sabato 30 maggio 2020

Dubbi e domande sull'epidemia di Covid-19

Inizio della pandemia. Si susseguono le segnalazioni di focolai di polmonite pre pandemia che confermerebbero l’ipotesi di una retrodatazione di mesi dell’esordio pandemico. Si va dall’inizio dell’autunno a Wuhan, in occasione delle universiadi, alla fine del 2019 in Italia, con la segnalazione di strane polmoniti tra il basso lodigiano e il piacentino. Nel focolaio italiano un dato è certo: l’evoluzione dell’epidemia dalla fatidica settimana di febbraio a partire dai due focolai dell’ospedale di Codogno e di Alzano lombardo è stata fulminea ed esponenziale, arrivando al picco nell’arco di 3 settimane. La domanda è semplice: possibile che il presunto Covid19 a fine dicembre nel piacentino non abbia infettato l’intera struttura, come è accaduto ad Alzano lombardo dopo l’improvvida riapertura dell’ospedale? Non è strano che se ne sia stato buono buono per 2 mesi e si sia diffuso nel lodigiano solo a marzo con quella virulenza, evidentemente sconosciuta a dicembre? Delle due l’una: non si trattava di polmoniti da Covid-19, oppure il virus nei due mesi è mutato tanto da divenire estremamente contagioso ed “aggressivo” (ipotesi poco probabile).
I tamponi positivi. Da settimane vengono segnalati giornalmente circa 500 tamponi positivi a fronte di riduzioni dei ricoveri, sia in PS che nei reparti medici e intensivi, e del costante aumento dei guariti. Da almeno 45 giorni a questa parte i tamponi vengono eseguiti per tre obiettivi:
  1. screening, ad esempio sul personale sanitario, 
  2. diagnosi in caso di sintomi sospetti e 
  3. conferma della guarigione nei convalescenti dopo 14 giorni di quarantena. 
Visto l’andamento dei ricoveri e il costante calo degli accessi in PS, il crescente numero di tamponi eseguiti giornalmente (sempre oltre i 50 mila) e la bassa percentuale di positivi (1-2%) è lecito ipotizzare che buona parte di questi ultimi appartengano alla prima e terza categoria. Perché non si riesce ancora a fornire un dato differenziato dei tamponi, ovvero che distingua quelli diagnostici relativi ai nuovi casi da quelli eseguiti in soggetti asintomatici o guariti? Per quel che può valere l’esperienza personale, una decina di miei assistiti ha eseguito il tampone nel mese di maggio per una sintomatologia sospetta o per conferma della guarigione: quelli diagnostici sono risultati tutti negativi mentre tra gli altri ben tre hanno dato esito debolmente positivo. Non sarebbe opportuno scorporare dal totale i tamponi positivi su base clinica, cioè prescritti a soggetti sintomatici sul territorio o in PS?

