domenica 7 agosto 2016

Decisioni pratiche situate, opinioni degli esperti e metanalisi

Una delle caratteristiche della competenza professionale è quella di sapersi adattare alla specificità del contesto professionale, epidemiologico, organizzativo etc.. e quindi di “accomodare” le indicazioni generali di buona pratica clinica alle particolari condizioni dei singoli assistiti. Abilità che derivano dall'esperienza pratica sul campo, più che dal bagaglio di nozioni teoriche. Non esiste una competenza astratta, decontestualizzata, irrelata rispetto alle pratiche situate e alle condizioni locali; tuttavia permane una certa diffidenza nei confronti del medico pratico, spesso non a suo agio con statistiche e formule matematiche, senza le quali tuttavia prende innumerevoli decisioni di fronte ai singoli pazienti.

Pesa ancora la squalifica implicita nella gerarchia EBM delle evidenze, quella piramide che vede al vertice revisioni sistematiche e metanalisi mentre alla base stanno, appunto, le opinioni degli esperti. Probabilmente si tratta di una squalifica involontaria della medicina pratica, ma di fatto quella piramide ha finito per svalutare e ridurre l'auto-stima di chi lavora sul campo, ovvero si sporca le mani con la relazione medico-paziente, invece che con inferenze e formule statistiche, facendo affidamento sulle proprie opinioni e valutazioni estemporanee nel momento della decisione (per giunta da generalista e non certo da specialista). Certo, le opinioni degli esperti della piramide EBM non riguardano micro scelte diagnostiche o terapeutiche ma considerazioni generali ed evidenze statisticamente “oggettive”.

L'equivoco nasce da qui: dal punto di vista delle prove di popolazione, astratte rispetto al contesto e relative ad ideal-tipi nosografici impersonali - come i soggetti arruolati nei trial randomizzati in base di criteri di esclusione - valgono certamente più le conclusioni delle metanalisi che non le opinioni di un clinico pratico. Ma di fronte a malati in carne ed ossa, nei contesti decisionali e nelle situazioni pratiche, specie alle prese con casi caratterizzati da varietà, unicità e complessità polipatologica - come la stragrande maggioranza dei malati comorbidi - forse le opinioni del medico al letto del malato non sono meno importanti dei risultati dell'ultima revisione sistematica. Proviamo ad immaginare uno scambio di ruoli: cosa succederebbe se un “pratico” lavorasse per una settimana in un centro epidemiologico, ad elaborare metanalisi, a fronte della presenza di un epidemiologo in un ambulatorio di MG sul territorio? Di sicuro il generalista rischierebbe di combinare un bel po' di disastri con formule matematiche e statistiche mediche. Forse è arrivato il tempo di sdoganare l'approccio del “pratico” e le sue opinioni di esperto situato.

Il presupposto della superiore validità delle metanalisi, rispetto alle opinioni degli esperti, sta nell'idea che le elaborazioni statistiche sui grandi numeri sono più aderenti alla realtà rispetto alle conclusioni di esperti, ricavate dall'esperienza individuale, su casistiche limitate e non selezionate. A questo proposito, nelle ultime settimane ho avuto modo di seguire tre casi clinici della stessa patologia cronica e, riflettendo sulle tre vicende parallele, mi sono reso conto della grande varietà dei decorsi e delle configurazioni patologiche. Praticamente nessuno dei tre era affetto da una forma “pura” ma tutti erano invece portatori di diverse comorbilità, le più variegate sia nel percorso diagnostico-terapeutico che nella "narrazione"; a dimostrazione che nella pratica ambulatoriale le forme pure ed isolate, cioè le diagnosi prototipiche da manuale, sono praticamente inesistenti (a differenza degli studi clinici che arruolano solo candidati filtrati da rigorosi criteri di esclusione, ovvero selezionando popolazioni minoritarie rispetto alla routine delle comorbilità, specie geriatriche).

Per non parlare dell'area grigia di incertezza prevalente in MG, popolata da disturbi orfani di diagnosi, sindromi sotto-soglia, stati al confine tra salute e malattia, soma e psiche, disturbi auto-limitanti e transitori etc., condizioni poco o per nulla “ebiemmizzabili”, per usare il colorito neologismo coniato da Giorgio Bert. In sostanza l'approccio del pratico è orientato da studi clinici ed elaborazioni statistiche artificiali ed eccentriche rispetto alla realtà fattuale; ciononostante continuano ad agire e prendere decisioni con quel tipo di "faro", che illumina solo una porzione della realtà, ma di necessità integrata dalle opinioni maturate in situ e nelle condizioni cliniche date.

La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.

Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio. 

Nessun commento:

Posta un commento