Filosofi della scienza ed epistemologi godono di una fama di logici implacabili, freddi calcolatori e stringenti ragionatori, che lasciano poco spazio alle sfumature, alle sensazioni e alle emozioni. Niente di più falso, perlomeno per quanto riguarda due esponenti della categogia che, al contrario, prendono le mosse proprio dalle sensazioni e dalle emozioni per sviluppare le loro teorie della conoscenza: sia il pragmatista americano John Dewey che il razionalista critico Karl Popper hanno affrontato i problemi della conoscenza e dell'errore (specie il secondo) partendo dal vissuto soggettivo, pur da diverse angolature.
Ecco alcune considerazioni sull'importanza della sorpresa, e in generale delle reazioni emotive legate all'esperienza nel procedimento clinico; la percezione di una fastidiosa discrepanza (vedi il post precedente) o un di disagio cognitivo possono essere la chiave di volta per riconoscere il quasi-errore e, soprattutto, per prevenire le conseguenze dell'errore franco.
1-John Dewey ad onor del vero non affronta specificatamente il problema dell’errore, ma bensì le situazioni problematiche che per le loro difficoltà possono esitare in un errore e richiedono un approccio critico. L'indagine prende avvio da una sensazione di sorpresa, sconcerto, dubbio ed incertezza di fronte a problemi inattesi che non rientrano nelle consuete modalità routinarie di definizione e soluzione. Dewey postula la coincidenza tra indagine, apprendimento e pensiero riflessivo: “La funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa [.....] determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione in una totalità unificata”.
Dal vissuto di disagio o sconcerto prende avvio l’indagine deweyana, che prevede il seguente percorso metododologico:
1. La situazione indeterminata come origine del processo di indagine
2. La suggestione e l’intellettualizzazione: la definizione del problema
3. La generazione di ipotesi e il ragionamento deduttivo: se....allora
4. La verifica empirica dell’ipotesi
5. La situazione rischiarata come esito finale dell’indagine
Secondo Dewey la prrocedura logica dell'indagine accomuna il ricercatore, l'educatore e il professionista pratico nel medesimo atteggiamento riflessivo a partire dall'esperienza problematica. E' agevole intravedere in fligrana nell'idagine deweyana, da un lato, il modello generale del problem solving e, dall’altro, quella particolare forma di indagine che è procedimento diagnostico, che inizia con la raccolta delle informazioni anamnestiche, prosegue con la definizione del sintomo chiave/problema, esita nella generazione delle ipotesi e nella loro verifica, tramite ulteriori informazioni ricavate dall'esame obiettivo e/o dalle indagini cliniche, preludio alla terapia razionale.
2-Karl Popper, dal canto suo, individua nella sorpresa, intesa come gap tra fatti ed aspettativa che le cose vadano in un certo modo, il motore del cambiamento teorico: Popper fa l'esempio pratico della discesa dalle scale e della sorpresa che si sperimenta quando si ritiene di essere arrivati in fondo, ma in realtà c'e' ancora un gradino che inconsciamente non era previsto. Afferma Popper: "La nostra conoscenza inconsapevole assume spesso il carattere di aspettative inconsce, e talora ci rendiamo conto di aver avuto un’aspettativa di questo genere solo quando essa si rivela infondata [....]. Ciò mi indusse a questa formulazione: quando un evento ci sorprende, la sorpresa è di solito dovuta all’aspettativa inconscia che debba succedere qualcosa di diverso".