Sierologia. Il prof. Vespignani, fisico prestato all'epidemiologa virale, ha pubblicamente squalificato i test sierologici per il loro limitato valore predittivo, nell'attuale contesto epidemico, il cui esito avrebbe lo stesso significato del lancio della monetina. Perchè dovrebbe essere insignificante il test per la ragazza che a fine febbraio ha avuto una rinite tanto prolungata quanto debilitante da costringerla a letto per una settimana? Oppure perchè ritenere superflua la sierologia risultata positiva nella coppia di sessantenni, sebbene l'uno ha accusato a marzo febbre per 10 giorni mentre l'altra è rimasta sempre asintomatica contagiando il marito? Perchè gli epidemiologi non considerano che oltre alle popolazioni esiste anche un'interessante ed istruttiva gamma di vicende cliniche individuali?
Tecnologia. Trionfa la retorica sulle virtù della tecnologia elettronica come risposta all’emergenza Coronavirus, dalla videosorveglianza clinica alle app per il tracciamento dei contagi, dall’insegnamento a distanza ai webinar in sostituzione della formazione residenziale. Si tratta di strumenti utili per la fase emergenziale ma che difficilmente potranno reggere con il ritorno alla normalità. Sull’insegnamento a distanza, dopo l’esperienza pratica di questi mesi, è stato detto tutto il male possibile e non a torto, mentre l’app viene lanciata nella fase di remissione dell’epidemia, perlomeno in ¾ delle regioni. Riguardo a videosorveglianza clinica e app – ammesso e non concesso che venga scaricata almeno dal 50% dei cittadini - che prospettive avranno nei prossimi mesi quando, come tutti ci auguriamo, avremo finalmente raggiunto il traguardo dei casi zero? 
 Vaccinazioni influenzali. Si discute della proposta di rendere obbligatoria la vaccinazione antinfluenzale per fronteggiare un’eventuale ripresa autunnale del Covid-19. La motivazione è semplice: con la vaccinazione si “eliminano” a priori i casi di influenza e quindi la diagnosi di Covi-19 è più agevole, poichè è difficile nella pratica distinguere tra le due virosi. Si dimenticano però tre elementi, ben noti ai medici pratici, che complicano un po’ le cose:
  •           la vera e propria influenza si manifesta tipicamente per 6 settimane da fine dicembre a marzo mentre
  •          prima e dopo l’epidemia invernale, a partire da ottobre e fino all'inizio della primavera, sono costantemente presenti focolai locali di sindromi influenzali (riniti e rinofaringiti acute) e di virosi intestinali che porranno comunque il dubbio della diagnosi differenziale con il Covid-19, vista la sua poliedricità clinica
  •          infine la vaccinazione influenzale ha un’efficacia che arriva al massimo al 60% e quindi una quota consistente di “influenzati” metterà pur sempre in crisi i medici pratici, che dovranno ricorrere inevitabilmente al tampone per sciogliere i dubbi diagnostici.
Già in queste settimane primaverili, a causa del “trionfo” dell’euristica della disponibilità, ogni minimo disturbo febbrile evoca la minaccia del Coronavirus fino al rischio di indurre, alla lunga, la tipica sindrome “al lupo, al lupo”. 
 Recidiva autunnale e attenuazione del virus. Si sono sentiti i pareri e le previsioni più varie e divergenti. All’inizio del 2020 nessuno è stato in grado di prevedere, nel momento in cui si sono manifestati i primi casi in Cina, che all’inizio di marzo il Covid-19 avrebbe imperversato nel nord Italia. Perché oggi uno scienziato dovrebbe fare una previsione attendibile sul ritorno del virus in autunno? Conviene lasciare questo tipo di previsioni a veggenti, astrologi e maghi di ogni sorta. Non sarebbe meglio ammettere onestamente che nessuno è in grado di anticipare eventi epidemici unici e irripetibili di questo tipo? E' passato un decennio dal flop delle allarmanti previsioni sull'andamento e sulla virulenza della pandemia da H1N1 (poco più di 18 mila morti in tutto il mondo e 229 in Italia), eppure c'è ancora chi si cimenta in questa rischiosa attività!

martedì 19 maggio 2020

Guerra al Covid-19 o ribellione della natura?

Molti hanno criticato il frequente ed eccessivo utilizzo di metafore tratte dal gergo bellico per rappresentare gli eventi correlati alla pandemia di Coronavirus in atto da 3 mesi. Di solito le motivazioni di queste critiche sottolineano come il rapporto tra gli umani e il mondo microbiologico deve essere più rispettoso, equilibrato ed ecologicamente sostenibile perchè una delle cause della pandemia è stato proprio lo scarso rispetto per gli equilibri naturali messi in crisi dall’invadenza delle società umane.

