giovedì 4 aprile 2019

Stati generali e crisi della medicina: contributo al dibattito

«La credenza nel nesso causale è la superstizione» L. Wittgestein

Affrontare la crisi della medicina, come fanno le 100 tesi per gli stati generali della professione medica, partendo dalla critica epistemologica allo scientismo positivistico è a mio parere poco utile perchè rischia di portare il dibattito su un terreno astratto e acontestuale, generando atteggiamenti difensivi, come il rifiuto di un dibattito “eterodiretto” da filosofi, in nome di una sorta di autosufficienza dei medici, che vedono nel contributo delle medical humanities un’invasione di campo, un’indebita interferenza filosofica.

La diffidenza per una lettura critica della crisi della medicina - o addirittura il rifiuto tout court della crisi - sono a tutti gli effetti posizioni filosofiche e ripropongono la dicotomia tra abilità tecnica e sapere umanistico, che ha radici profonde nel nostro sistema educativo. L’idea che “i supposti problemi dei medici li definisca chi la professione del medico non l'ha mai esercitata invece dei medici stessi” – come ha commentato un collega sul Quotidiano Sanità - riafferma implicitamente il primato di una “razionalità tecnica” custodita dai medici, criticata dal cognitivista Scheon mezzo secolo fa, in nome di una professionalità riflessiva.

Sul versante opposto il ricorso al gergo epistemologico - ad esempio la pur condivisibile sottolineatura dei limiti dello scientismo e del positivismo - rischia di indurre incomprensioni, oltre ad essere poco adatto per analizzare i determinanti che influenzano la relazione medico-assistito e quella medicina-società, vero focus della crisi e chiave di volta del suo superamento.

Ovviamente discutere 300 pagine di tesi è un compito impossibile anche per chi frequenta la materia mentre configura una situazione paradossale tra i suoi ipotetici destinatari, messi di fronte ad una sorta di fatto compiuto - in cui l’autore si è posto le domanda e di fatto si è dato pure le risposte - e la difficoltà pratica di ridiscutere e rielaborare le mastodontiche argomentazioni, comprensive di risposte precostituite.