Più prosaicamente si potrebbe fare un'altro esempio di comune riscontro pratico, vale a dire la sorpresa che si prova quando ci si siede sul water senza accorgersi che in realtà manca la...."ciambella". In entrambi i casi la “teoria” implicita viene invalidata dai fatti, generando la sorpresa" per la discrepanza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo sperimentato. Ecco quindi le basi interpretative della sorpresa che si prova di fronte ad un esito clinico non messo in conto, ad esempio un esame diagnostico che dimostra la presenza di una patologia rara; in casi simili la reazione emotiva è l'antecedente diretto del quasi errore, il suo "precursore", e il grado di sorpresa è proporzionale alla distanza tra l'ipotesi e la realtà. Nel senso che il dato "oggettivo" rivela la discrepanza tra il problema e sua rappresentazione "soggettiva": l'ipotesi diagnostica che ha motiva la richiesta dell'accertamento clinico, per quanto vaga e nebulosa, si rivela infondata e viene bruscamente scalzata da un riscontro inaspettato e perciò sorprendente (vedasi il post precedente sul mismatch cognitivo, che è l'altra faccia della sorpresa).
In termini pratici capita che l'esito di un accertamento diagnostico conduca ad una diagnosi che mai si era immaginata, in quanto estranea alle aspettative routinarie, ovvero alla "teoria" implicita del caso. Il quasi-errore consiste proprio nella mancanza di questa sorpresa, perlomeno nelle prime fasi del procedimento o fino a quando, magari nel follow-uo, emerge un nuovo dato. Quello che appariva un caso come tanti si trasforma quando una nuova informazione cambia la rappresentazione della vicenda, fino alla reazione di disappunto per l'inattesa sorpresa: "perchè non ci avevo pensato prima (alla diagnosi corretta), cosa mi ha impedito di porre l'ipotesi diagnostica giusta?".
Insomma le sfumature emotive contano, che si presentino alla coscienza come tenui variazioni cromatiche di dubbio o generico disturbo/disagio, piuttosto che improvvisi cambiamenti di colore, come un'inattesa sorpresa.
BIBLIOGRAFIA
⦁ AA VV, I grandi filosofi: Dewey, vita, pensiero, opere scelte. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
⦁ Popper K.R., Verso una teoria evoluzionisticaa della conoscenza, Armando, Roma, 1999
⦁ Striano M., Per una teoria educativa dell'indagine, Pensa Multimedia, 2016
Notizie, commenti e riflessioni sulla medicina del territorio. "Non c'è nulla di più pratico di una buona teoria" (K. Lewin)
mercoledì 17 agosto 2016
mercoledì 10 agosto 2016
Mismatch cognitivo e quasi errore diagnostico
La
teoria della decisione è dominata da due diverse impostazioni: i
modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il
miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta
razionale), e quelli descrittivi, che all’ opposto si limitano ad
osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai
soggetti, in contesti sperimentali o naturali. Nel campo dell’errore
medico prevalgono gli approcci normativi: i modelli bayesiani e il
cosiddetto risck management (RM). Entrambi suggeriscono il modo
migliore per decidere ma, ciononostante, la gente resta
inesorabilmente affetta da fallibilità e quindi serve a poco
indicare la retta via se poi ogni tanto nella vita reale si imbocca
quella sbagliata.
Secondo
il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che
applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata
formula elaborata del reverendo inglese per correggere le probabilità
di un evento alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per
decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale,
freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo
possesso, ma non è affatto facile trovare nella realtà fattuale un
soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine
calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali
sufficienti e i dati per applicare la fatidica formula.
Secondo
il RM invece per evitare sbagli basta seguire procedure predefinite
che sono una sorta di garanzia di “infallibilità”. Il
RM si concentra sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che
possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli
operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. garanti
dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore,
inteso come “fallimento
nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che
determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo
desiderato".
Ma se in un certo settore mancano LLGG o ve ne sono più di una, tra
loro dissonanti? Entrambi i modelli condividono la stessa
impostazione istruttiva, il
medesimo presupposto implicito in base al quale per evitare l’errore
basta applicare
regole, procedure, formule, linee guide etc.,
predefinite
da ricercatori e “tecnici”, da
implementare nella pratica clinica.