Come ha rilevato il prof. Barbero, un tratto però accomuna la guerra al Covid-19 agli eventi bellici veri e propri, perlomeno quelli che si sono succeduti nell’ultimo secolo nell’area europea: entrambe le guerre mondiali hanno avuto un carattere totale per le nazioni interessate, nel senso di un coinvolgimento generalizzato della società civile, di effetti pervasivi per tutte le classi e le attività sociali. Basta pensare a due conseguenze socioeconomiche delle guerre mondiali: la necessità di riconversione industriale per la cosiddetta economia di guerra e i cambiamenti sociali indotti dall’assenza degli uomini impegnati al fronte, sostituiti dalle donne in tante attività e mansioni.  A differenza dell’economia di guerra, che ha dato una spinta allo sviluppo del dopo guerra, il Covid-19 ha comportato la paralisi immediata di tutte le attività non essenziali associate a relazioni vis à vis, assembramenti e riunioni, inibite dalla necessità di imporre un distanziamento sociale anti-virale.

Tuttavia la pandemia di Covid-19, rispetto agli eventi bellici, ha ulteriori due caratteristiche dirompenti: il fatto che sia verificata e diffusa a livello planetario in tempi brevissimi, a causa della globalizzazione, e che i suoi perversi effetti economici, sociali e politici si prolungheranno verosimilmente per anni anche dopo che il suo declino epidemiologico sarà compiuto nell’arco dei prossimi mesi, come tutti ci auguriamo. Per meglio comprendere gli effetti della pandemia di Covid si può ricorrere utilmente al concetto di esternalità dell’economia, in una duplice valenza negativa.

In un certo senso lo spillover del Covid, con il passaggio del virus dall'ambiente animale a quello umano, può essere considerato un’esternalità negativa dello sviluppo economico planetario, un macro effetto perverso di un mercato selvaggio per via della globalizzazione neoliberista. In un altro senso la diffusione planetaria dell’epidemia sarebbe una sorta di esternalità negativa virale a danno dell’economia umana, nel senso di una retroazione per contenere uno sviluppo globale inarrestabile e insostenibile per l’ecologia planetaria. 

Insomma, con una lettura forse troppo antropomorfa, prima la natura avrebbe subito le esternalità negative della pressione economica ed antropica (inquinamento, distruzione delle foreste, estensione degli ambienti urbani, esaurimento delle risorse naturali, riscaldamento atmosferico, rottura egli equilibri ecologici etc..) e poi si sarebbe rivoltata contro lo strapotere degli uomini facendo pagare loro il fio con la pandemia abbattutasi sulle società umane; il Covid-19 avrebbe indotto una speculare esternalità biologica negativa a livello economico per i suoi effetti recessivi dovuti al blocco delle relazioni sociali, mediato dall’isolamento e dal distanziamento.

La pandemia ha avuto un ulteriore effetto collaterale e un contraccolpo culturale: quello sulla teoria e sull’ideologia economica. Per decenni il dibattito economico e politico è stato dominato dal combinato disposto di tre parole d’ordine, che a mo’ di slogan pubblicitari si sono imposte socialmente per i loro risvolti pratici
  •        La società non esiste, ovvero contano solo i rapporti economico-finanziari e di scambio sul libero mercato delle merci e dei capitali, rispetto alle relazioni sociali e alla cultura.
  •          Lo stato non è la soluzione ma il problema, ovvero la dimensione pubblica, in particolare lo stato sociale, è solo un intralcio per lo sviluppo del mercato e della turbofinanza
  •          TINA (There Is No Alternatives), ovvero non esistono alternative al dominio imperialista dell’idelogia neoliberista sulle altre sfere delle attività umane.
Questi tre dogmi erano tenuti assieme e supportati, sul piano metodologico e scientifico, dal modello antropologico dell’homo oeconomicus, ovvero dalla fusione tra teoria dell’utilità attesa, della decisione razionale e della forza autoregolatrice del mercato che, grazie alla sua mano invisibile, avrebbe garantito l’equilibrio economico e uno sviluppo illimitato facendo leva sull’intraprendenza e sull’autointeresse degli spiriti animali, superiore rispetto all’invadenza di un wellfare parassitario ed inefficiente.

