sabato 28 novembre 2020

La gestione organizzativa del Covid-19 (III): le carenze del territorio e la ridondanza

La ridondanza è ambigua, perché se non ci sono imprevisti sembra uno spreco. Il punto è che le cose insolite accadono, di solito. Nassim Nicholas Taleb

La campagna mediatica in atto da alcune settimane per trovare un comodo "colpevole" delle carenze e dei limiti della risposta sistemica alla pandemia ha preso di mira la sanità territoriale e in particolare il MMG. Nei precedenti post ho abbozzato un'analisi della risposta organizzativa al Covid-19, focalizzata sulle differenze tra ospedale e territorio, utilizzando la chiave di lettura della difesa del nucleo tecnico ( https://tinyurl.com/y5gln3g4 ) e la cornice concettuale del dilemma della complessità ( https://tinyurl.com/yyancahf ).

1-Negli ultimi 20 anni la gestione delle cure primarie si è progressivamente "ospedalizzata", nel senso che si è passati da un modello assistenziale artigianale, praticamente aperto all’ambiente, ad un sistema organizzativo chiuso a protezione di un embrionale nucleo tecnico. Fino alla prima riforma sanitaria del 1978 non vi era di fatto separazione tra la MG e il suo ambiente in quanto il “generico” vi era completamente immerso: o meglio il rapporto con l’ambiente era caratterizzato da una porosità fatta di H24, visite in studio senza appuntamento, assenza di collaboratori, conoscenza e legame stretto tra medico l’ambiente sociale e la comunità di cui era parte, scarsi vincoli prescrittivi ed ampia autonomia professionale per una sorta di delega in bianco alla professione della sanità sul territorio. Erano gli anni del tramonto del mutualista e del condotto che, specie nelle realtà rurali, era un punto di riferimento per la salute di tutto il paese, della culla al letto di morte.

A partire dagli anni ottanta e con un’accelerazione sul finire del secolo, a seguito dell’entrata in servizio dei MMG “specializzati” al Corso di formazione specifica, anche la medicina del territorio ha iniziato il processo di evoluzione organizzativa che è sfociato dapprima nelle medicine di gruppo e nella fase più recente nella diffusione delle case della salute, per iniziativa della parte pubblica nelle regioni più attente al territorio. Si è avviato un processo di differenziazione funzionale e dei compiti, affidati a diverse figure professionali, parzialmente autonome dal MMG, con un crescente complessità gestionale in una doppia direzione: da un lato con diversificazione dell’offerta, per venire incontro alla varietà della domanda e, dall’altro, con una maggiore selettività dei rapporti con l’ambiente. La spinta al cambiamento della gestionale è venuta sia dall’interno (necessità di rispondere all’aumento dei carichi di lavoro per la prevalenza delle patologie croniche su quelle acute) sia dall’esterno (parallelo incremento della componente burocratico-amministrativa e dei vincoli prescrittivi).

La diversificazione organizzativa è passata da un radicale cambiamento dei rapporti con l’ambiante, nel senso della regolazione dell’accesso al “nucleo tecnico”, ovvero alla consultazione medica. Fino a pochi decenni prima gli unici servizi che garantivano ai cittadini un'accessibilità incondizionata, senza alcun filtro al contatto, erano il PS in ospedale e sul territorio la MG. Con la progressiva introduzione degli appuntamenti per migliorare l’appropriatezza gestionale, clinica e temporale anche la MG si è allineata alle modalità di consultazione tipicamente ospedaliere, con due effetti collaterali empirici: allungamento dei tempi d’attesa per le visite su appuntamento e difficoltà di gestione delle urgenze e soprattutto delle pseudo-urgenze ambulatoriali e domiciliari, da sempre il tallone d’Achille della MG per via di richieste spesso inappropriate (le cosiddette “prestazioni non rinviabili”).

Di fatto in modo tacito e progressivo la mission professionale delle cure primarie si è spostata dalla risposta alle situazioni acute ed pseudo-emergenziali alla presa in carico e alla gestione della cronicità, sia a livello ambulatoriale sia domiciliare in caso di non-autosufficienza, disabilità, invalidità. Parallelamente la domanda per problematiche urgenti o percepite come tali si è spostata sulle strutture di PS, tecnologicamente attrezzare per valutare e rispondere alle condizioni di rischio, mentre il territorio, per un incolmabile dislivello di strumentazione tecnologico-specialistica, si è sempre più indirizzato verso la cronicità.

In pratica l’evoluzione organizzativa della MG ha tentato di ricomporre i due corni del dilemma della complessità, nel segno della difesa del nucleo tecnico: è aumentata la differenziazione dell’offerta organizzativa (visite su appuntamento, ambulatori dedicati, collaboratori di studio, ambulatorio infermieristico etc..) e in parallelo è stata accompagnata da una maggiore selezione della domanda, per indirizzarla verso il percorso organizzativo più appropriato tra quelli proposti, a scapito dell’accessibilità.