I
decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile
“razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo
secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per
descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti
naturali: oggi si direbbe, in modo scherzoso, che le persone
utilizzano le
formule in modo
spannometrico. Servirebbe
invece una sorta di navigatore che avverta per tempo il decisore che,
il più delle volte inconsapevolmente, ha scelto un tragitto
sbagliato, onde evitare che dal quasi errore cada nell'errore. Perchè mentre si sta sbagliando non ci si accorge dell'errore, che richiede uno scarto temporale per emergere dall'inconscio cognitivo alla consapevolezza.
La
chiave di volta stà in un un aforisma del filosofo Cartesio che
recita: l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra
tale. Se lo sbaglio sfugge alla percezione e alla consapevolezza, in
quanto inapparente e subdolo, il primo obiettivo pratico è quello di
percepire quanto prima l'errore stesso, il che non è agevole proprio
per il suo carattere sfuggente e sub-liminale. Nel momento in cui si
compie non ci si avvede dell’errore per una sorta di anosognosia
cognitiva, simile a quella che colpisce alcuni soggetti affetti da un
deficit neurologico motorio, che però disconoscono come tale,
comportandosi come se nulla fosse e come se potessero contare
sull’integrità del sistema motorio. Serve quindi una tecnica, una
procedura affidabile che smascheri l'anosognosia cognitiva e riveli
l’errore all’errante inconsapevole, quanto più precocemente per
poter rimediare e correggere il percorso. Discrepanza temporale e mismatch cognitivo sono le due facce della stessa medaglia.
Alcuni
psicologi (Rizzo et al 1996) hanno proposto un modello a più stadi,
per descrivere il processo di "svelamento" dell'errore,
così articolato:
1. il
primo passo consiste nell’ emergere di una discrepanza
percettivo-valutativa (mismatch) spesso in modo vago ed “epidermico”,
a pelle
2. a
cui segue la scoperta (consapevolezza) che è stato commesso un
errore
3. l'identificazione
(individuazione) dell'origine e
della natura della
discrepanza
4. il
superamento della discrepanza tra obiettivo prefissato e il risultato
conseguito (strategie per eliminarla, capirla e rimuovere le cause).
La
mismatch è frutto della mancata corrispondenza tra informazioni ed
aspettative (ipotesi, previsioni etc..) e dati empirici, oppure al
fatto che queste non sono corrette o non sono state aggiornate. Gli
autori si riferisco più che altro ad azioni finalizzate e procedure
pratiche; nel campo della diagnosi medica significa che serve una
certa sensibilità per percepire i segnali di mismatch o ricercare
attivamente i feed-back che testimoniano la discrepanza tra realtà e
la sua rappresentazione mentale, che è il punto nodale per
riconoscere quanto più precocemente il quasi-errore diagnostico, affinché
non si traduca in
errore vero
e proprio
dalle conseguenze pratiche.
A
volte la discrepanza parte da una sensazione sgradevole di
insoddisfazione, da uno stato d'animo di perplessità, di fastidioso
dubbio o sfasatura; in altri casi invece si presenta come
un'improvvisa "sorpresa", rivelazione o illuminazione sulla
differenza tra rappresentazione e realtà dei fatti. Il disagio
cognitivo indotto dal mismatch è radicato nel vissuto e può essere
superato con un atteggiamento di riflessione sull'esperienza, dai
connotati meta-cognitivi chiaramente distanti se non antitetici
rispetto all'impostazione istruttiva del RM.
domenica 7 agosto 2016
Decisioni pratiche situate, opinioni degli esperti e metanalisi
Una
delle caratteristiche della competenza professionale è quella di
sapersi adattare alla specificità del contesto professionale,
epidemiologico, organizzativo etc.. e quindi di “accomodare”
le indicazioni generali di buona pratica clinica alle particolari
condizioni dei singoli assistiti. Abilità che derivano
dall'esperienza pratica sul campo, più che dal bagaglio di nozioni
teoriche. Non
esiste una competenza astratta, decontestualizzata, irrelata rispetto
alle pratiche situate
e alle condizioni
locali;
tuttavia permane
una certa diffidenza nei confronti del medico pratico, spesso
non a suo agio con
statistiche
e formule
matematiche, senza le quali tuttavia
prende innumerevoli decisioni di fronte ai
singoli
pazienti.
