giovedì 9 aprile 2020

Covid-19 in Lombardia: criticità gestionali e scelte strategiche

Mentre a livello politico ferve il confronto sulla fase 2, per quanto riguarda l'economia, si è aperto il dibattito sul futuro della sanità lombarda dopo lo tsunami del Covid-19, che per un mese ha messo a dura prova la tenuta del SSR. Il confronto pubblico, per quanto riguarda le cure primarie, è iniziato con la lettera dei colleghi del basso lodigiano, pubblicata il primo aprile (si veda il PS) a cui sono seguiti numerosi interventi sulle criticità della gestione emergenziale, sia con prese di posizioni ufficiali, come quella dei presidenti degli ordini provinciali dei medici, sia con considerazioni individuali, come quelle di Angelo Capelli avvocato ed estensore della riforma sanitaria del 2015, e di altri opinion leader come Silvio Garattini. 

Il filo conduttore delle analisi converge su un punto ineludibile: la scarsa attenzione verso il governo del territorio e la conseguente necessità di investimenti nelle strutture organizzative ed associative delle cure primarie, a partire da quelle dei MMG già previste dalla Riforma Balduzzi del 2012 disattesa in Lombardia; sono numerose le scelte di politica sanitaria dell'ultimo decennio, a monte dell'epidemia di Covi-19, che hanno sottovalutato e trascurato le potenziali risorse del territorio per una ben precisa impostazione strategica. Le policies regionali hanno puntato tutto sulla competizione tra “erogatori di prestazioni” per l'acquisizione di fette del "quasi mercato" regionale - come nel caso della riforma della Presa in Carico (PiC) della cronicità - a scapito della cooperazione ed integrazione tra diversi livelli assistenziali. Ecco una sintesi delle posizioni con riferimento alla medicina del territorio.
I presidenti degli Ordini  provinciali dei Medici della Lombardia criticano in modo collegiale “la gestione confusa della realtà delle RSA e dei centri diurni per anziani, che ha prodotto diffusione del contagio e un triste bilancio in termini di vite umane (nella sola provincia di Bergamo 600 morti su 6000 ospiti in un mese); la mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio (MMG, PLS, CA e medici delle RSA) e al restante personale sanitario; la pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati e contatti, etc…); la mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari del territorio e in alcune realtà delle strutture ospedaliere pubbliche e private; il mancato governo del territorio che ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri con la necessità di trattenere sul territorio pazienti che, in altre circostanze, avrebbero dovuto essere messi in sicurezza mediante ricoveroLa situazione disastrosa in cui si è venuta a trovare la nostra Regione, anche rispetto a realtà regionali viciniori, può essere in larga parte attribuita alla interpretazione della situazione solo nel senso di un’emergenza intensivologica, quando in realtà si trattava di un’emergenza di sanità pubblica. La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate nella nostra Regione”.
Gli fa eco l’avvocato Angelo Capelli a proposito dei “Presidi socio-sanitari territoriali che dovevano assistere i malati cronici collegando la prevenzione ai ricoveri ospedalieri, l’assistenza domiciliare integrata e i servizi sociali, per seguire meglio i pazienti che non necessitavano dell’ospedale. Purtroppo, devo dire oggi, questa parte della legge è rimasta lettera morta e il territorio ‘scoperto’” tantè che “tocchiamo drammaticamente con mano le conseguenze di quella scelta. Il territorio lombardo è rimasto completamente scoperto e gli ospedali lombardi hanno fronteggiato da soli l’epidemia e a differenza del Veneto, non potendo beneficiare della funzione di filtro che la Rete territoriale doveva garantire…Un evidente errore. Forse l’applicazione del modello previsto nella legge regionale del 2015, che ho contribuito a scrivere, avrebbe contribuito a salvare oggi tante vite umane. In altri termini si sta cercando di creare sotto l’urgenza delle circostanze e con enorme dispendio quella rete territoriale che non è stata attuata prima”.
Silvio Garattini alla domanda sugli insegnamenti da trarre dopo questa emergenza, così risponde: «Il primo riguarda il servizio sanitario nazionale, che deve essere ripensato,nel senso di adeguarlo ai nuovi bisogni. La globalizzazione non potrà che continuare e porterà nuovamente a situazioni analoghe a questa: circolano le persone, circolano le merci e quindi circolano anche virus e batteri. Dobbiamo ripensare al rapporto tra territorio e ospedale: abbiamo esagerato con una visione ospedalocentrica, è necessario invece rafforzare la medicina del territorio, non lasciare i medici di famiglia da soli, ma creare strutture e gruppi, facendo in modo che possano essere veramente il primo filtro, prima dell’accesso al pronto soccorso e all’ospedale. Questo è un aspetto molto importante, perché senza un filtro l’ospedale non può risolvere tutti i problemi».
Enrico Desideri, già coordinatore nazionale di Federsanità, è convinto che “la Sanità deve rilanciare il tema che costituisce il fondamento della L 833/78: la partecipazione di tutti al bene comune. Il Distretto Socio Sanitario costituisce, specie con gli accorpamenti - a volte decisamente eccessivi – delle ASL, l’interfaccia naturale ed autorevole per progetti integrati con il Volontariato e i Comuni non “calati dall’alto”, ma disegnati, discussi e condivisi da chi è espressione dei bisogni di tutti e delle straordinarie potenzialità delle nostre Comunità, come dimostrato in modo incontestabile dalla emergenza che stiamo vivendo a causa del COVID. La necessità di rivedere e valorizzare il ruolo del Distretto Socio-sanitario rappresenta a mio giudizio il settimo aspetto emerso in questo particolare periodo, in molte Regioni, ad oggi, il suo ruolo è del tutto incerto (addirittura in alcuni convegni l’ho sentito scambiare con il Poliambulatorio, il poliambulatorio ex INAM!!!) mentre, a mio parere, costituisce un fattore organizzativo indispensabile se vogliamo superare le incomprensioni e le, a volte solo apparenti, difficoltà del SSN italiano”. 
Carmela Rozza, consigliera regionale del PD, evoca uno “uno sforzo poderoso di revisione e riconversione del sistema lombardo; tenuto conto che “la medicina e l’assistenza territoriale e a domicilio, se sono essenziale in questo momento, lo saranno ancora di più alla ripartenza” occorre “dotare i Medici di famiglia di tutti i DPI e le dotazioni strumentali per svolgere la loro preziosa attività di diagnosi, cura e controllo sul territorio e metterli in rete; potenziare e rafforzare, anche quantitativamente, le USCA per una diffusione capillare delle cure territoriali e un incremento del personale dedicato mantenuto in stretta connessione con gli MMG; potenziare e implementare le risorse umane dei dipartimenti di prevenzione e dei servizi di medicina del lavoro al fine di rafforzare e gestire la sorveglianza sanitaria; incentivare fattivamente lo sviluppo dell’aggregazione dei Medici di famiglia in cooperative che possano, nel concreto, meglio gestire anche la presa in carico dei pazienti cronici e il potenziamento delle cure al domicilio delle persone e sul territorio”.

