domenica 31 luglio 2022

La cronicità in MG, una sfida sistemica

                                                         GIUSEPPE BELLERI

LA GESTIONE DELLA CRONICITA’ IN MEDICINA GENERALE

Dai fattori di rischio alla fragilità: una sfida culturale, clinica
e organizzativa per la medicina del territorio

EDIZIONE KDP SETTEMBRE   2022 - pagine 216 - Leggi l’estratto al link

Disponibile su Amazon in formato cartaceo ed e-book

Pagine 216, formato cartaceo € 12,95,
formato elettronico € 6,98
 PRESENTAZIONE

La pandemia mondiale di cronicità costituisce una sfida per i sistemi sanitari su diversi fronti: per l’organizzazione, per l’economia, per i professionisti e le loro associazioni, per i decisori pubblici, per la ricerca scientifica, per i pazienti e le famiglie, per i servizi sociali ed assistenziali, per le comunità e gli enti locali. Quella della cronicità è una tipica sfida di sistema, nel senso che obbliga ad andare oltre i limiti delle visioni settoriali, superando i confini tra servizi sanitari, assistenziali e sociali.

Tale sfida implica l’interazione tra sfera clinica, socio-assistenziale, educativa etc. che si realizza nella dimensione orizzontale e non gerarchica dell'organizzazione a rete, dove i nodi sono i professionisti sanitari sul territorio, le abitazioni dei pazienti cronici, le strutture distrettuali e i fili che li connettono le relazioni tra gli attori che si alternano alla cura sul lungo periodo delle polipatologie.

In questa cornice concettuale il volume propone l’analisi delle diverse dimensioni che nel contesto territoriale condizionato l’esito della cura della cronicità dal punto di osservazione e di pratica dell’assistenza primaria, che si fa carico prioritariamente di gestire i due estremi del continuum: da un lato la cura dei fattori di rischio ad elevata prevalenza in soggetti asintomatici e sostanzialmente sani e, dall’altro, le polipatologie complesse, sintomatiche e instabili in assistenza domiciliare, che richiedono il coordinamento tra rete socio-familiare e servizi sociosanitari ed assistenziali.

La trattazione ha un intento generale e culturale, nel tentativo di un inquadramento metodologico, organizzativo ed epidemiologico alla cura individuale e alla dimensione di popolazione nel contesto sociosanitario dell’assistenza primaria. Si farà quindi ricorso ad una gamma di concetti e chiavi di lettura del fenomeno cronicità che spazia dall’economia sanitaria all’antropologia medica, dalla gestione delle politiche pubbliche all’organizzazione dei servizi, dalla dimensione epistemologica a quella cognitivo-comportamentale implicata nella gestione ordinaria e nelle riforme implementate nella seconda decade del secolo.

Il volume, in una fase di grande trasformazione per la medicina territoriale, intende contribuire al dibattito in corso sugli strumenti idonei a migliorare la gestione della cronicità con particolare riferimento al SSR lombardo dopo l’esperienza della PiC.

La prima parte del volume, dopo il capitolo dedicato agli spetti generali del problema, si focalizza sulla dimensione culturale e cognitiva in relazione al concetto di rischio, all’educazione terapeutica e alla rete sociosanitaria territoriale per la cura della fragilità.

La seconda parte tratta degli aspetti organizzativi in rapporto ai contenuti del Piano Nazionale della Cronicità, per quanto riguarda l’organizzazione dell’assistenza sul territorio, e alle innovazioni del PNRR. L'ultimo capitolo propone una revisione della riforma della presa in carico in Lombardia, arenatasi nel 2020-2021 per l'impatto della pandemia da Covid-19.

giovedì 7 luglio 2022

La lobby della dipendenza all'attacco del presunto "corporativismo anacronistico" dei libero-professionisti

Da 2 anni la “lobby” della subordinazione dei medici convenzionati motiva tale obiettivo con l’accusa di “corporativismo” libero-professionale, come fanno Polillo e Tognetti sul QS.

Per decostruire questa strategica riformatrice, di stampo giuridico-formale, viene utile il primo comandamento dell’epistemologia, ovvero il proverbiale motto “la mappa non è il territorio” e il suo corollario “il nome non è la cosa”. Detto in altri termini non sempre la rappresentazione di un evento o di un oggetto collima con la “cosa in sé”, perché purtroppo c’è sempre uno scarto, una discrepanza più o meno grande tra l’immagine che abbiamo costruito della realtà e lo stato effettivo delle cose. Insomma, nulla è come appare perchè il processo cognitivo non è un fedele rispecchiamento interno della realtà “là fuori”, come ingenuamente si è portati a ritenere.


