lunedì 22 luglio 2024

Appropriatezza diagnostica e terapeutica: le differenze contano!

Estratto dal libro “Appropriatezza e variabilità nel sistema prescrittivo”

KDP edizioni Amazon, 2024, pag, 170, in formato cartaceo ed ebook

A suo tempo il dibattito pubblico attorno alla lista degli oltre 200 accertamenti inseriti nei LEA del 2017 e soggetti a criteri di appropriatezza si è cristallizzò in due opposti orientamenti, riemersi anche nel 2024 dopo l’annuncio del DL liste d’attesa: da un lato non sono mancate le rassicurazioni ministeriali sul fatto che i LEA non si proponevano di tagliere le prestazioni, mentre dall'altro i critici hanno paventato il rischio che con il pretesto dell'appropriatezza si intendevano di fatto ridurre le prestazioni costringendo i cittadini a pagarsi le indagini diagnostiche sottoposte a vincoli prescrittivi, facendo un regalo alla sanità privata.

Tre forme di appropriatezza

1. L'appropriatezza organizzativa (o generica) si riferisce al livello assistenziale (reparto per acuti, day-hospital, ambulatorio specialistico e medicina generale) più adatto, in termini di sicurezza ed economicità di consumo delle risorse, per l'espletamento di una prestazione clinicamente appropriata. In pratica ogni volta che un intervento medico è eseguito in un contesto organizzativo "superiore" rispetto a quello più consono al problema ci si trova di fronte ad un caso di inappropriatezza: per esempio il ricovero ospedaliero per una patologia "minore", oppure un ricovero ordinario per un intervento chirurgico che potrebbe essere svolto elettivamente in day-surgery, come nel caso delle norme emanate circa 42 DRG "ad alto rischio di non appropriatezza in regime di degenza ordinaria".

2. Per appropriatezza clinica (o specifica) si intende l'indicazione o l'effettuazione di un intervento sanitario in condizioni tali che le probabilità di beneficiarne superano i potenziali rischi. L'appropriatezza clinica rappresenta una sorta di efficacia individuale in relazione ai bisogni e alla complessità assistenziale del singolo paziente e, in quanto tale, è più impegnativa e di difficile valutazione rispetto a quella organizzativa.

3. Negli ultimi tempi si è imposta una terza accezione di appropriatezza, quella temporale, che ha a che fare con l'erogazione di una prestazione al tempo giusto rispetto al bisogno e alla specifica situazione clinica del singolo caso. Al fine di migliorare l'appropriatezza temporale di accertamenti diagnostici o interventi chirurgici, e contenere quindi il fenomeno delle liste d'attesa, sono stati elaborati criteri di priorità per la selezione della domanda. Una forma emblematica di inappropriatezza da over use è quella dei codici minori bianco-verdi che affollano impropriamente le strutture d'emergenza. All’opposto è una forma di inappropriatezza anche l’under triage, ovvero l’attribuzione di un codice inferiore a quello corretto ad un paziente affetto da una patologia tempo-dipendente.

L’era dell’appropriatezza è iniziata nel 1994 con l’introduzione delle Note CUF sui farmaci, poi ribattezzate Note AIFA per l’appropriatezza terapeutica. Il fenomeno rientra nella più generale tendenza e normare e regolamentare comportamenti che ricadono nella sfera pubblica, riducendo i margini di discrezionalità e di autonomia decisionale degli attori professionali, secondo l’idealtipo dell’apparato burocratico di stampo weberiano. Ci sono però voluti oltre vent’anni perché si affrontasse anche il capitolo della diagnostica a dimostrazione della delicatezza del problema, che ora si ripropone nuovamente con il DL Schillaci. L’asimmetria dell’interesse della ricerca verso la terapia a scapito della diagnosi era già stata messa in risalto Archie Cochrane padre dell’EBM

L’attenzione dedicata alla diagnosi e alla costruzione di un modello corretto del procedimento diagnostico è molto inferiore rispetto a quella dedicata alla terapia e alla prevenzione, per le quali è stato generalmente accettato il concetto di modificare la storia naturale delle malattie ed è stata elaborata una tecnica per verificare le ipotesi.

Questa differenza metodologica ed epistemica di fondo contraddistingue l’iniziativa degli anni novanta sui farmaci da quelle successive sugli accertamenti: la terapia appropriata presuppone un dato certo e parte da una solida base di partenza, ovvero la diagnosi dalla quale discende logicamente la cura, secondo lo schema categoriale se…allora (se un assistito è affetto da diabete di tipo II ed obesità allora la terapia di prima scelta è la metformina).

Purtroppo queste deduzioni logiche e quasi “necessarie”, tipiche della scelta terapeutica pratica, non valgono per il processo cognitivo che dall’ignoto conduce il medico al noto: non esiste un unico esame appropriato a priori per ogni situazione o sintomo perché i test clinici hanno la funzione di aiutare il medico ad orientarsi rispetto ad una gamma di ipotesi diagnostiche differenziali, tra le quali solo al termine dell’iter clinico emergerà quella corretta, talvolta dopo un articolato iter diagnostico per “prove ed errori”. Alla sfera cognitiva diagnostica e ai test clinici mal si adattano i concetti di efficacia ed efficienza ricorrenti nelle definizioni di appropriatezza. 