Di seguito propongo alcuni spunti per un dibattito orientato alla dimensione culturale e con la forma delle proposizioni utilizzata nelle 100 tesi (in alcuni casi mere ipotesi interpretative).
  • Più utile è l'analisi della crisi dal punto di vista socio-culturale, attingendo alle categorie interpretative dell'antropologia medica, che propone come chiave di lettura il concetto di modello esplicativo: i modelli esplicativi dei medici non sono più allineati come un tempo con quelli dei pazienti e della società per via di una dissonanza interpretativa e culturale di sfondo. La discrasia tra modelli risulta più visibile quando sono in gioco differenza culturali dovute a contesti locali estranei alla cultura scientifica occidentale, come nel caso dei migranti, esplorate ad esempio dalla medicina transculturale.
  • I modelli esplicativi comprendono convinzioni e credenze circa la causalità delle malattie e l'attribuzione di senso alla condizione clinica, elaborati culturalmente dai pazienti e dai medici, sotto forma di schemi di percezione, analisi, significato e decisione utili per interpretare l’esperienza individuale e rispondere ai problemi di salute/malattia con l'azione terapeutica.
  • All'origine dei modelli/schemi di significato "profani" - così come del sapere medico “istituzionale” - troviamo alcuni presupposti di base impliciti, cornici interpretative date per scontate, premesse cognitive tacite, radicate nel vissuto personale di malattia, condivise e tramandate dal contesto socioculturale di vita.
  • La discrasia tra i modelli esplicativi “profani” e quelli elaborati dal sapere medico ufficiale risulta evidente quando ci si confronta con concezioni culturali “altre”, come quelle delle popolazioni migranti che approdano in Europa con il proprio bagaglio di presupposti impliciti su salute/malattia, come la visione animistica, religiosa o magica; viceversa quando si incontrano medico e paziente accomunati dalla stessa cultura la dissonanza tra modelli interpretativi resta tacita e sotto traccia, ma non è meno rilevante.
  • Molte incomprensioni tra medico e paziente derivano dall'adesione dei pazienti ad una concezione deterministica, che influenza i modelli esplicativi, l'immagine della scienza medica e si estende oltre l'ambito clinico per abbracciare le relazioni tra medicina, organizzazione sanitarie e società.
  • Uno degli elementi che più influenza i modelli esplicativi "profani", differenziandoli da quelli professionali, è la visione deterministica della causalità, che connette l’agente causale al suo specifico effetto in modo necessario e sufficiente, dominante in medicina fino alla metà del secolo scorso, a partire dai successi della teoria dei germi; la causalità deterministica è stata poi via via relativizzata sotto l’influenza di altri modelli, a partire proprio quelli delle scienze “dure” come la fisica quantistica, che hanno fatto emergere l’incertezza, l’indeterminazione e l’imprevedibilità dei sistemi fisici e biologici.
  • Il paradigma deterministico della causalità (lineare) è estremamente efficace nell’interpretare i fenomeni patologici qui ed ora e garantisce nesso euristico tra leggi generali impersonali e casi singoli; il determinismo consente di allineare l’esperienza soggettiva del paziente con il sapere e la pratiche mediche, grazie allo schema interpretativo "post hoc propter hoc"; la spiegazione degli eventi indotti da cause “efficienti” prossime consente una sintesi virtuosa della componente conoscitiva (la diagnosi) con quella pratica (la terapia) funzionale ad una gestione clinica razionale (prevenzione, rimozione e contrasto alla causa patogena e la riparazione dei suoi effetti).
  • Alla causalità lineare deterministica, ancora valida in molti ambiti specie in acuto, si sono affiancate la causalità probabilistica, con il concetto ormai pervasivo di rischio, e la visione sistemica con le inter-retroazioni non lineari, complesse, con le qualità emergenti dall'interazione tra organismo e ambiente (ad esempio epigenetiche).
  • Il concetto di rischio permea la società da decenni, sia a livello di decisioni collettive sia di scelte individuali. L'evento acuto individuale è intrinsecamente imprevedibile e solo la dimensione statistica della coorte consente una valutazione del rischio, che resta però ad un livello incommensurabile rispetto a quello individuale. Il rischio in sanità è fonte di equivoci tra medico e paziente a livello percettivo, valutativo e decisionale, per la discrasia, da un lato, tra l'evento clinico individuale e la probabilità di popolazione e, dall’altro, tra quantificazione statistica attuale del rischio e l'imprevedibilità cronologica degli eventi futuri.
  • La differenza tra malattia acuta e malattia cronica è il nodo problematico e di contrasto culturale tra modelli esplicativi, nel segno della dissonanza tra visione deterministica e concezione probabilistico/complessa della patologia, per sua natura indeterministica ovvero gravata di incertezza sugli esiti.
  • A differenza della concezione deterministica, centrata sulle cause prossime qui ed ora e sulla ricostruzione retrospettiva degli eventi, la "causalità" probabilistica è proiettata in un futuro indefinito, che retroagisce sul presente tramite la valutazione del rischio individuale; quest’ultima orienta la prevenzione”, cioè l'obiettivo della riduzione del rischio sul lungo periodo nella popolazione (ad esempio la cura del rischio cardio-cerebro-vascolare con la “terapia” dei fattori biologici modificabili).
  • Nel suo trasferimento alla pratica il fattore di rischio è scivolato via via da parametro epidemiologico, orientato alla prevenzione degli eventi nella popolazione, a fattore che viene incorporato nei processi clinico-decisionali ad personam, diagnostici, prognostici e terapeutici, fino a catalizzare una sorta di fusione tra questi tre obiettivi clinici.
  • Nella gestione delle malattie cronico-degenerative la valutazione del rischio - da quello cardio-cerebro-vascolare a quello fratturativo - ha condensato diagnosi e prognosi in un'entità circolare, tra futuro e presente, tra probabilità attuale e prevenzione prospettica: il calcolo della probabilità di un evento sul lungo periodo retroagisce sul presente e sulla decisione di instaurare o meno una terapia per controllare il fattore di rischio stesso, suggerendo un’intensità dell'intervento terapeutico proporzionale all’entità del rischio stesso.
  • La valutazione del rischio come cardine delle scelte terapeutiche mette in crisi il modello classico della diagnosi, fondata sulla presenza di criteri soggettivi ed oggettivi, necessari e sufficienti per individuare la malattia. Di fatto buona parte delle decisioni mediche vengono prese per “curare” rischi, per abbassare delle percentuali, per ridurre le probabilità di eventi in modo astratto e irrelato rispetto alla soggettività del paziente.
