venerdì 21 gennaio 2022

I ritardi degli ACN rischiano di ritardare il PNRR e non si superano con forzature legislative

Non si cambia la società per decreto

M. Crozier

I patologici ritardi nel rinnovo di ben due ACN triennali metto a repentaglio la parte della Missione 6 del PNRR dedicata al rilancio della medicina territoriale. Eppure fin dal varo del PNRR sono stati segnalati alcuni rischi ed ostacoli per l’attuazione delle case ed ospedali della comunità, vale a dire i punti qualificanti del piano per l'assistenza primaria: la mancanza di definizione di strutture, tecnologiche e norme organizzative per l'assistenza territoriale, normativa nazionale ambigua in materia di assistenza primaria, con conseguente attuazione ineguale a livello regionale, scarsa capacità di coordinare i professionisti, soprattutto quelli con accordi contrattuali, scarsa capacità di coinvolgere il diversi stakeholder, numero e competenza insufficienti del personale dedicato all'attività (si veda il PS).

Non si trattava di un cahier de doléances frutto di opposizione preconcetta al recovery plan, ma dei principali avvertimenti contenuti nelle schede di programma inviate a Bruxelles, dopo l’OK del parlamento italiano, per ottenere il via definitivo ai finanziamenti promessi.
 
Ebbene, all’inizio del 2022 le pessimistiche previsioni paventate nel dossier sono venute alla luce con ritardi e inadempienze di breve e lungo periodo: nei due anni della pandemia si è perso prima il treno dell'ACN triennale 2016-2018, sottoscritto in extremis con altrettanto ritardo il 20 gennaio 2022, e poi anche il successivo ACN 2019-2021 che ha cessato la sua validità temporale prima ancora di essere negoziato.

Se si allarga l’orizzonte temporale ai primi decenni del secolo si registra il ritardo quindicennale nel rinnovo della parte normativa ed organizzativa dell’ ACN, delle deliberazioni sulle case della salute mentre a novembre 2022 cadrà il decennale della riforma Balduzzi, che da allora riposa nei cassetti della maggioranza degli assessorati regionali.
 
AFT e UCCP potevano costituire una rete di protezione per un’efficace gestione della pandemia, le prime addirittura a costo zero; ciononostante sono rimaste sulla carta per il disinteresse dei decisori regionali, a parte alcune eccezioni. Da qui un dubbio legittimo: se in quindici anni riforme, decreti ministeriali, accordi stato-regioni e ACN sono rimasti lettera morta, cosa garantisce che sia portata a termine in un lustro una ristrutturazione epocale come quella del PNNR?
 
La leva per colmare i limiti di un approccio puramente giuridico-formale, come quello che ha ispirato norme rimaste inattuate, doveva venire dalle risorse comunitarie e soprattutto da un cambiamento del metodo di implementazione del PNRR, imposto con il cronoprogramma di riforme dettato da Bruxelles pena la revoca dei finanziamenti.
 
Invece all’inizio dell’anno cruciale per l’avvio del programma di riorganizzazione del territorio siamo ancora alle prese con rinvii, inottemperanze e soprattutto con la riproposizione delle stesse logiche giuridico-formali top down, come l’ipotesi di un rinnovo dell’ACN ope legis, dopo una vacanza contrattuale quinquennale, al pari della rivendicazione del passaggio al rapporto di subordinazione o di un’etichetta specialistica garante del recupero di immagine e ruolo sociale.
 
Per una sorta di coazione a ripetere si reitera la soluzione astratta di norme calate dal centro sui territori, confidando che un atto legislativo emergenziale possa rimediare al tempo perso e indurre ipso fatto cambiamenti sociali complessi che richiedono processi articolati di traduzione pratica, previa negoziazioni e coinvolgimento del sistema socio-tecnico incaricato della messa in atto delle riforme stesse.
 