La validità di un accertamento più che all’efficacia, tipica della terapia farmacologica, attiene al suo apporto informativo, alla sensibilità e alla specificità, al valore predittivo positivo o negativo, cioè alla revisione della stima probabilistica soggettive a partire dalla probabilità a priori del singolo paziente, che viene rivalutata dopo l’esito dell’esame, in rapporto al setting professionale, alla tipologia del problema e all’esperienza del medico, secondo l’approccio bayesiano a soglia di diagnosi e terapia.

Ad esempio in caso di sintomi aspecifici privi di riscontri obiettivi, la prescrizione di alcuni esami servono per selezionare preliminarmente una delle macro-ipotesi fisiopatologiche avanzate dal clinico ed è quindi impossibile definire a priori quale sarà il test appropriato, ovvero quello che consentirà di definire correttamente il problema la conseguente categorizzazione diagnostica. E’ raro che si arrivi alla diagnosi grazie ad un solo segno clinico o esame patognomonico; più spesso è la combinazione di dati anamnestici, esame clinico e accertamenti in serie in un processo inferenziale probabilistico o intuitivo, mediato da euristiche o da pattern di riconoscimento, che esita in una codifica nosografica. 

Insomma il metodo e le regole del processo diagnostico non sono assimilabili a quelle della scelta terapeutica più lineare, in quanto le variabili in gioco nell’indagine clinica sono più numerose e interattive. Una discussione razionale sull’appropriatezza diagnostica dovrebbe considerare che a monte della prescrizione di un test intervengono numerosi fattori di contesto, normativo, organizzativo e relazionale, che impattano sulla decisione nei singoli casi clinici

  • il giudizio del medico sconta margini di rischio/incertezza decisionale insiti in ogni processo clinico (falsi positivi, falsi negativi, valore predittivo etc..);
  • l’induzione della prescrizione da parte dell’assistito, specie se esente e/o eccessivamente preoccupato per il proprio stato di salute;
  • la diffusione di linee guida, protocolli, percorsi diagnostico-terapeutici etc.. e di altri documenti di supporto informativo e di aiuto alla decisione appropriata;
  • il suggerimento dell’esame da parte di uno specialista in regime libero-professionale, non tenuto rispettare i criteri di appropriatezza vigenti in ambito pubblico e quindi propenso ad abbondare in test clinici;
  • l’attitudine dell’offerta ad indurre la propria domanda per la sopravvalutazione della tecnologia diagnostica nel ridurre l’incertezza;
  • il rischio medico-legale e la propensione alla medicina difensiva per il rischio di denunce e contenziosi giudiziari;
  • un clima sociale di allarme, alimentato da un’informazione che da un parte enfatizza acriticamente le novità tecnologiche e dall’altra notizie di presunta malpratica;
  • l’indeterminatezza del concetto di appropriatezza, per la discrasia tra la dimensione regolatoria di popolazione e quella clinica individuale, a causa di criteri che non tengono conto della varietà, unicità e complessità della casistica.

Appiattire questa complessità con vincoli e sanzioni per inappropriatezza non appare la strada adatta per risolvere il problema, che va affrontato sul piano culturale adottando incentivi ed interventi a monte della singola richiesta di indagini diagnostiche. I criteri di appropriatezza hanno complicato il compito del medico sul piano cognitivo e decisionale, ad esempio con la necessità di interpretare ed applicare le norme generali alla varietà dei singoli casi; la spada di Damocle dei controlli ad personam per ridurre le prescrizioni difensive accentuerà la diffidenza degli assistiti verso le scelte dei medici e potrebbe avere un impatto negativo anche sulle relazioni tra i professionisti, per il rischio di rimpallo della responsabilità prescrittiva tra i professionisti di I e II livello coinvolti, come accaduto con le Note sui farmaci.

Vi è il rischio che nuovi vincoli possano trasformarsi in tagli di prestazione per cui i malati si dovranno pagare gli esami non più concedibili. Con i LEA del 2017 ad esempio sono state introdotte due criteri prescrittivi per gli accertamenti inseriti nella lista ministeriale: lasche indicazioni di appropriatezza e più stringenti condizioni di erogabilità. La maggioranza dei 143 esami di laboratorio, ad esempio, è rientra nella prima categoria mentre solo in 8 casi il test è soggetto a generiche indicazioni di appropriatezza (alfa amilasi, le 3 fosfatasi, lipasi, potassio, proteine, sodio).

I criteri prescrittivi per i più comuni test ematici di uso comune sono generici e scontati, come transaminasi in caso di sospetta patologia epatica, amilasi nella diagnostica delle ghiandole salivari e pancreatiche, ferro per la diagnosi e il monitoraggio delle patologie da carenza o accumulo marziale, CPK per mialgie e nel monitoraggio delle statine etc. Le blande condizioni di appropriatezza degli esami di laboratorio sono la dimostrazione delle difficoltà incontrate dai consulenti ministeriali per definire a priori criteri validi e generalizzabili per ogni setting.

Nel caso degli accertamenti per immagini invece hanno prevalso condizioni di erogabilità più dettagliate, “intrusive” e di applicazione problematica ai casi meritevoli di approfondimento diagnostico. Un esempio è la RMN della colonna, prescrivibile in caso di "dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno 4 settimane, traumi recenti e fratture da compressione".

La materia "appropriatezza diagnostica" è particolarmente delicata perché ha a che fare con la gestione dell’incertezza che non si può “amministrare” con schemi predefiniti, destinati a scontrarsi con il carattere variabile e imprevedibile dei percorsi diagnostico differenziali.

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