Pesa
ancora la squalifica implicita nella gerarchia EBM delle evidenze,
quella piramide che vede al vertice revisioni sistematiche e
metanalisi mentre alla base stanno, appunto, le opinioni degli
esperti. Probabilmente
si tratta di
una squalifica involontaria della medicina pratica, ma di fatto
quella piramide ha finito per svalutare
e ridurre l'auto-stima di chi lavora
sul campo,
ovvero si sporca le mani con la relazione medico-paziente, invece che
con inferenze e formule statistiche,
facendo
affidamento sulle proprie opinioni e valutazioni estemporanee nel
momento della decisione
(per giunta da generalista e non certo da specialista).
Certo,
le opinioni degli esperti della piramide EBM non riguardano micro
scelte diagnostiche o terapeutiche ma considerazioni
generali
ed
evidenze
statisticamente
“oggettive”.
L'equivoco
nasce da
qui:
dal punto di vista delle prove
di popolazione, astratte rispetto al contesto e relative ad
ideal-tipi nosografici
impersonali
- come i
soggetti arruolati
nei trial randomizzati in
base
di
criteri di esclusione - valgono certamente più le conclusioni delle
metanalisi che non le opinioni di un clinico pratico. Ma di fronte a
malati in carne ed ossa, nei contesti decisionali e nelle situazioni
pratiche, specie
alle
prese con casi caratterizzati da varietà, unicità e complessità
polipatologica - come la stragrande maggioranza dei malati comorbidi
- forse
le opinioni del medico
al letto del malato
non
sono meno
importanti
dei risultati dell'ultima
revisione sistematica.
Proviamo ad immaginare uno scambio di ruoli: cosa
succederebbe se un “pratico”
lavorasse
per una settimana in un centro epidemiologico,
ad
elaborare metanalisi, a
fronte della presenza di un epidemiologo
in un ambulatorio di MG sul territorio? Di sicuro il
generalista rischierebbe di combinare un
bel po' di disastri con formule matematiche e statistiche mediche.
Forse
è arrivato il tempo di sdoganare l'approccio
del
“pratico” e le sue opinioni di esperto situato.
Il
presupposto della superiore validità delle metanalisi, rispetto alle
opinioni degli esperti, sta nell'idea che le elaborazioni statistiche
sui grandi numeri sono più aderenti alla realtà rispetto alle
conclusioni di
esperti, ricavate
dall'esperienza individuale,
su
casistiche limitate e non
selezionate.
A questo
proposito,
nelle ultime settimane ho avuto
modo di seguire
tre casi clinici
della stessa patologia cronica
e, riflettendo sulle tre vicende parallele, mi sono reso conto della
grande varietà dei decorsi e delle configurazioni
patologiche.
Praticamente nessuno dei tre era
affetto da una forma “pura” ma
tutti erano
invece portatori
di diverse
comorbilità, le più variegate sia nel percorso
diagnostico-terapeutico
che nella "narrazione"; a dimostrazione che nella pratica
ambulatoriale
le forme pure ed isolate, cioè le diagnosi prototipiche da
manuale,
sono praticamente inesistenti (a
differenza degli
studi clinici che
arruolano solo
candidati filtrati
da rigorosi
criteri di esclusione, ovvero selezionando
popolazioni minoritarie rispetto alla routine delle comorbilità,
specie
geriatriche).
Per
non parlare dell'area grigia di incertezza prevalente
in MG,
popolata da disturbi orfani di diagnosi, sindromi sotto-soglia, stati
al confine tra salute e malattia, soma
e psiche,
disturbi
auto-limitanti e transitori
etc.,
condizioni poco o per nulla “ebiemmizzabili”, per usare il
colorito neologismo coniato da Giorgio Bert.