Senza queste precondizioni anche il più accurato dispositivo normativo rischia nel migliore dei casi l’inefficacia e nel peggiore di sortire effetti perversi o contro-intuitivi, come il rischio di defezioni anticipate dei medici in procinto del pensionamento; potrebbe essere questo l’esito empirico di ACN imposto senza condivisione di obiettivi e strumenti, per via di una “ scarsa capacità di coordinare i professionisti, soprattutto quelli con accordi contrattuali, e coinvolgere i diversi stakeholder”, come ammoniva con preveggenza il dossier sopra citato.
 
In questo contesto risaltano alcuni limiti della bozza di rinnovo dell’ACN divulgato in questi giorni. Accenno solo a due aspetti pratici che mettono in dubbio l’impatto di una convenzione imposta con una forzatura rispetto alle mediazioni sindacali.

1 - Passeranno almeno 2 anni, se tutto va per il verso giusto, prima che siano attive almeno 1/3 delle Case e degli Ospedali di Comunità previsti sulla carta. Nel frattempo dove verranno espletate le attività previste nelle ore che i MMG sono tenuti a svolgere nelle strutture? Inoltre la tipologia standard della struttura prevede 10 sale di consultazione per i medici dell'assistenza primaria, che per un bacino di 45 residenti supera i 35 professionisti tra MMG, PLS, MCA e dei servizi e infermieri di comunità. Come sarà possibile ospitare tutti questi operatori sanitari in contemporanea nella 12 ore diurne, sia per l'assistenza convenzionata individuale a quota capitaria sia per le attività orarie di tipo comunitario?
 
2- Nonostante i propositi del PNRR circa l’assistenza domiciliare occasionale e quella programmata/integrata nella bozza non vi sono dettagli su questa attività, che occupa non meno di 1 ora al giorno ogni MMG in continuità con l’assistenza ambulatoriale. L'organizzazione dell'assistenza domiciliare parte dallo studio del MMG per una intuibile motivazione legata alla prossimità. Si pensi solo ai problemi di spostamento dallo studio del medico, definito nella bozza spoke, alla Casa della Comunità in zone disagiate o scarsamente popolate. Alle 20 ore settimanali di assistenza ambulatoriale dovrebbero essere aggiunte almeno altre 5 ore dedicate a quella domiciliare, riducendo in egual misura quelle da prestare nella sede del distretto o della Casa della Comunità.

Questa incongruenza è ancor più marcata se si pensa che uno dei capitoli della Missione 6 è dedicato proprio all'estensione dell'assistenza domiciliare, con l'ambizioso obiettivo di arrivare al 10% di ultra 65enni curati a casa rispetto all'attuale 6%. A dire il vero nella bozza si accenna all'assistenza domiciliare ma nel segno del paradosso in quanto si prevede che nelle “12 ore settimanali svolte per iniziative definite dal distretto e/o dalla casa della comunità è prevista anche l’ assistenza domiciliare“ potendo “essere svolte presso la casa della comunità (hub e spoke), lo studio del MMG, la sede della AFT, altri locali individuati dalle autorità sanitarie”.
 
E’ difficile immaginare come sia possibile garantire l’assistenza domiciliare in locali diversi da quelli di residenza dell’assistito! Ma tant’è, quest’obbligo potrebbe trovare posto in una norma di legge, al pari di parametri orari rigidi e sottoposti a controllo burocratico, che ignorano la flessibilità dell’impegno professionale sul territorio, sia in studio sia a domicilio del paziente o con il telelavoro da casa, per via di ben note variazioni settimanali e stagionali della domanda.
 
Non si cambia la società per decreto, ammoniva nel secolo scorso il sociologo francese Michel Crozier, figuriamoci quando si tratta di ricostruire e coordinare una complessa rete orizzontale e non gerarchica di servizi socio sanitari ed assistenziali, composta da una pluralità di attori professionali ed organizzativi, pubblici e privati, autonomi e interdipendenti.

P.SRischi ed ostacoli per il completamento dei programmi.

