martedì 13 settembre 2016

Competenza professionale tra routine, variabilità ed esperienza pratica

La competenza o expertise è la capacità del professionista di adattarsi alla specificità delle condizioni cliniche, tecnologiche ed organizzative e quindi di “accomodare” le indicazioni generali di buona pratica clinica, di necessità astratte e decontestualizzate, alle caratteristiche dei singoli assistiti nella situazione data.

Lo conferma una ricerca pubblicata dal prestigioso BMJ ( http://www.bmj.com/content/354/bmj.i3571 )
che dimostra come gli esiti migliori in chirurgia sono correlati all'esperienza maturata dal professionista in una specifica patologia, vale a dire alla varietà e numerosità del repertorio di casi osservati e curati, da quelli normali e di routine a quelli più strani ed "eccentrici". La competenza professionale si misura soprattutto sulla capacità di affrontare i casi non routinari, ovvero quelli che richiedono un adattamento alla situazione problematica, fondata su abilità tacite nel trovare soluzioni nuove e non predefinite per far fronte all'irriducibile varietà clinica.

Una delle principali motivazioni che spinge ricercatori e clinici ad elaborare protocolli, linee guida, percorsi, check list, flow-chart etc.. è l'”lotta” alla variabilità patologica nel tentativo di contenerla entro limiti fisiologici. La variabilità comportamentale dei medici pratici viene abitualmente considerata una criticità, un'anomalia da controllare grazie alla diffusione ed implementazione degli strumenti sopra elencati, affinché di fronte alla medesima condizione clinica tutti si comportino in modo omogeneo e standardizzato, tale da garantire il medesimo esito atteso. In teoria quindi qualsiasi chirurgo, previa adeguata formazione e un congruo periodo di apprendistato, è nelle condizioni di applicare la tecnica chirurgica standard e le procedure previste per una determinata patologia, raggiungendo quindi gli stessi risultati di qualsiasi altro collega. Pare che nella realtà fattuale le cose non stiano propriamente così, come dimostra la ricerca del BMJ: l'intercambiabilità dell'operatore non garantisce il raggiungimento di esiti omogenei e definiti a priori.

Il professionista competente invece è quello che sa adattarsi alla varietà, unicità e complessità dei casi che non sono contemplati nella routine delle procedure standardizzate. Grazie all'esperienza riesce ad accumulare numerosi "esemplari" di situazioni non ordinarie, che vanno a costituire un bagaglio di soluzioni pratiche ed originali: solo la varietà degli schemi e dei “trucchi” del mestiere può controllare la gamma delle situazioni problematiche. Per le patologie ad elevata incidenza e bassa complessità qualsiasi chirurgo raggiungerà facilmente quel pool di casi che rappresentano lo zoccolo duro della competenza acquisita. Ben diverso è il caso delle malattie a bassa prevalenza ed elevata complessità tecnica, con indicazioni e tecniche chirurgiche specifiche, che vengono generalmente gestite in centri dedicati ,dove è possibile accumulare un numero sufficiente di casi che consente al professionista di fare un'adeguata esperienza della variabilità dei casi clinici.

I dati del BMJ dimostrano che l'apprendimento è correlato alle pratiche e all'esperienza sul campo e meno all'acquisizione individuale delle specifiche tecniche esplicite, nella sola sfera cognitiva, il che per un'attività come la chirurgia può apparire scontato e banale. Per di più nella chirurgia la componente tacita della competenza è intuitivamente prevalente sulla cognizione astratta e decontestualizzata, perchè impossibile da rendere compiutamente a parole, tramite descrizioni scritte o lezioni, in quanto legata ai gesti, all'uso di strumenti e alle abilità manuali.

La stessa conclusione è un po' meno "triviale" se viene estesa alle discipline mediche, in cui la componente teorica, delle nozioni generali e specifiche sembrerebbe prevalente sulle pratiche, considerate una semplice e meccanica derivazione della teoria, secondo il modello della razionalità tecnica. Ma nella realtà anche la competenza internistica o del MMG si fonda sulle esperienze pratiche intese in senso multidimensionale, ovvero sulle abilità relazionali, comunicative e decisionali, condizionate dal vissuto personale, emotivo e corporeo, dal contesto socio-organizzativo ed epidemiologico dell'attività professionale. Insomma, come sottolineano gli psicologi sociali, apprendimento, conoscenza e competenza professionale sono irriducibilmente "dense", distribuite e mediate da artefatti/strumenti tecnologici, situate nelle pratiche, radicate nell'esperienza corporea e nella riflessione nel corso dell'azione.

Certo, in situazioni particolari come l'emergenza il protocollo è necessariamente rigido e tarato sulle condizioni potenzialmente più gravi ed "estreme". Tuttavia è sempre necessaria una dose di adattamento alla situazione contingente, che spesso evolve in pochi minuti, e quindi richiede provvedimenti specifici e locali; il processo comporta sempre un fase di osservazione, ragionamento, valutazione e la conseguente presa di decisione sul corso d'azione razionale e più adatto, che può non essere pre-definito in ogni dettaglio o previsto a priori dal protocollo. Anche il più minuzioso protocollo o la check list più dettagliata possono avere dei "buchi" rispetto ad una realtà variegata, sfumata e “sorprendente”, che non di rado eccede rispetto alla vagheggiata routinizzazione e standardizzazione delle pratiche, sul modello della catena di montaggio fordista. Proprio nelle situazioni non routinarie emerge la professionalità, che si manifesta nel trovare soluzioni "improvvisate" ed originali, necessariamente situate e non tecnicamente astratte rispetto al contesto. 

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