2-Di fronte allo shock pandemico questo modello organizzativo ha avuto maggiori difficoltà a mobilitarsi rispetto a quello ospedaliero, più diversificato ed appropriato nella gestione tecno-specialistica delle emergenze. Tuttavia la risposta ospedaliera è andata a scapito delle altre prestazioni rivolte a patologie acute non urgenti e soprattutto a quelle croniche ambulatoriali (rinvio di esami, visite specialistiche, accertamenti strumentali, day-hospital, ricoveri ed interventi programmati). Al contrario la medicina territoriale ha continuato a seguire questa fetta di popolazione, oltre a garantire un approccio diagnostico e terapeutico per i casi di Covid-19 meno impegnativi, seppure a distanza o con la delega alle USCA, “specializzate” e meglio attrezzate per affrontare l’elevato rischio infettivo domiciliare.

Riguardo alle forme organizzative più evolute e complesse, come le case della salute, il ritardo è evidente in molte regioni come la Lombardia; le scelte di policy hanno privilegiato il quasi mercato concorrenziale tra I° e II° livello, come leva di un cambiamento radicale, che tuttavia non si è concretizzato specie sul versante ospedaliero. Cionondimeno in passato la MG ha sempre gestito le epidemie influenzali facendo leva sulle proprie risorse e sulla riserva di ridondanza organizzativa, grazie all’approccio generalista trasversale e “toti potente”, per usare il gergo dell’eritropoiesi.  Ma con il Covid le cose si sono complicate a causa di un virus ben più insidioso e potenzialmente letale rispetto a quello influenzale ( https://tinyurl.com/y5arrejz ), come dimostrano i numeri dei colleghi caduti sul campo affrontando a mani nude il Sars-Cov 2 nella prima ondata. Era necessario un salto di qualità organizzativo per minimizzare l'elevatissimo rischio infettivo, che anche nella seconda fase è costato la vita di numerosi MMG pur dotati di adeguati DPI; solo in ospedale è stato possibile affrontare con maggiore sicurezza tale rischio a prezzo però di abbandonare buona parte delle attività cliniche e della domanda di prestazioni diagnostico-strumentali esterne.

Proprio per questi motivi solo strutture ben organizzate, poste in una posizione strategica di mediazione tra ospedale e studi dei MMG come la rete di distretti sanitari, potevano garantire quella riserva di ridondanza sistemica necessaria per mobilitare sul territorio risorse di resilienza e adattamento allo stress test pandemico. E’ pur vero che con le USCA si è tentato di correre ai ripari, proponendo un servizio dedicato al Covid-19 e non a caso di impronta specialistica ospedaliera centralizzata. Tuttavia la risposta operativa è stata inferiore alle necessità in molte regioni in quanto è mancato il supporto organizzativo della rete distrettuale territoriale, indebolita dai tagli dei servizi se non deliberatamente smantellata per precise scelte policy regionali come in Lombardia. In sostanza alla gestione extra-ospedaliera del Covid-19 è mancato soprattutto il coordinamento e il collante integrativo di una efficiente rete di presidi sanitari distrettuali sul territorio.

3-Da più parti per riformare la sanità territoriale viene proposta la traslazione del modello organizzativo ospedaliero sulle cure primarie, con la formula del poliambulatorio multiprofessionale, sul modello delle “case della salute” o delle Unità Complesse delle cure primarie, peraltro già previste dalla riforma Balduzzi ma rimaste sulla carta in molte zone. Questa soluzione è sicuramente adatta ai contesti urbani ad alta densità abitativa ma, per cause di forza maggiore, non si può estendere a tutte le aree geo-demografiche. Infatti il 30% circa degli italiani vive in comuni con meno di 10 mila abitanti e quasi il 20 sotto i 5 mila, dove lavorano da 1 a 6 MMG, spesso in zone disagiate, con popolazione sparsa in piccole frazioni dove è improponibile il modello della casa della salute urbana, per evidenti problemi logistico-infrastrutturali, di costi fissi e di economia di scala. Bisogna sottolineare che si tratta di aree già abbandonate dalla razionalizzazione della sanità pubblica, a base di chiusura di piccoli ospedali, lontane dai maggiori centri abitati e dai grandi nosocomi, con difficoltà di spostamenti e logistici, che favoriscono ancora di più lo spopolamento e l'abbandono del territorio, specie montano ed appenninico.

Il fatto è che nei piccoli comuni o in quelli un po' più grandi ma frazionati su un vasto territorio l’organizzazione dei cosiddetti "punti di cura" attrezzati con strumentazione tecnologica (ECG, ecografia, spirometria etc..) è impossibile per le limitate risorse professionali e ambientali; senza contare che per gestire la diagnostica con la dovuta garanzia di qualità e affidabilità servono MMG adeguatamente formati, con consolidata esperienza pratica, ovvero generalisti con "special interest" che non sono attualmente presenti su un "mercato" già gravemente deficitario per un ricambio generazionale incompleto. Insomma quello delle case della salute è destinato a restare un modello prettamente cittadino improponibile in aree a bassa densità abitativa, salvo garantire nelle zone disagiate il supporto di un'adeguata rete di teleconsulti specialistici, ormai è alla portata di ogni amministrazione regionale. Per queste popolazioni le cure primarie resteranno l'unico punto di riferimento sanitario e il MMG non potrà che mantenere il profilo artigianale e solitario che, per necessità ambientali, ha ricoperto socialmente fin dalla seconda metà dell'ottecento la figura del medico condotto.

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