sabato 21 novembre 2020

La gestione organizzativa del Covid-19 (II): alle prese con il dilemma della complessità

K. Popper: “La consapevolezza non inizia con la cognizione o con la raccolta di dati o fatti, ma con i dilemmi”.

Nel post precedente (http://curprim.blogspot.com/2020/11/gestione-del-covid-19-sul-territorio-e.html) ho cercato di illustrare in modo schematico qual'è la strategia adottata dalle organizzazioni complesse ed alta densità tecnologico-specialistica per affrontare la sfida dell'incertezza e del caos ambientale.

La mission dell'organizzazione è quella di preservare l'integrità funzionale del nucleo tecnico, "sigillandolo" nel cuore della struttura al fine di:

  • mantenere un sistema chiuso a tutela della razionalità tecnica 
  • garantite la massima efficienza procedurale
  • grazie alla selettività delle relazioni con l'esterno
  • possibile per le barriere erette a protezione dalle perturbazioni e dall'incertezza ambientale.

Questa è stata la risposta del sistema ospedaliero all'assalto del Coronavirus, che ha assediato e in parte conquistato la struttura, prima che si mettesse in atto la strategia difensiva di blocco dei servizi  periferici al confine (chiusura dei poliambulatori, annullamento e rinvio delle prestazioni diagnostiche, dei ricoveri, day-hospital etc..).

In questo drammatico frangente le organizzazioni hanno dovuto affrontare il dilemma della complessità che è così sintetizzabile: per affrontare la complessità del proprio ambiente di riferimento conviene aumentare la complessità interna del sistema organizzativo, oppure è meglio selezionare una porzione dell'ambiente a cui rispondere in modo elettivo?

Tra i due corni del dilemma della complessità la gestione ospedaliera ha optato per la soluzione proposta dal sociologo N. Luhman, secondo il quale "un sistema è delimitato da un confine tra sé stesso e il proprio ambiente, caratterizzato da una complessità esterna infinita o caotica. L’interno del sistema è quindi una zona di complessità ridotta. La selezione di una quantità limitata delle informazioni disponibili all’esterno è il processo è chiamato “riduzione della complessità”. Semplificando il sistema, il suo grado di libertà aumenta e migliora l’efficacia della risposta" (https://www.cuoaspace.it/2019/07/il-dilemma-della-complessita.html).

La risposta della gestione ospedaliera alla pandemia è chiaramente riconducibile e questo modello. Vi è però un'alternativa a questo schema di reazione ed è l'altro corno del dilemma della complessità nelle organizzazioni in generale. Si tratta della cosiddetta legge della varietà necessaria, formulata dal neurobiologo e cibernetico W.R. Ashby che recita “per controllare un sistema di una certa varietà è necessario un sistema di controllo avente una necessaria varietà”. La legge di Ashby applicata ai sistemi organizzativi "comporta che all’aumentare della complessità ambientale (espressa in termini di varietà esterna) deve crescere il livello di varietà (diversità) interna. La complessità organizzativa interna è quindi la risposta adattativa alla complessità esterna". 

La direzione che prende l'organizzazione per per far fronte alla complessità ambientale è quella della differenziazione funzionale in sotto-unità specializzate, che in medicina è del tutto tipica ed evidente, tanto che ormai siamo arrivati alla sub-differenziazione all'interno della stessa specializzazione (ad esempio la virologia all'interno della microbiologia piuttosto che l'aritmologia nel contesto della cardiologia o la rinologia nell'ambito dell'ORL e così via).

Tuttavia come conseguenza della pressione pandemica sulle strutture si è assistito contemporaneamente ad una ibridazione dei due corni del dilemma della complessità, in una sintesi virtuosa

1-nella dimensione funzionale della gestione clinica il sistema si è differenziato in 5 sotto-sistemi: zone filtro in PS con percorsi dedicati separati dai percorsi no-covid (dove possibile), reparti Covid-dedicati per i casi meno gravi, degenze sub-intensive e letti in terapia intensiva per i casi più gravi, reparti per post-acuti o di riabilitazione funzionale dopo la degenza.

2-per rispondere più efficacemente, dopo il filtro all'accesso dell'onda d'urto dei malati Covid-19, si è creata una vasta area clinica generalista, a cavallo tra infettivologia, virologia clinica, pneumologia, immunologia, ORL, medicina interna e terapia intensiva, in cui si sono rimescolate le carte rispetto alle tradizionali divisioni e separazioni disciplinari. 

In sostanza per far fronte alla perturbazione virale il sistema si è de-specializzato, mobilitando tutte le risorse di ridondanza adattativa dell'organizzativa, disponibili ma latenti e indispensabili per rafforzare la resilienza all'impatto dello shock pandemico sulla struttura; secondo Taleb le riserve di ridondanza funzionale sono essenziali per aumentare l'antrifraglità/resilienza del sistema, ovvero assorbire senza danni gli stress da impatto di un "cigno nero" sulla gestione dell'organizzazione ( http://www.manifestoantifragile.it/principi-antifragili/ridondanza-adattativa  ). La ridondanza funzionale è stata mobilitata nella misura in cui ogni settore clinico di matrice internistica ha contribuito in modo generalista, e non da specialista o super-specialista, alla gestione dei casi, categorizzati in base alla gravità clinico-assistenziale e non alla tipologia d'organo/apparato interessato (anche perchè i più a rischio sono gli anziani polipatologici). 

Nella gestione del Covid-19 si è realizzata nei fatti, e forse per necessità, quella integrazione tra diverse professioni spesso evocata ma non sempre attuata nelle pratiche organizzative. In sostanza attorno al Covid-19 si creata una nuova forma organizzativa ad hoc, si è ristrutturato un sistema "creato dal problema". La ristrutturazione del sistema ha aumentato la varietà della risposta ad una specifica  situazione emergenziale, seppur a scapito della domanda di prestazioni in altre aree patologiche, per far fronte ad una gamma di intensità clinico-assistenziale.

Tutti gli specialisti coinvolti, in sostanza, sono diventati un po' virologi, pneumologi, internisti, immunologi, intensivisti etc.. rinunciando per un limitato periodo di tempo alla propria identità/differenziazione specialistica, per assumere il ruolo del jolly a protezione del nucleo tecnico intensivistico. Insomma da specialisti garanti di elevate performances in una disciplina clinica sono dovuti "regredire" al ruolo di tuttologi, un po' come accade nell'atletica leggera allo sportivo che decide di gareggiare nel decatlon, dove sono richieste prestazioni medie di buon livello in tutte le gare previste e non serve per vincere una prestazione da finale olimpica in una singola disciplina.

E sul territorio, come sono andate le cose? Come si coniuga questo schema analitico nel contesto delle cure primarie? (2-continua).

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