Tutto è iniziato un giovedì con il blocco della ricetta dematerializzata accompagnato da un incomprensibile messaggio informatico, prontamente riferito al Call Center (da ora CC) del programma di gestione della cartella clinica. Sono seguite due settimane di passione, a base di di telefonate quotidiane ai vari CC informatici, sedute di teleassistenza e relativi rimpalli della competenza a risolvere il problem, fino alla decisione finale di reinstallare il programma del SISS per incapacità a superare il blocco delle prescrizioni.
L'esperienza del problem solving informatico è troppo simile al quotidiano processo diagnostico- terapeutico per non suggerire qualche miglioramento della metodologia di definizione e soluzione del problema, al fine di ridurre i tempi, migliorare la funzione del call center e la soddisfazione dei “clienti”.
Ad entrambe le parti in causa, medici ed operatori del CC, dovrebbe stare a cuore qualità, efficacia ed efficienza del proprio lavoro, a meno che ci si arrenda a priori ad inefficienza e scarsa professionalità. Ecco dunque alcune schematiche osservazioni di metodo per migliorare la "clinica" informatica in analogia con quella medica.
1-La sensazione, ad ogni contatto con l'operatore, è quella di scarso ascolto e soprattutto di po- considerazione per il problema descritto, da cui ad ogni successivo accesso al CC la necessità di documentare ogni volta il problema con una dimostrazione a video, come accade quando il medico presta poca credito al sintomo lamentato dal paziente, ritenuto poco affidabile e quasi un simulatore.
Questa diffidenza comporta la ripetizione delle stesse operazioni ad ogni contatto con inevitabile perdita di tempo da entrambe le parti.
2-Quando poi si passa al tentativo di soluzione del problema inizia il gioco dei rimandi da un CC all'altro e da una teleassistenza all'altra anche all'interno dello stesso CC. Il fatto è che l'operatore non tiene una sorta di diario clinico come si fa in medicina, in cui annota il problema e i tentativi di soluzione, per cui tutti sono condannati come Sisifo a ripetere gli stessi tentativi. Sarebbe come se un medico omettesse di annotare la prescrizione di un accertamento diagnostico e quindi il sostituto, la settimana successiva, o lo stesso medico dopo alcuni mesi prescrivesse sempre il medesimi accertamento, che si è dimostrato inutile ed inefficace per raggiungere la diagnosi.
3-La mancanza del "diario clinico" ha il deleterio effetto collaterale di bloccare il processo collettivo di soluzione del problema per tentativi, che sta alla base della metodologia clinica(medica ed informatica) e dell'accorciamento dei tempi della diagnosi e della terapia informatica. In sostanza ad ogni contatto gli operatori sono costretti a ripetere le stesse procedure che, nelle precedenti telefonate, si erano già dimostrate inefficaci a definire e risolvere il problema. Tra l'altro si dice in medicina che l'ultimo medico che vede un paziente è quello più avvantaggiato e può fare bella figura proprio perchè beneficia dei tentativi inefficaci precedentemente messi in atto dai colleghi, ed è quindi nelle migliori condizioni per "azzeccare" la diagnosi corretta,specie se si tratta di una patologia rara. Perchè il percorso diagnostico è in sostanza costellato da tentativi di soluzione, eliminazione di quelli inefficaci in una progressiva selezione che conduce in tempi più o meno rapidi alla soluzione finale. Se invece l'operatore annotasse i tentativi non risolutivi e soprattutto quelli che invece hanno avuto buon esito, potrebbe condividere questo sapere pratico e le relative soluzioni trovate estemporaneamente con i colleghi e con l'intera comunità degli operatori del CC.
In questo senso in ogni impresa o servizio si verificano occasioni e si realizzano forme di apprendimento organizzativo (1).
Come osserva il sociologo Domenico Lipari “attraverso l’improvvisazione gli attori fanno fronte ad impreviste (ed improvvise) situazioni problematiche, rispetto alle quali il bagaglio delle risposte di routine non è sufficiente per lo svolgimento ordinario del proprio compito lavorativo: procedendo per prova ed errore, inventano soluzioni nuove ai problemi e in tal modo apprendono e generano nuova conoscenza utile alla loro pratica […], alla (e soprattutto si condivide la) soluzione dei problemi e si rendono disponibili per tutti le conoscenze di ciascuno, generando in tal modo il sapere collettivo proprio del gruppo [come] parte integrante della memoria collettiva del gruppo e della sua identità”*.
4-Infine non è infrequente che l'operatore di fronte ad un "sintomo" specifico, come quello riportato più sopra che segnala anche la natura del problema, mette in atto una strategia cognitiva di disattenzione selettiva per il sintomo stesso, come accade non di rado in medicina quando un medico non riesce a dare una spiegazione immediata del disturbo lamentato dal paziente. Invece di valorizzare il valore segnaletico e semeiotico del messaggio lanciato dal PC, come nel mio caso, si decide deliberatamente di rinunciare a dare una spiegazione della “patologia” (naming) o perlomeno una vaga interpretazione del disturbo informatico (framing), ributtando la palla nel settore specialistico altrui, nel mio caso rimandando ad un'altro operatore o CC.
Il combinato disposto di queste problematiche denota una carente preparazione metodologica, un deficit di riflessione nel corso dell'azione con inevitabile allungamento dei tempi, necessità di ripetuti contatti con i CC e la dilazione della soluzione del problema, che interferisce non poco con l'attività ambulatoriale. Mi auguro che queste annotazioni possano contribuire al miglioramento della funzionalità “clinica” del CC.
*Domenico Lipari “La comunità di pratica come contesto sociale di apprendimento, di produzione e di rielaborazione delle conoscenze”, in Antropomorfismi, Quaderni CERCO, Guaraldi Editore.
(1) «L’apprendimento organizzativo si verifica quando gli individui all’interno di un’organizzazione sperimentano una situazione problematica e, nell’interesse dell’organizzazione, la indagano. Essi esperiscono la sorpresa della mancata corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell’azione, reagendo con un processo di pensiero e di nuovi corsi d’azione che conducono a modificare le immagini dell’organizzazione o il modo di intendere i fenomeni organizzativi, e a ristrutturare le attività così da allineare risultati e aspettative, modificando, in questo modo, la teoria-in-uso organizzativa. perché l’apprendimento derivante dall’indagine organizzativa divenga organizzativo, esso deve radicarsi nelle immagini dell’organizzazione conservate nelle menti dei suoi membri e/o negli artefatti cognitivi (le mappe, le memorie e i programmi) radicati nell’ambiente organizzativo» [Argyris e Schön,"APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO", Guerini & Associati, Milano, 1998, p. 30].