Prendiamo il concetto di libera professione o per meglio dire di lavoro autonomo come definito dal diritto. Chiunque legga anche superficialmente il relativo Titolo del Codice Civile si rende conto che la rappresentazione dedotta dalle norme non corrisponde con la nostra odierna immagine della libera professione medica e che quest’ultima a sua volta ha poco a che fare con il profilo del convenzionato (si veda il PS). Senza entrare nei dettagli tecnici basti pensare a due tratti differenziali: il contratto, che stabilisce collettivamente l’entità del compenso, viene sottoscritto dai sindacati con il terzo pagante e non dal paziente con il professionista, mentre un lavoratore autonomo, sia professionale che artigianale, per la sola “uscita” autodetermina il proprio compenso con una cifra quasi pari ad una quota capitaria annuale, comprensiva di un numero illimitato di prestazioni.


Cosa accomuna la libera-professione “pura” dello specialista con la condizione ibrida del lavoro autonomo coordinato e continuativo dell’ACN, da sempre di matrice “parasubordinata”? Poco o nulla, ma per la lobby della dipendenza non c’è differenza, il nome coincide con la cosa ed è la prova provata del privilegio libero-professionale, frutto di un'evidente deficit di esperienza pratica nel settore. In realtà al convenzionato ne è rimasta ben poca di libertà, oppresso da una medicina amministrata che paradossalmente il collega dipendente può permettersi di ignorare, come accade spesso con le Note AIFA, alcuni LEA, le certificazioni di malattia o le prescrizioni dopo la consulenza, compiti e atti dovuti impropriamente “scaricati” sul generalista.


Della “anacronistica condizione di libero-professionisti” rimane solo una certa flessibilità organizzativa e una gestione informale, che è la condizione per affrontare la varietà e complessità della casistica sul territorio e di cui molti farebbero a meno, in cambio delle tutele della dipendenza e della liberazione dal “ricatto” della revoca.


Perché tanta insofferenza per l’autonomia? E’ un questione di sapere pratico e tacito descritto in modo limpido e condivisibile dal prof. Carlo Bellieni sul QS dello scorso 1 luglio, a proposito di una medicina incapace di farsi carico “di chi non è categorizzabile e chi non sa rivendicare e descrivere il proprio dolore e passa sotto silenzio”. La categoria è nota perché affolla gli studi dei medici del territorio: pazienti con disturbi sotto soglia, sintomi atipici, “psicosomatici” inspiegabili, inclassificabili, funzionali o idiopatici, disturbo d’ansia da malattia etc. per i quali è stata coniata un’entità nosografica ad hoc: mi riferisco ai MUS, acronimo poco noto sebbene i Medically Unexplaned Symptoms rappresentino il 20% circa dell’impegno lavorativo sul territorio.


Con quali strumenti affrontare questa multiforme e sfuggente fenomenologia? Già 40 anni or sono il cognitivista Donald Schoen metteva in guardia dall’illusione che la razionalità tecnica, facente capo a leggi e conoscenze generali a priori da applicare in modo istruttivo e top down, potesse mettere ordine in questo guazzabuglio, composto da “problemi disordinati e indeterminati che resistono a qualsiasi soluzione di tipo tecnico”.


A quel tempo ancora non prevalevano Linee Guida, PDTA, criteri classificativi, standard, algoritmi, indicatori, alberi decisionali, codifiche, stadiazioni, protocolli, vincoli prescrittivi etc. ; mappe di varia scala a cui ricorre una medicina che per Bellieni “vuole classificare tutto e non interessarsi di quello che non è classificabile”, così che “le persone e le malattie “strane”, invece di diventare casi interessanti diventano intoppi in un ingranaggio aziendale retto dall’efficientismo” prestazionale, che si accontenta “della mediocrità perché è fatto per essere routinario, ripetitivo, non creativo, senza innovazioni che generino cambiamenti”. Mappe certamente utili per orientarsi nella complessità di un territorio che però non sempre coincide con la rappresentazione canonica.


