Da 2 anni la “lobby”
della subordinazione dei medici convenzionati motiva tale obiettivo con l’accusa
di “corporativismo” libero-professionale, come fanno Polillo e Tognetti sul QS.
Per decostruire
questa strategica riformatrice, di stampo giuridico-formale, viene utile il
primo comandamento dell’epistemologia, ovvero il proverbiale motto “la mappa
non è il territorio” e il suo corollario “il nome non è la cosa”. Detto in
altri termini non sempre la rappresentazione di un evento o di un oggetto
collima con la “cosa in sé”, perché purtroppo c’è sempre uno scarto, una
discrepanza più o meno grande tra l’immagine che abbiamo costruito della realtà
e lo stato effettivo delle cose. Insomma, nulla è come appare perchè il processo
cognitivo non è un fedele rispecchiamento interno della realtà “là fuori”, come ingenuamente si è portati a ritenere.
Prendiamo il
concetto di libera professione o per meglio dire di lavoro autonomo come
definito dal diritto. Chiunque legga anche superficialmente il relativo Titolo
del Codice Civile si rende conto che la rappresentazione dedotta dalle norme
non corrisponde con la nostra odierna immagine della libera professione medica
e che quest’ultima a sua volta ha poco a che fare con il profilo del
convenzionato (si veda il PS). Senza entrare nei dettagli tecnici basti pensare a due tratti
differenziali: il contratto, che stabilisce collettivamente l’entità del
compenso, viene sottoscritto dai sindacati con il terzo pagante e non dal
paziente con il professionista, mentre un lavoratore autonomo, sia professionale
che artigianale, per la sola “uscita” autodetermina il proprio compenso con una
cifra quasi pari ad una quota capitaria annuale, comprensiva di un numero
illimitato di prestazioni.
Cosa accomuna la
libera-professione “pura” dello specialista con la condizione ibrida del lavoro
autonomo coordinato e continuativo dell’ACN, da sempre di matrice “parasubordinata”?
Poco o nulla, ma per la lobby della dipendenza non c’è differenza, il nome coincide
con la cosa ed è la prova provata del privilegio libero-professionale, frutto di un'evidente deficit di esperienza pratica nel settore. In realtà
al convenzionato ne è rimasta ben poca di libertà, oppresso da una medicina
amministrata che paradossalmente il collega dipendente può permettersi di
ignorare, come accade spesso con le Note AIFA, alcuni LEA, le certificazioni di
malattia o le prescrizioni dopo la consulenza, compiti e atti dovuti impropriamente
“scaricati” sul generalista.
Della “anacronistica
condizione di libero-professionisti” rimane solo una certa flessibilità organizzativa e una gestione informale, che è la condizione per affrontare la varietà e
complessità della casistica sul territorio e di cui molti farebbero a meno, in
cambio delle tutele della dipendenza e della liberazione dal “ricatto” della
revoca.
Perché tanta
insofferenza per l’autonomia? E’ un questione di sapere pratico e tacito descritto
in modo limpido e condivisibile dal prof. Carlo Bellieni sul QS dello scorso 1
luglio, a proposito di una medicina incapace di farsi carico “di chi non è
categorizzabile e chi non sa rivendicare e descrivere il proprio dolore e passa
sotto silenzio”. La categoria è nota perché affolla gli studi dei medici del
territorio: pazienti con disturbi sotto soglia, sintomi atipici, “psicosomatici”
inspiegabili, inclassificabili, funzionali o idiopatici, disturbo d’ansia da
malattia etc. per i quali è stata coniata un’entità nosografica ad hoc: mi
riferisco ai MUS, acronimo poco noto sebbene i Medically Unexplaned Symptoms
rappresentino il 20% circa dell’impegno lavorativo sul territorio.
Con quali strumenti affrontare questa multiforme e sfuggente fenomenologia? Già 40 anni or sono il cognitivista Donald Schoen metteva in guardia dall’illusione che la razionalità tecnica, facente capo a leggi e conoscenze generali a priori da applicare in modo istruttivo e top down, potesse mettere ordine in questo guazzabuglio, composto da “problemi disordinati e indeterminati che resistono a qualsiasi soluzione di tipo tecnico”.
A quel tempo
ancora non prevalevano Linee Guida, PDTA, criteri classificativi, standard, algoritmi,
indicatori, alberi decisionali, codifiche, stadiazioni, protocolli, vincoli
prescrittivi etc. ; mappe di varia scala a cui ricorre una medicina che per Bellieni “vuole
classificare tutto e non interessarsi di quello che non è classificabile”, così
che “le persone e le malattie “strane”, invece di diventare casi interessanti
diventano intoppi in un ingranaggio aziendale retto dall’efficientismo” prestazionale,
che si accontenta “della mediocrità perché è fatto per essere routinario,
ripetitivo, non creativo, senza innovazioni che generino cambiamenti”. Mappe certamente utili per orientarsi nella complessità di un territorio che però non sempre coincide con la rappresentazione canonica.