Ebbene il covid-19 in soli 2 mesi ha fatto piazza pulita dei dogmi del neoliberismo che erano stati accreditati e giustificati per decenni grazie alla retorica pubblica basata sulla convergenza delle tre N: il trionfo del mercato era nel contempo un fatto naturale, nel senso che rispondeva ad oggettive leggi di natura immutabili, normale, nel senso che era socialmente accettato e culturalmente condiviso ed indiscusso, e di conseguenza anche necessario, ovvero senza reali e credibili alternative pratiche.

Il Covid-19 ha fatto emergere le fondamenta sociali e relazionali dell’economia che, venute meno con il distanziamento sociale, hanno assestato un colpo micidiale agli scambi economici e alle logiche di mercato, in barba alle affermazioni negazioniste della signora Tatcher. Per cui in risposta alla pandemia è stata innestata una pronta retromarcia rispetto ai principi liberisti, naturali e necessari, a base di dilatazione della spesa statale e sostegno pubblico all’economia, prestiti incondizionati agli stati, incremento della spesa sanitaria, aumento vertiginoso del deficit/debito pubblico con sussidi al reddito e sovvenzioni a pioggia, derogando alle regole comunitarie sul fiscal compact etc. (peraltro già violata in modo plateale dalle norme vigenti nei paradisi fiscali comunitari). Insomma una vera e propria deregulation a favore dell'intervento statale, rispetto a quella ultra-liberista e anti-statale dell'epoca reaganiana, che ha il sapore di una svolta politica epocale se si analizzano i contenuti extra-finanziari dell'accordo franco-tedesco sul rilancio dell'UE.

In poche settimane si sono susseguite le deroghe alle regole comunitarie, ad esempio il divieto degli aiuti di stato alle imprese a favore dell'apertura dei rubinetti delle sovvenzioni statali. Così lo stato, da principale freno per il dispiegarsi dell’economia di mercato, è diventato l’ancora di salvataggio per tutti gli operatori economici, dal ristoratore alla FCA, che reclama per sè un sostegno pubblico miliardario. Nonostante le sue casse in perenne deficit lo stato, da principale problema per la società è diventato una risorsa indispensabile per la sua illimitata capacità di stampare moneta, alla faccia del rigore di bilancio.

Il Covid-19 ha assestato un ulteriore colpo ad un’altra forma di mercato: la gestione della sanità ispirata al principio del quasi mercato sanitario, che si è concretizzato in Lombardia in un modello di SSR unico nel suo genere grazie ai principi del New Public Management sanitario. Secondo la teoria del quasi mercato la salute è una questione di preferenze individuali, di scelte personali nel grande supermarket sanitario, in cui si incontrano domanda e offerta di ogni sorta di rimedi e servizi, regolato dalla mano pubblica, che rinuncia all'offerta autonoma di servizi e prestazioni. Il quasi mercato sanitario lombardo ha palesato negli ultimi anni i suoi limiti in due occasioni e in due forme speculari:
  •         da un lato in positivo con il tentativo, andato a vuoto, di estendere al territorio la concorrenza verticale tra gestori (specialistici ospedalieri versus cooperative di MMG) per la presa in carico della cronicità e
  •        dall’altro in negativo, sul versante dell’acuzie, con l’abbandono del territorio perseguito da decenni in nome del disimpegno della sanità pubblica da ogni intervento diretto nell’erogazione di prestazioni sul quasi mercato territoriale.
La realtà della pandemia ha fatto emergere il deficit della gestione extra-ospedaliero, una carenza di governance di cui hanno pagato le spese in modo drammatico i colleghi di Codogno nelle settimane di picco epidemico. La medicina territoriale è stata trascurata e sacrificata sull’altare del quasi mercato sanitario in ossequio al dogma dell’intrinseca bontà e necessità della concorrenza in sanità. Insomma il Covid-19 ha spazzato via in poche settimane l’impalcatura teorica e le pratiche del neoliberismo, autoproclamatosi naturale, normale e necessario, ed apparentemente trionfante rispetto alla concorrente teoria keynesiana. Potenza dell’esternalità negativa della biologia sull’economia e sulla società umana, fragile e vulnerabile al pari di presunte teorie, dogmi ed ideologie “naturali”.

martedì 5 maggio 2020

Testing, tracing and treating, ma senza tamponi sul territorio?