Dal canto loro gli ex direttori dei dipartimenti di prevenzione di alcune ATS lombarde osservano che "il disastro che la pandemia da covid 19 ha prodotto in Lombardia ha tra le cause, come già è stato sottolineato anche dai media, il collasso della medicina del territorio. Ha certo influito il modello Lombardo, unico nel paese di separazione tra ente di acquisto e regolazione delle prestazioni sanitarie (oggi Agenzia Tutela Salute-ATS) e aziende erogatrici pubbliche e private, messe su un piano di competizione paritario. In tutte le altre regioni le AUSL hanno un governo unitario del sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie di base e specialistiche che si è rivelato molto più efficace ed efficiente nel governo della pandemia. Il più recente provvedimento di trasferimento alle Aziende Ospedaliere (ASST) della funzione di governo dei servizi di Medicina di base sottraendolo insieme al personale all’ATS ha ulteriormente indebolito la gestione unitaria della medicina territoriale".
Se si fosse applicata la riforma del 2015, come sottolinea l’avvocato Capelli, a sua volta ispirata al Libro Bianco sella sanità lombarda del 2014, forse le cose in Lombardia sarebbero andate diversamente perlomeno sul territorio. Invece, in ossequio ai “dogmi” del quasi mercato sanitario - in contraddizione con le azioni programmatiche previste dalla legge 23 e dal Piano Nazionale della Cronicità - è stata varata una riforma della Presa in Carico della cronicità e fragilità (PiC) che intendeva spostare i malati dalle cure del MMG alla medicina ospedaliera, sovraccaricando le strutture di compiti impropri. Il vicolo cieco in cui si trova la PiC è l’altra faccia della medaglia della dolorosa esperienza di abbandono vissuta dai colleghi della zona rossa del basso lodigiano, descritta nell'accorata lettera riportata in calce, e pagata con la vita da quattro di loro: Giuseppe Borghi, Ivano Vezzulli, Marcello Natali, Andrea Carli. Che almeno il loro sacrificio possa essere di monito e di ispirazione per le future politiche regionali!