Secondo Bellieni
la fuga dalla professione sta anche nell’appiattimento culturale di una medicina
pre-pensata, il cui esito è la “disattenzione selettiva” del professionista che
si rifugia nel “questo non è mio compito”; oppure l’ancoraggio miope ai documenti
del “protocol doctor” che di fronte a problemi complessi e atipici applica in
modo meccanico e acritico le conoscenze preconfezionate dei protocolli. Schoen ammoniva
i professionisti sul fatto che di fronte alla varietà, unicità, incertezza,
instabilità e conflitti di valori proposti della pratica l’approccio tecnico non
è in grado di dare risposte adeguate alla sfida che la complessità pone alla “scienza
impareggiabile”. Invece per molti il generalista dipendente sarebbe un ideale e
docile travè professionale, ligio all’applicazione ripetitiva delle direttive protocollari
“perinde ac cadaver”, a mo’ di un affidabile impiegato esecutivo privo di
autonomia decisionale e discrezionalità interpretativa.
La dissonanza cognitiva tra la prima parte dell'intervento (Polillo) e la seconda (Tognetti) è notevole ed è sfuggita agli stessi autori. Qualcuno è davvero
convinto che l’ennesima riforma e un nuovo stato giuridico, “ontologico” e calato top down senza la condivisione dei destinatari, serva al (fantomatico) “libero
professionista” convenzionato per affrontare efficacemente un’impari sfida pratica?
E' possibile imporre ope legis un nuovo profilo giuridico-formale, quasi che “sia sufficiente definire
nuove norme per ottenere un cambiamento […] con l'idea "che prescrivere sia
sufficiente per sviluppare collaborazioni virtuose” come ammoniscono i due autori; gli stessi nel contempo sottolineano che per “ogni cambiamento serve un
capitale culturale adeguato e una comprensione della riforma in atto di tipo
capillare, sia sul versante del personale che in particolare sul versante dei
cittadini”.
Il cambiamento dello status giuridico basta per promuovere “culture organizzative e operative
nuove e adeguate che si costruiscono sulle e con le persone, con i
professionisti e non sulle sole prescrizioni […] al fine di “creare climi
organizzativi e competenze adeguate”? C’è da dubitarne,
visto che solo dopo un decennio una riforma pratica come la Balduzzi, orientata
all’incentivazione della dimensione comunitaria ed organizzativa, trova applicazione pratica proprio grazie alla Missione 6 del PNRR e all’ACN 2016-2018
che ne ha recepito i contenuti “sociali”.
Ma oltre alle
questioni di diritto, agli Accordi collettivi e alla ristrutturazione della
rete territoriale c’è un convitato di pietra che non compare nell’intervento di
Polillo e Tognetti: quali ostacoli economico-finanziari impediscono il
cambiamento richiesto a gran voce da una martellante campagna in atto da un biennio a favore della
dipendenza?
Cosa ha impedito la realizzazione del progetto caldeggiato in mille modi dalla lobby della dipendenza, con una martellante campagna ma di fatto accantonato dal DM77? Già a
settembre 2021 gli assessori si auguravano che fosse elaborata “una valutazione
relativa al costo del lavoro e alla necessità di aumentare significativamente
gli organici se si applicassero le regole della dipendenza rispetto ad orari di
lavoro, tutela di malattia e infortunio, ferie”.
Ebbene da allora
non è stato divulgato un solo studio di fattibilità economico-finanziaria di un’operazione
che in teoria potrebbe riguardare oltre 100 professionisti convenzionati con il
SSN, con rilevanti effetti sul bilancio pubblico. E’ probabile che una simile analisi sia stata condotta e che resti custodita
nei cassetti del MEF, visto che ACN e DM77 hanno confermato l’assetto
convenzionale archiviando tacitamente la questione della dipendenza. Perché anche
lo stato giuridico deve fare i conti con la triste scienza finanziaria, specie
statale quanto mai sofferente in questa turbolenta transizione epocale.
P.S. Le caratteristiche del lavoratore autonomo esercente una professione intellettuale sono così riassumibili (articoli dal 2229 al 2238 sulle professioni intellettuali, all’interno del Titolo III sul lavoro autonomo):
- iscrizione obbligatoria ad un albo professionale che cura il codice deontologico, detiene potere disciplinare etc. sotto la vigilanza dello stato;
- l’attività professionale consiste nell’ esecuzione di una prestazione d’opera intellettuale;
- il compenso è autodeterminato, commisurato all’importanza dell’opera e al decoro della professione, e stabilito in un contratto accettato dal cliente, in regime di concorrenza;
- il compenso pattuito con il cliente, secondo le modalità stabilite dal Codice Civile, è comprensivo delle spese;
- l' esecuzione della prestazione avviene in modo autonomo e personale, eventualmente con il contributo di collaboratori, e con responsabilità solo per eventuali danni per dolo o colpa grave.