Le schede di accompagnamento degli interventi della misura 6 inviate a Bruxelles comprendono anche la dettaglia elencazione dei rischi e dei potenziali ostacoli per la completa e puntuale realizzazione delle strutture. Quella relativa alla CdC è senza dubbio la più dettaglia e ricca di spunti per un’efficace implementazione delle strutture.

Rischi ed ostacoli per la realizzazione della CdC

1-amministrativi:

         la mancanza di definizione di strutture, tecnologiche e norma organizzative per l'assistenza territoriale;

         il numero di enti e amministrazioni coinvolte;

         la mancanza di connessione tra istituzioni;

         normativa nazionale ambigua in materia di prima assistenza, con conseguente attuazione ineguale a livello regionale;

         disuguaglianza a livello regionale nel livello di attuazione di LEA per l'assistenza sanitaria e nel livello di attuazione istituzionale dell’accreditamento.

 2- organizzativi:

         scarsa capacità di coordinare i professionisti, soprattutto quelli con accordi contrattuali;

         mancanza di omogeneità a livello regionale nell'offerta di servizi;

         difficoltà in individuazione degli spazi idonei messi a disposizione dai comuni;

         scarsa capacità di coinvolgere il diversi stakeholder coinvolti;

         numero e competenza insufficienti del personale dedicato all'attività;

         scarsa responsabilizzazione dei cittadini / pazienti nell'adesione a iniziative di promozione della salute e scarsa integrazione tra Servizi;

         mancanza di formazione specifica degli operatori;

3- finanziari:

        mancanza di risorse ad hoc destinate ai servizi;

        difficoltà nel finanziamento delle attività che non hanno un budget dedicato;

        difficoltà nel governo delle varie fonti di finanziamento da diversi enti e amministrazioni.

 Lo standard previsto per le CdC è senza dubbio il punto più critico della Missione 6 del PNRR. Le CdC così dimensionate – ovvero in media 1 ogni 45-50mila abitanti al centro nord e ogni 35-.40 mila nel mezzogiorno - potrebbero essere adatte alle aree urbane ad elevata densità o perlomeno nei comuni con almeno 50 mila residenti. Peraltro l’infrastruttura prevista e finanziata dal PNRR difficilmente potrà ospitare tutti gli operatori sanitari dell’assistenza primaria, vale a dire MMG, PLS, MCA, medici dei servizi, igienisti, coordinatori sanitari e infermieri di famiglia, per non meno di una quarantina di professionisti, a cui si dovranno aggiungere gli specialisti ambulatoriale, gli operatori amministrativi e gli addetti al centralino.

Queta tipologia sarà meno adatta alle zone extraurbane scarsamente popolate della pianura, della collina e soprattutto della montagna. Tenuto conto che il 90% degli 8mila comuni italiani ha meno di 15mila abitanti e che il 30% della popolazione abita in località con meno di 10mila residenti non sarà possibile garantire l’attuale capillarità assicurata dagli studi dei MMG. Con questi parametri si è fatto un passo indietro rispetto alla prima bozza per cui vi è il rischio di un aumento delle disparità di accesso tra i cittadini in quanto non potranno garantire una buona accessibilità nelle zone disagiate e nei piccoli comuni con popolazione sparsa in frazioni.

I residenti in zone con difficoltà di collegamenti stradali, già ora penalizzati per la distanza dagli ospedali, non potranno di fatto gravitare e fruire delle CdC. Inoltre difficilmente in queste aree i MMG accetteranno di lasciare i propri studi, diffusi sul territorio, per confluire in poliambulatori lontani dalle residenze dei propri assistiti; anche gli operatori sanitari dell’assistenza domiciliare dovranno fari i conti con le difficoltà di spostamento per raggiungere le abitazioni di utenti residenti in piccoli paesi o frazioni distribuiti in ampio territorio con intuibili problemi di viabilità e tempi per i trasferimenti.

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