La ridondanza è ambigua, perché se non ci sono imprevisti sembra uno spreco. Il punto è che le cose insolite accadono, di solito. Nassim Nicholas Taleb
La campagna mediatica in atto da alcune settimane per trovare un comodo "colpevole" delle carenze e dei limiti della risposta sistemica alla pandemia ha preso di mira la sanità territoriale e in particolare il MMG. Nei precedenti post ho abbozzato un'analisi della risposta organizzativa al Covid-19, focalizzata sulle differenze tra ospedale e territorio, utilizzando la chiave di lettura della difesa del nucleo tecnico ( https://tinyurl.com/y5gln3g4 ) e la cornice concettuale del dilemma della complessità ( https://tinyurl.com/yyancahf ).
1-Negli
ultimi 20 anni la gestione delle cure primarie si è progressivamente "ospedalizzata",
nel senso che si è passati da un modello assistenziale artigianale, praticamente aperto all’ambiente,
ad un sistema organizzativo chiuso a protezione di un embrionale nucleo
tecnico. Fino alla prima riforma sanitaria del 1978 non vi era di fatto separazione
tra la MG e il suo ambiente in quanto il “generico” vi era completamente immerso:
o meglio il rapporto con l’ambiente era caratterizzato da una porosità fatta di H24, visite in studio senza appuntamento, assenza di collaboratori, conoscenza e
legame stretto tra medico l’ambiente sociale e la comunità di cui era parte,
scarsi vincoli prescrittivi ed ampia autonomia professionale per una sorta di
delega in bianco alla professione della sanità sul territorio. Erano gli anni del tramonto del mutualista e del condotto che, specie nelle realtà
rurali, era un punto di riferimento per la salute di tutto il paese, della
culla al letto di morte.
A
partire dagli anni ottanta e con un’accelerazione sul finire del secolo, a
seguito dell’entrata in servizio dei MMG “specializzati” al Corso di formazione
specifica, anche la medicina del territorio ha iniziato il processo di evoluzione organizzativa che è sfociato dapprima nelle medicine di gruppo e nella fase più recente nella
diffusione delle case della salute, per iniziativa della parte pubblica nelle
regioni più attente al territorio. Si è avviato un processo di differenziazione
funzionale e dei compiti, affidati a diverse figure professionali,
parzialmente autonome dal MMG, con un crescente complessità gestionale
in una doppia direzione: da un lato con diversificazione dell’offerta, per venire incontro alla varietà della domanda e, dall’altro, con una
maggiore selettività dei rapporti con l’ambiente. La spinta al cambiamento della gestionale è venuta sia dall’interno (necessità di
rispondere all’aumento dei carichi di lavoro per la prevalenza delle patologie
croniche su quelle acute) sia dall’esterno (parallelo incremento della
componente burocratico-amministrativa e dei vincoli prescrittivi).
La
diversificazione organizzativa è passata da un radicale cambiamento dei
rapporti con l’ambiante, nel senso della regolazione dell’accesso al “nucleo
tecnico”, ovvero alla consultazione medica. Fino a pochi decenni prima gli unici
servizi che garantivano ai cittadini un'accessibilità incondizionata, senza alcun
filtro al contatto, erano il PS in ospedale e sul territorio la MG. Con la
progressiva introduzione degli appuntamenti per migliorare l’appropriatezza
gestionale, clinica e temporale anche la MG si è allineata alle modalità di consultazione
tipicamente ospedaliere, con due effetti collaterali empirici: allungamento dei tempi d’attesa
per le visite su appuntamento e difficoltà di gestione delle urgenze e
soprattutto delle pseudo-urgenze ambulatoriali e domiciliari, da sempre il
tallone d’Achille della MG per via di richieste spesso inappropriate (le
cosiddette “prestazioni non rinviabili”).
Di
fatto in modo tacito e progressivo la mission professionale delle cure primarie si è spostata dalla risposta alle situazioni acute ed pseudo-emergenziali alla presa in
carico e alla gestione della cronicità, sia a livello ambulatoriale sia
domiciliare in caso di non-autosufficienza, disabilità, invalidità. Parallelamente
la domanda per problematiche urgenti o percepite come tali si è spostata sulle
strutture di PS, tecnologicamente attrezzare per valutare e rispondere alle
condizioni di rischio, mentre il territorio, per un incolmabile dislivello di
strumentazione tecnologico-specialistica, si è sempre più
indirizzato verso la cronicità.
In
pratica l’evoluzione organizzativa della MG ha tentato di ricomporre i due
corni del dilemma della complessità, nel segno della difesa del nucleo tecnico:
è aumentata la differenziazione dell’offerta organizzativa (visite su
appuntamento, ambulatori dedicati, collaboratori di studio, ambulatorio
infermieristico etc..) e in parallelo è stata accompagnata da una maggiore selezione
della domanda, per indirizzarla verso il percorso organizzativo più appropriato
tra quelli proposti, a scapito dell’accessibilità.