E’ il mantra del periodo di declino pandemico che sfocia nella fase 2: il virus si può sconfiggere sul territorio, e non in ospedale, facendo più tamponi ed isolando i malati, secondo lo schema di intervento basato sulle tre T: “testing, tracing and treating”, ovvero testare i sospetti, tracciare i contatti e trattare i contagiati ( https://www.tpi.it/cronaca/vespignani-coronavirus-intervista-virologi-italiani-e-3t-20200503595940/ ).  Peccato che le armi messe in campo, a partire appunto dai tamponi, siano state precluse ai medici del territorio e riservate all’ospedale. A partire dall’indicazione di non recarsi in PS ma di contattare il MMG, che peraltro era impossibilitato a visitare il paziente per mancanza di DPI e di fare diagnosi per l’impossibilità di eseguire il tampone nasale. E’ stata una delle tante indicazioni contraddittorie che hanno punteggiato la gestione del Covid-19, specie nelle prime settimane, assieme a criteri diagnostici “geografici” iniziali, di fatto inapplicabili per i medici lombardi ed emiliani (nessuno dei primi casi aveva avuto contatti con viaggiatori provenienti dalla Cina o dalla zona rossa del lodigiano). Come si poteva tracciare i contatti sul territorio se non si potevano prescrivere i tamponi ai paucisintomatici?

Certo era fondamentale evitare un eccessivo afflusso verso i PS, ma con quale organizzazione territoriale e con quali risorse alternative al nosocomio? Serviva un’organizzazione della medicina territoriale pronta ad applicare la strategia delle T per evitare che l'emergenza travolgesse anche la più solida organizzazione ospedaliera. Se non che il territorio, in particolare quello lombardo all’epicentro dell’epidemia, è stato abbandonato da anni e i MMG lasciati soli di fronte all’emergenza.

Le restrizioni iniziali sui tamponi erano comprensibili per la sproporzione tra una “domanda” inattesa e la scarsa disponibilità di test e laboratori accreditati ed attrezzati. Ora invece siamo nella situazione opposta: abbiamo molti laboratori attivi e buona disponibilità di test, anche sierologici, a fronte di un’incidenza in continuo calo. Ma ancora non è possibile richiedere tamponi se non per il rientro in azienda dei lavoratori dipendenti che hanno avuto sintomi simil-influenzali e, oltre tutto, con procedure rigide e farraginose. Nella fase 2 vengono quindi esclusi sia coloro che non devono rientrare al lavoro - dai disoccupati ai nonni alle prese con la custodia dei nipoti, dalle casalinghe ai libero-professionisti - sia chi non ha avuto sintomi influenzali tipici, dalla semplice anosmia ai disturbi gastroenterici. Se poi dovesse ripartire l'epidemia come sarà possibile "attivare" la prima T, che mette in moto le altre due in presenza di nuovi casi sospetti, se sul territorio non si possono fare i tamponi? 

Anche nel caso dei tamponi per la guarigione prevalgono criteri e protocolli rigidi che non si adattano alla varietà delle situazioni cliniche osservate sul territorio, riconducibili ad infezioni paucisintomatiche da Covid-19. Perché non consentire anche ai laboratori privati di offrire al pubblico test per i pazienti che vogliono conoscere la propria situazione, per tutelare se e i propri familiari? Cosa lo impedisce, dopo la validazione nazionale del test sierologico e la fornitura ufficiale dei reagenti da parte dell'azienda che ha vinto la gara nazionale? Fino ad ora tutto è rimasto fermo ma gradualmente si stanno aprendo nuove opportunità anche nel settore privato.