Per approfondimenti si veda anche:
P.S. La Repubblica Milano, Lettera del 1 aprile 2020

NOI MEDICI LASCIATI SOLI SUL TERRITORIO LODIGIANO

Siamo medici di famiglia della prima zona rossa - Codogno per intenderci – e limitrofi. Abbiamo sempre fatto i medici e tuttora li facciamo. Nei primi giorni dal 21 febbraio molti di noi sono stati messi in quarantena – visitammo senza protezioni, senza sapere ancora, pazienti subito dopo ricoverati per Covid-19, molti non ritornati vivi. Dalla quarantena abbiamo lavorato: telefono acceso non 12 ore su 24, ma 24 su 24 e 7 giorni su 7, ricette online, ricette a mano, passate con ogni precauzione attraverso il cancello di casa!..
Siamo poi di nuovo scesi in campo, visite domiciliari e ambulatoriali, strettamente dopo triage telefonico, con DPI ridotti: alcuni camici, guanti, visiere recuperati dalla pregressa emergenza Sars, mascherine protettive ffp2/ffp3, dateci dall'Ats in numero di tre, da 5 settimane a questa parte (sono mascherine monouso). Ad oggi la nostra Ats non ha ancora attivato le Usca né l'Adi Covid 19, servizi domiciliari con personale attrezzato con tamponi e protezioni, per altro già attivi a Piacenza, a Bergamo; le autorità sanitarie non ci permettono di prescrivere i tamponi, i farmaci potenzialmente utili per il trattamento delle decine di casi Covid-19 che stiamo curando a casa, addirittura ci hanno redarguito (sic!) per le nostre prescrizioni di ossigeno a domicilio.
Quando al telefono un nostro paziente ci chiede aiuto, conforto, come possiamo sentirci se non smarriti, impotenti, senza mezzi? D'altronde non ci hanno proposto alcun protocollo di cura: ci stiamo informando autonomamente e stiamo facendo esperienza sul campo. Ci confrontiamo con i colleghi in gruppi Wha- tsApp o in rete, scambiandoci informazioni, dati clinici, schemi terapeutici proposti alle dimissioni ospedaliere…
Noi che siamo medici possiamo tranquillamente dichiarare che le autorità sanitarie ci hanno aiutato molto poco/nula; possiamo dichiarare che la lentezza con cui si stanno muovendo è degna di una burocrazia kafkiana. Pare proprio che i nostri politici, anche sanitari, non abbiano ancora capito la portata del problema: oggi a Castiglione d'Adda, paese di origine del paziente 1, il numero dei casi positivi e delle morti è uguale a quello dell'intero Friuli Venezia Giulia; in questi comuni su 60 tamponi fatti dall'Avis, 40 sono positivi asintomatici...
La "quantità" di malattia vista dal punto ospedaliero è solo la punta di un iceberg! Abbiamo in realtà trovato nel personale dell'Ats anche persone molto disponibili e sicuramente impegna-te per affrontare l'emergenza. Ma l'impegno costante e faticoso di noi medici del territorio non è assolutamente stato supportato, né lo è oggi. E noi siamo i medici che rispondono alle decine e decine di chiamate dei cittadini malati, spaventati, bisognosi, sconcertati, siamo noi che diamo risposte, prescriviamo i farmaci e i pochi esami che abbiamo ora a disposizione, spieghiamo ciò che si può e non si può fare, visitiamo chi ha la tosse e chi ha dolore al petto, chi ha il Covid e chi ha tutt'altro…
Chiediamo di essere considerati come tali e come tali rispettati, informati, considerati, tutelati. Infine doverosa è la nostra testimonianza nei confronti dei nostri colleghi deceduti per Covid-19: Giuseppe Borghi, Ivano Vezzulli, Marcello Natali, Andrea Carli.
O. Zanaletti; C. Pontini; I. Roverselli; A. Alberini; M.C. Negri; M. Casa

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