradizionale semeiotica di tipo ospedaliero. 

Non c'è nulla di più utile dell'esperienza sul campo per attivare processi meta-cognitivi, di apprendimento e riflessione nel corso dell'azione, proposti quotidianamente a 360 gradi dai problemi del contesto ambulatoriale. Così il tirocinio da momento valutativo evolve in occasione di apprendimento compensativo della formazione di base, per via dei limiti di una formazione prettamente “cognitiva”, messa all'indice dai pedagogisti medici nella lista "nera" stilata per "Fare di più non significa fare meglio". Come afferma la psicologa sociale Zucchermaglio è "necessario ridare centralità alle pratiche reali con cui le persone imparano e lavorano nei contesti lavorativi e di vita quotidiana e superare una visione razionalista, individualistica ed empiristica dell'apprendimento e della conoscenza".

domenica 20 marzo 2016

Quale futuro per le AFT?

Le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) previste dalla riforma che prende il nome dall’ex ministro Balduzzi, risalente alla fine del 2012 saranno al centro delle trattative per il rinnovo dell'ACN, vacante da quasi un decennio. Le amministrazioni regionali si sono già mosse per avviare questa inedita forma organizzativa ma, come spesso capita, in ordine sparso e in modo disomogeneo, sulla base di interpretazioni locali e talvolta forzate della normativa nazionale.

Stando alla lettera della Balduzzi le AFT non comportano variazioni del rapporto fiduciario e di libera scelta dell'assistito in quanto forme organizzative monoprofessionali…. che condividono in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi. La Legge in sostanza non prevede un'organizzazione stabile per fornire prestazioni sanitarie ed assistenziali dei medici dell'AFT, vale a dire rivolte alla popolazione di assistiti; la legge privilegia funzioni ed attività "interne" al gruppo di MMG, di tipo culturale e formativo in senso lato, ad esempio nell'ambito del governo clinico e della formazione sul campo. In generale la legge indica alcuni strumenti di valutazione della qualità dell'assistenza e delle performances, come l'audit sui risultati di processo/esito e salute, in relazione ai principali Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali (PDTA) o all' applicazione di Linee Guida etc...

Nelle AFT saranno inseriti i medici di continuità assistenziale con i quali sarà possibile attuare una maggiore integrazione tramite una rete informatica per la condivisione e lo scambio delle informazioni rilevanti. Su questo terreno saranno certamente possibili miglioramenti della continuità assistenziale sul territorio rispetto all'attuale situazione, che vede uno scarso collegamento tra i MMG quelli di CA dovuto, ad esempio, alla scarsa frequentazione reciproca e al turn-over degli operatori della CA. Le iniziative formative all'interno dell'AFT potrebbero essere l'occasione per aggregare la comunità professionale del territorio attualmente disomogenea e frammentata.

Gli obiettivi formativi e di auto-valutazione dell
a qualità delle AFT sono ancor più evidenti se si confrontano con gli scopi dell’altra forma organizzativa prevista dalla legge, ovvero le Unità Complesse delle Cure Primarie o UCCP. A differenza delle AFT infatti queste ultime sono forme organizzative multiprofessionali…. che erogano, in coerenza con la programmazione regionale, prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei medici, delle altre professionalità convenzionate con il Servizo sanitario nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria". Questo modello presuppone "la costituzione di reti di poliambulatori territoriali dotati di strumentazione di base, aperti al pubblico per tutto l’arco della giornata, nonchè nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione”.

Le amministrazioni pubbliche con le proposte di rinnovo dell'ACN sembrano perseguire invece obiettivi dissonanti rispetto ai principi cardine della Legge Balduzzi, in questo assecondati dalle organizzazioni sindacali. Il disegno che si scorge nella filigrana delle prime bozze di trattativa è quello di far passare i contenuti e gli obiettivi assistenziali delle UCCP tramite le AFT,  quasi di “contrabbando” e con una interpretazione forzata della normativa vigente. In particolare appare critico, se non irrealistico, l'obiettivo di ridurre gli accessi impropri al PS tramite il collegamento funzionale e il coordinamenti degli orari di apertura degli studi dei medici aderenti all'AFT. 

 L'esperienza sul campo ha dimostrato che solo con strutture ben organizzate, dotate di una sede visibile e riconosciuta dalla popolazione, come le Case della salute emiliane o le UTAP venete, è possibile intercettare una parte dei codici bianco/verdi che attualmente afferiscono in modo inappropriato alle strutture di emergenza/urgenza. Non basterà potenziare una sede di CA, senza una vera organizzazione, senza investimenti in infrastrutture adeguate, risorse umane e tecnologiche, per immaginare di offrire ai cittadini un'alternativa al PS, che attrae (induce) una crescente domanda proprio in ragione di una consistente e inedita offerta di tecnologie diagnostiche e prestazioni polispecialistiche.

Le AFT, lungi dall'inserirsi in modo organico nel sistema di offerta di prestazioni alla popolazione, possono essere un occasione per aggregare i medici delle cure primarie attualmente “dispersisul territorio, favorirne il confronto, la formazione e lo scambio culturale, superando il tradizionale isolamento della categoria; a partire dalle AFT è quindi possibile costruire quella comunità di pratica (CdP) e di formazione continua, che rappresenta il principale gap della MG italiana rispetto al resto del continente. Secondo l'antropologo Etienne Wenger, principale esponente del filone di studi in questo settore, la CdP è un sistema sociale di apprendimento, che aggrega gruppi omogenei di lavoratori, sia a scopo di formazione continua che di sviluppo professionale ed organizzativo. Una CdP si costituisce in presenza di tre criteri:
  • Un campo tematico comune: argomento che unisce i partecipanti alla CdP e che può evolversi nel tempo e nello spazio;
  • La dimensione comunitaria: la base sociale ed identitaria che unisce i partecipanti, con periodici momenti di interazione;
  • Le pratiche condivise: conoscenze specifiche, contesto professionale e modalità operative comuni a tutti membri, mantenute e coltivate dalla comunità stessa.
La CdP presuppone generalmente un luogo fisico di appartenenza, ad esempio una divisione ospedaliera, ma può essere anche di natura virtuale, nel qual caso sono le comunicazioni tra i suoi membri, in forma elettronica, che mantengono la coesione e l’identità del gruppo. Le AFT in quanto CdP potrebbero prevedere sia momenti periodici di interazione in presenza (gruppi di miglioramento o audit distrettuali nell'ambito della formazione sul campo) sia strumenti di comunicazione elettronici, come le reti professionali, mailing list, gruppo Fecbook etc. Ciò che conta, nella prima fase di avvio della AFT, è la chiarezza dei compiti e delle funzioni per garantire solide basi e la futura crescita delle nuove forme organizzative e dei medici aderenti.