giovedì 20 luglio 2017

Cavicchi alle prese con la presa in carico, un rapporto difficile

Se perfino un noto esperto di sociologia ed organizzazione sanitaria, del calibro del professor Ivan Cavicchi, ammette i suoli limiti di comprensione degli intenti di fondo della presa in carico ( http://www.quotidianosanita.it/lombardia/articolo.php?articolo_id=52709 : "...difficoltà interpretative se ne incontrano parecchie: ridondanza (una legge, due delibere, e un sacco di altri strumenti esplicativi), complessità del testo (rimandi, intrecci, petizioni di principio, algoritmi, tecnicismi, tabelle a non finire...almeno per quello che ho capito io"!) significa che le due delibere lombarde sono davvero ostiche.

Le difficoltà del professore nella messa a fuoco della Presa in carico (da ora PiC) sono probabilmente legate ad una scarsa dimestichezza con la pratiche "situate" delle cure primarie; infatti la sua interpretazione è sbilanciata sul versante della standardizzazione dei costi in funzione di un ipotetico contenimento della spesa, come se i cronici fossero degli accaniti consumatori di prestazioni di dubbia utilità. A cosa serve il "patto di cura" se non a vincolare, in modo quasi legale, il cronico al rispetto del "contratto" sottoscritto? Per non parlare del PAI, che nelle intenzioni è agli antipodi della standardizzazione clinica dei PDTA. Nella realtà la cronicità costituisce un problema non tanto per eccesso di prestazioni inappropriate, indotte dai diretti interessati e da ricondurre entro medie standardizzate, ma perchè i malati non seguono le prescrizioni per il corretto monitoraggio della loro patologia, come suggeriscono le buone pratiche e i PDTA, e prima o poi abbandonano pastiglie e controlli.

Al contrario con la PiC si vorrebbero correggere diffuse sacche di inappropriatezza per difetto (e non per eccesso, come immagina Cavicchi) da scarsa aderenza, che a cascata generano altra inappropriatezza clinica e surplus di costi per cure supplementari o ricoveri evitabili in caso di complicanze, riacutizzazioni, scompensi etc... Allora la domanda da porsi è un'altra: per quale motivo i cronici sono renitenti alle cure e poco collaborativi nella gestione appropriata della propria condizione? A mio avviso i nodi problematici della PiC della cronicità sono riconducibili alla sfera dell'antropologia cognitiva.

Cerco di spiegarmi in soldoni, da praticone. I cronici, specie se maschi e di mezza età, non seguono le prescrizioni per due motivi intrecciati: perchè negano la malattia, che mina la loro aura virile, e soprattutto perchè sono ancorati al modello esplicativo delle malattia acuta infettiva, di stampo deterministico e lineare; nel senso dell'aspettativa di una restitutio ad integrum, ovvero "se prendo la pillola giusta guarisco in fretta e quindi torno alla normalità", come succede con l'antibiotico per la tonsillite. Ergo interrompono dopo qualche mese le pillole per la pressione o la glicemia perchè stanno comunque bene e si sentono "guariti". Oppure se accettano di trangugiare quotidianamente due o tre pillole sono restii a fare i controlli periodici, proprio perchè si sentono bene e quindi non ne vedono la necessità soggettiva.

Il passaggio dal modello esplicativo della malattia acuta, di stampo deterministico, a quello probabilistico basato sul controllo del rischio comporta un cambiamento di paradigma cognitivo e di antropologia della percezione corporea, non proprio intuitivo e alla portata di tutti, specie in una società che insiste ossessivamente sul benessere individuale totale psico-fisico-sociale-esistenziale etc.. Per non parlare dei benefici attesi sulle coorti di cronici, incommensurabili rispetto alle attese e alla dimensione soggettiva del singolo malato. Perchè prendere le pastiglie se prima stavi tutto sommato benone, ed ora invece da quando le ingurgiti non ti senti proprio in forma e magari ti danno pure qualche disturbo?

La malattia cronica, o meglio il controllo dei fattori di rischio, ha sfilacciato il legame tra condizioni/percezioni soggettive ed oggettività della patologia, che nell'esperienza dell'acuzie erano perfettamente allineate. Il cronico continua ad utilizzare la mappa cenestesica della malattia acuta per decodificare quella cronica, nel momento in cui la cronicità ha interrotto il canale di comunicazione tra illness e disease, che fino a pochi decenni fa erano in perfetta sintonia. Ecco perchè di fronte a questo cambiamento, cognitivamente e culturalmente "innaturale", servirebbe in primis un approccio psicoeducativo e culturale, come quello incorporato nel Chronic Care Model; assai meno appropriata appare la soluzione giuridica del "patto di cura", la relazione con l'anonimo operatore del call center o la proposta manageriale degli standard, per appiattire i costi individuali e per governare una supposta domanda fuori controllo, che in realtà è inappropriata per difetto "antropo-cognitivo".

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