Secondo Bellieni la fuga dalla professione sta anche nell’appiattimento culturale di una medicina pre-pensata, il cui esito è la “disattenzione selettiva” del professionista che si rifugia nel “questo non è mio compito”; oppure l’ancoraggio miope ai documenti del “protocol doctor” che di fronte a problemi complessi e atipici applica in modo meccanico e acritico le conoscenze preconfezionate dei protocolli. Schoen ammoniva i professionisti sul fatto che di fronte alla varietà, unicità, incertezza, instabilità e conflitti di valori proposti della pratica l’approccio tecnico non è in grado di dare risposte adeguate alla sfida che la complessità pone alla “scienza impareggiabile”. Invece per molti il generalista dipendente sarebbe un ideale e docile travè professionale, ligio all’applicazione ripetitiva delle direttive protocollari “perinde ac cadaver”, a mo’ di un affidabile impiegato esecutivo privo di autonomia decisionale e discrezionalità interpretativa.


 La dissonanza cognitiva tra la prima parte dell'intervento (Polillo) e la seconda (Tognetti) è notevole ed è sfuggita agli stessi autori. Qualcuno è davvero convinto che l’ennesima riforma e un nuovo stato giuridico, “ontologico” e calato top down senza la condivisione dei destinatari, serva al (fantomatico) “libero professionista” convenzionato per affrontare efficacemente un’impari sfida pratica?


 E' possibile imporre ope legis un nuovo profilo giuridico-formale, quasi che “sia sufficiente definire nuove norme per ottenere un cambiamento […] con l'idea "che prescrivere sia sufficiente per sviluppare collaborazioni virtuose” come ammoniscono i due autori; gli stessi nel contempo sottolineano che per “ogni cambiamento serve un capitale culturale adeguato e una comprensione della riforma in atto di tipo capillare, sia sul versante del personale che in particolare sul versante dei cittadini”.

Il cambiamento dello status giuridico basta per promuovere “culture organizzative e operative nuove e adeguate che si costruiscono sulle e con le persone, con i professionisti e non sulle sole prescrizioni […] al fine di “creare climi organizzativi e competenze adeguate”? C’è da dubitarne, visto che solo dopo un decennio una riforma pratica come la Balduzzi, orientata all’incentivazione della dimensione comunitaria ed organizzativa, trova applicazione pratica proprio grazie alla Missione 6 del PNRR e all’ACN 2016-2018 che ne ha recepito i contenuti “sociali”.

Ma oltre alle questioni di diritto, agli Accordi collettivi e alla ristrutturazione della rete territoriale c’è un convitato di pietra che non compare nell’intervento di Polillo e Tognetti: quali ostacoli economico-finanziari impediscono il cambiamento richiesto a gran voce da una martellante campagna in atto da un biennio a favore della dipendenza? 

Cosa ha impedito la realizzazione del progetto caldeggiato in mille modi dalla lobby della dipendenza, con una martellante campagna ma di fatto accantonato dal DM77? Già a settembre 2021 gli assessori si auguravano che fosse elaborata “una valutazione relativa al costo del lavoro e alla necessità di aumentare significativamente gli organici se si applicassero le regole della dipendenza rispetto ad orari di lavoro, tutela di malattia e infortunio, ferie”.

Ebbene da allora non è stato divulgato un solo studio di fattibilità economico-finanziaria di un’operazione che in teoria potrebbe riguardare oltre 100 professionisti convenzionati con il SSN, con rilevanti effetti sul bilancio pubblico. E’ probabile che una simile analisi sia stata condotta e che resti custodita nei cassetti del MEF, visto che ACN e DM77 hanno confermato l’assetto convenzionale archiviando tacitamente la questione della dipendenza. Perché anche lo stato giuridico deve fare i conti con la triste scienza finanziaria, specie statale quanto mai sofferente in questa turbolenta transizione epocale. 

P.S. Le caratteristiche del lavoratore autonomo esercente una professione intellettuale sono così riassumibili (articoli dal 2229 al 2238 sulle professioni intellettuali, all’interno del Titolo III sul lavoro autonomo):

  • iscrizione obbligatoria ad un albo professionale che cura il codice deontologico, detiene potere disciplinare etc. sotto la vigilanza dello stato;
  • l’attività professionale consiste nell’ esecuzione di una prestazione d’opera intellettuale;
  • il compenso è autodeterminato, commisurato all’importanza dell’opera e al decoro della professione, e stabilito in un contratto accettato dal cliente, in regime di concorrenza;
  • il compenso pattuito con il cliente, secondo le modalità stabilite dal Codice Civile, è comprensivo delle spese;
  • l' esecuzione della prestazione avviene in modo autonomo e personale, eventualmente con il contributo di collaboratori, e con responsabilità solo per eventuali danni per dolo o colpa grave.