  • La quantificazione del rischio e soprattutto il potenziale beneficio del controllo farmacologico/comportamentale dei fattori di rischio sfuggono alla percezione e alla valutazione da parte del singolo medico nel singolo paziente, perchè frutto di osservazioni su coorti tanto più valide quanto più numerose, per non parlare delle revisioni sistematiche e delle metanalisi EBM.
  • Questo fatto genera nei medici pratici, specie nel passaggio dalla formazione ospedaliera al territorio, una sensazione di irrealtà, di inconsistenza e di vacuità della medicina del rischio, correlata alla natura astratta e impersonale dei parametri probabislitici.
  • Se la valutazione/percezione dell'efficacia della cura nella riduzione degli eventi è preclusa al singolo medico nel singolo caso, perchè collocata a livello di popolazione, altrettanto ardua è la percezione degli effetti avversi di un farmaco, come dimostrano numerosi ritiri dal commercio di molecole dopo il loro utilizzo su vasta scala che ha fatto emergere effetti colleterali imprevisti o addirittura aumenti di mortalità.  
  • Le "cure" dei fattori di rischio, tanto pervasivi quanto impercettibili, hanno spezzato il legame tra soggettività e oggettività del dato biologico, tra percezione corporea mediata dal linguaggio e codificazione patologica, generando insicurezza di fondo e una diffidenza culturale verso un apparente stato di benessere che convive inestricabilmente con il rischio di malattia. 
  • Il venire meno dei sintomi come spia dello stato di malattia, a favore del fattore di rischio "killer silenzioso", accentua un' incertezza esistenziale venata di sospettosità verso il proprio stato fisico, apparentemente sano e "normale", che può essere compensata dalla reiterata richiesta di "fare tutti gli esami" a scopo rassicurativo, ansiolitico e di conferma della propria buona precaria salute (non a caso nel DSM V è stato inserito il Disturbo ad hoc).
  • La "cura"dei fattori di rischio alimenta la medicalizzazione della vita, induce bisogni inappropriati, patofobia diffusa fino al Disturbo da ansia di malattia e genera aspettative di efficacia – la medicina impossibile di Daniel Callahan - tanto più irrealistiche quanto più viene intesa in chiave deterministica, cioè come cura della “causa” della malattia.
  • La condizione di rischio diventa esperienza pervasiva ed esistenziale e, in quanto non correlata ad un sintomo specifico o ad una dispercezione cenestesica, si trasforma in modalità naturale del vissuto quotidiano, in uno sfondo di incertezza e insicurezza.
  • Il silenzio del corpo o dei suoi organi, ovvero l'assenza di segnali di sofferenza che per Gadamer era un indicatore di salute, viene ora visto con sospetto e con inquietudine, cioè all'opposto di una rassicurazione sulla condizione di ben-essere (per Gadamer la malattia «ci rende consapevoli del nostro corpo fino all’inopportunità»); anzi proprio la scoperta della galassia delle malattie asintomatiche assieme alla pervasività della condizione di rischio rivela la presenza subliminale di una sorta di "inconscio" biologico, tanto tacito quanto temibile, che si aggiunge a quello emotivo e a quello cognitivo.  
  • La pervasività sociale e psicologica della cultura del rischio, specie in medicina, ha un paradossale effetto: dalla cura del rischio di malattia si stà scivolando impercettibilmente verso la malattia del rischio, in senso psicologico ed esistenziale; non è detto che la prossima versione del DSM non comprenda, accanto al Disturbo da ansia da malattia, anche un sotto-disturbo da ansia di rischio da malattia.
  • Tuttavia la circolarità diagnosi-prognosi, in quanto non deterministica, sconta due limiti invalicabili di incertezza sugli esiti: la prognosi resta temporalmente indeterminata nel singolo portatore di rischio – a differenza della prognosi classica in caso di evento acuto – mentre permane la non trasferibilità al singolo della valutazione probabilistica relativa alla coorte di pazienti soggetti al medesimo rischio (in pratica è escluso che si possa prevedere se e quando avverrà l’evento tra il portatore di un rischio e soprattutto chi tra costoro potrà godere del beneficio quantificato dal NNT).
  • Il superamento della concezione classica di diagnosi, prognosi e cura, nel senso della loro "fusione" ad opera del paradigma probabilistico, è penetrato a fondo nella pratica clinica sia a livello epistemico che decisionale, per certi versi in modo subliminale ma con profonde ricadute "trasformative" per la medicina.
  • La discrasia culturale tra modelli esplicativi è alla base del disallineamento tra esperienza soggettiva e pratiche professionali, che si esprime con la non compliance alle prescrizioni croniche, con le difficoltà/equivoci comunicativi tra medico e assistito, come il conflitto no-vax pro-vax, con l’adesione alle medicine alternative come l’omeopatia, fondate su un ingenuo determinismo istruttivo di stampo ottocentesco, quando l'effetto placebo della medicina era prepoderante in clinica sebbene del tutto ignoto.
  • La cornice interpretativa deterministica condiziona le aspettative di efficacia dell’intervento medico, che influenzano a loro volta la valutazione soggettiva e la soddisfazione del “cliente”. Basti pensare all’uso inappropriato e puramente sintomatico di farmaci assai diffusi, dagli antibiotici agli antipiretici nelle virosi delle vie respiratorie, i FANS nelle artropatie degenerative etc.
  • Le radici del potenziale disaccordo circa il modello esplicativo restano però sullo sfondo della relazione, perché come abbiamo visto i modelli culturali restano impliciti, poggiano su presupposti cognitivi e schemi interpretativi tra loro incompatibili ma taciti e "subliminali", come il determinismo causa-effetto versus le reti causali probabilistiche.
  • Tipica è, ad esempio, la "caccia al colpevole" che si è scatenata a livello sociale verso presunti errori medici, ritenuti la "causa" prima dell’insuccesso clinico, da perseguire con la denuncia e da punire da parte del giudice, che deve stabilire il "nesso causale" tra il comportamento medico e l'evento "avverso".
  • Se le radici dell'incomprensione e degli equivoci tra medici e pazienti sono culturali e antropologiche, bisogna intervenire a livello educativo con quello che viene definito apprendimento trasformativo, rivolto in particolare agli adulti, per favorire la transizione da un modello esplicativo all'altro, affrontando in primis la cornice interpretativa, i presupposti dati per scontati del determinismo, tanto radicato culturalmente quanto inadeguato rispetto all'evoluzione del paradigma scientifico e delle pratiche.
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