Il tampone può avere tre finalità che hanno tempi, modalità di esecuzione e significati diversificati
  • diagnosi all’esordio della sintomatologia, specie nei casi paucisintomatici, per un’appropriata gestione clinica domiciliare
  • conferma della guarigione dopo la remissione dei sintomi o la dimissione, per il ritorno alle normali attività
  • screening per individuare i portatori sani da isolare per prevenire la diffusione del contagio, in particolare negli ambienti sanitari e socioassistenziali.
Sensibilità, specificità e interpretazione del test hanno significati variabili in relazione ai diversi momenti, contesti clinici ed obiettivi pratici. Ad esempio un tampone negativo in presenza di una diagnosi di polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria verrà tranquillamente trascurato e verranno attuate tutte le terapie come se fosse un caso di Covid-19. Al contrario quando si tratta di verificare la guarigione la relativa frequenza dei falsi negativi consiglia di eseguire di routine un secondo tampone per minimizzare il rischio del falso negativo, che con 2 tamponi passa dal 33% al 13% circa.  

All’inizio della pandemia le indicazioni ministeriali, e conseguentemente anche la formazione dei medici, hanno privilegiato la dimensione epidemiologica e il contesto ospedaliero rispetto a quella clinica sul territorio (si veda ad esempio la scarsa attenzione alla gestione clinica della FAD curata dalla Federazione degli ordini) per cui è impossibile una stima reale dei contagiati tra la popolazione generale, per non parlare dei portatori sani. Il coronavirus può essere agevolmente sospettato quando si osservano i due quadri clinici più specifici, sebbene collocati agli estremi del continuum della gravità: da un lato la polmonite interstiziale bilaterale con dispnea/ipossia e, dal lato opposto, l’anosmia/ageusia senza rinite, che rappresentano i sintomi/segni clinici più specifici dello spettro.

Paradossalmente l’innocua anosmia ha una specificità diagnostica superiore rispetto alla ben più impegnativa polmonite! Quanti casi di improvvisa anosmia osserva in un anno un MMG medio? Anche dal punto di vista del calcolo probabilistico bayesiano l’anosmia fa fare un salto di qualità al processo diagnostico superiore a tutti gli altri segni/sintomi clinici e giustifica di per se la quarantena. Peccato che non fosse inserita nei criteri di sospetto diagnostico e nemmeno in quelli per l’esecuzione del tampone. E’ chiaro che nella fase più acuta della pandemia bisognava privilegiare la diagnosi dei casi di grave polmonite, ma a prezzo di non tracciare i contagi sul territorio e quindi di favorire la diffusione del Covid-19.

Va detto che fronte a sintomi tanto insoliti quanto specifici, come l’anosmia e l’ageusia, il tampone potrebbe essere addirittura superfluo mentre, come già sottolineato, l’esito negativo del tampone in un soggetto affetto da polmonite interstiziale bilaterale non esclude il Covid 19. Ben diverso è il caso della sindrome influenzale aspecifica, numericamente prevalente sulle altre forme, in cui l’incertezza diagnostica potrebbe essere risolta con la pronta esecuzione del tampone e il conseguente isolamento dell’infetto. Nella fase 2 il tampone nasale farà la differenza: se in futuro si vuole davvero intercettare nuovi casi e bloccare altri pericolosi focolai sul nascere, evitando nel contempo che la gente finisca per rivolgersi ed infettare il PS, si deve approntare un’organizzazione territoriale in grado di intervenire prontamente al domicilio o in strutture ad hoc con il tampone diagnostico, come a quanto pare accade in Germania. Le USCA dovrebbero svolgere il ruolo fondamentale di intercettare i nuovi casi ad attivare a cascata le altre due T.

E’ chiaro che astratti criteri diagnostici, specie se dicotomici, di natura epidemiologia più che clinica non possono render conto della sfaccettatura dei singoli casi. I dilemmi e la dialettica tra criteri e linee guida definite a priori e la varietà della realtà clinica è il pane quotidiano per i medici pratici, abituati alla conversazione riflessiva con la situazione problematica e ad adattare la decisione alla varietà e variabilità degli eventi individuali.