2-Di
fronte allo shock pandemico questo modello organizzativo ha avuto maggiori
difficoltà a mobilitarsi rispetto a quello ospedaliero, più diversificato ed
appropriato nella gestione tecno-specialistica delle emergenze. Tuttavia la
risposta ospedaliera è andata a scapito delle altre prestazioni rivolte a patologie
acute non urgenti e soprattutto a quelle croniche ambulatoriali (rinvio di
esami, visite specialistiche, accertamenti strumentali, day-hospital, ricoveri
ed interventi programmati). Al contrario la medicina territoriale ha continuato
a seguire questa fetta di popolazione, oltre a garantire un approccio
diagnostico e terapeutico per i casi di Covid-19 meno impegnativi, seppure a distanza o
con la delega alle USCA, “specializzate” e meglio attrezzate per affrontare l’elevato
rischio infettivo domiciliare.
Riguardo alle forme organizzative più evolute e complesse, come le case della salute, il ritardo è evidente in molte regioni come la Lombardia; le scelte di policy hanno privilegiato il quasi mercato concorrenziale tra I° e II° livello, come leva di un cambiamento radicale, che tuttavia non si è concretizzato specie sul versante ospedaliero. Cionondimeno in passato la MG ha sempre gestito le epidemie influenzali facendo leva sulle proprie risorse e sulla riserva di ridondanza organizzativa, grazie all’approccio generalista trasversale e “toti potente”, per usare il gergo dell’eritropoiesi. Ma con il Covid le cose si sono complicate a causa di un virus ben più insidioso e potenzialmente letale rispetto a quello influenzale ( https://tinyurl.com/y5arrejz ), come dimostrano i numeri dei colleghi caduti sul campo affrontando a mani nude il Sars-Cov 2 nella prima ondata. Era necessario un salto di qualità organizzativo per minimizzare l'elevatissimo rischio infettivo, che anche nella seconda fase è costato la vita di numerosi MMG pur dotati di adeguati DPI; solo in ospedale è stato possibile affrontare con maggiore sicurezza tale rischio a prezzo però di abbandonare buona parte delle attività cliniche e della domanda di prestazioni diagnostico-strumentali esterne.
Proprio
per questi motivi solo strutture ben organizzate, poste in una posizione strategica di
mediazione tra ospedale e studi dei MMG come la rete di distretti sanitari,
potevano garantire quella riserva di ridondanza sistemica necessaria per
mobilitare sul territorio risorse di resilienza e adattamento allo stress test pandemico.
E’ pur vero che con le USCA si è tentato di correre ai ripari, proponendo un servizio dedicato al Covid-19 e non a caso di impronta specialistica ospedaliera centralizzata. Tuttavia la risposta
operativa è stata inferiore alle necessità in molte regioni in quanto è mancato il supporto
organizzativo della rete distrettuale territoriale, indebolita dai tagli dei
servizi se non deliberatamente smantellata per precise scelte policy regionali come in Lombardia. In sostanza alla gestione extra-ospedaliera del Covid-19 è mancato
soprattutto il coordinamento e il collante integrativo di una efficiente rete di presidi sanitari distrettuali sul territorio.
3-Da
più parti per riformare la sanità territoriale viene proposta la traslazione
del modello organizzativo ospedaliero sulle cure primarie, con la formula del
poliambulatorio multiprofessionale, sul modello delle “case della salute” o delle Unità
Complesse delle cure primarie, peraltro già previste dalla riforma Balduzzi ma rimaste
sulla carta in molte zone. Questa soluzione è sicuramente adatta ai contesti
urbani ad alta densità abitativa ma, per cause di forza maggiore, non si può
estendere a tutte le aree geo-demografiche. Infatti il 30% circa degli italiani vive in comuni con meno di 10 mila abitanti e quasi il 20 sotto i 5
mila, dove lavorano da 1 a 6 MMG, spesso in zone disagiate, con popolazione sparsa
in piccole frazioni dove è improponibile il modello della casa della salute
urbana, per evidenti problemi logistico-infrastrutturali, di costi fissi e di
economia di scala. Bisogna sottolineare che si tratta di aree già
abbandonate dalla razionalizzazione della sanità pubblica, a base di chiusura
di piccoli ospedali, lontane dai maggiori centri abitati e dai
grandi nosocomi, con difficoltà di spostamenti e logistici, che favoriscono ancora
di più lo spopolamento e l'abbandono del territorio, specie montano ed appenninico.