In sostanza l'approccio
del pratico
è orientato
da studi clinici ed
elaborazioni statistiche
artificiali ed
eccentriche
rispetto alla
realtà fattuale; ciononostante
continuano
ad agire e prendere decisioni con quel tipo di "faro", che
illumina solo una porzione della realtà, ma
di necessità integrata
dalle opinioni maturate in situ e nelle condizioni cliniche
date.
La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.
Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio.
La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.
Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio.
martedì 2 agosto 2016
I nuovi codici di priorità, questi sconosciuti!
C'era
una volta il “bollino verde”, introdotto
all’ inizio del secolo
in Lombardia, per instradare in una corsia preferenziale le
cosiddette “urgenze differibili”. L’obiettivo era di offrire
un’alternativa all’ utilizzo
improprio
al
PS, onde contenere il sovraccarico delle strutture di
emergenza/urgenza: grazie all’ apposizione del fatidico adesivo
verde da parte del medico di MG la prestazione diagnostica o
specialistica poteva essere deviata sulle strutture ambulatoriali
ordinarie, che erano tenute a soddisfarla entro 72 ore dalla
prenotazione.
Ben
presto però il bollino verde è stato utilizzato per scopi non
previsti dagli amministratori regionali
e, invece di migliorare l’appropriatezza organizzativa e temporale
dell'offerta, e si è trasformato in un grimmaldello per aggirare le
lunghe liste d'attesa, in situazioni che nulla hanno
di urgente: per giunta in molti casi l'utilizzo dell'urgenza
differibile avviene su pressione dagli assistiti, per by-passare
liste d’attesa, o su “suggerimento” dal personale
amministrativo addetto alla prenotazione.
La
vicenda del “bollino verde” è un esempio delle conseguenze
inintenzionali e impreviste
di
una deliberazioni finalizzata a raggiungere bel altro obiettivo,
tantè che in alcuni casi in i CUP non procedono alla prenotazione
delle “urgenze differibili” per eccesso di richieste e con tempi
di esecuzione della prestazione ormai fuori controllo.
Come
rimediare agli effetti “perversi” del bollino verde, migliorare
l’appropriatezza organizzativa riducendo lo squilibrio tra domanda ed offerta di prestazioni
ambulatoriali? La
soluzione, caldeggiata da tempo dalla MG ( http://curprim.blogspot.it/2015/10/una-modesta-proposta-per-razionalizzare_26.html ), è arrivata all'inizio del
2016 anche in Lombardia, dopo essere stata sperimentata
in altre regioni: una
diversificazione dei criteri di priorità temporale delle prestazioni
ambulatoriali, in modo che la
varietà dell’offerta
organizzativa possa venire incontro alla varietà delle richieste
provenienti dal territorio.
Così
dal
2016 sono entrate in vigore nuove classi di priorità, nell'ambito
dell'introduzione della dematerializzazione delle prescrizioni di
diagnostica ambulatoriale (Ricetta Elettronica) e
come previsto
dal Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa 2010-2012, così
articolate:
- U= urgente (nel più breve tempo possibile o, se differibile, entro 72 ore)
-
B= entro 10 gg
-
D= entro 30 gg (visite) entro 60 gg (prestazioni strumentali)
-
P= programmabile
In
teoria a pieno regime i
nuovi “filtri” dell’accesso alle strutture d’offerta e il
conseguente
riassetto
organizzativo dovrebbero produrre un significativo miglioramento
dell'appropriatezza temporale ed organizzativa delle prestazioni
diagnostiche, conseguendo
alcuni obiettivi attesi da tutti gli attori:
-
riduzione del numero di bollini verdi inappropriati, grazie alla deviazioni delle prestazioni verso le priorità B e D;
-
percorsi diagnostici più adatti alle esigenze cliniche dei singoli casi e razionalizzazione organizzativa delle prestazioni ambulatoriali;
-
maggiore soddisfazione degli utenti, per una risposta più pronta ed efficace, in relazione ai bisogni soggettivi, e con minore ricorso alle prestazioni libero-professionali in alternativa all'offerta del SSR.
Purtroppo
però, a più sei mesi dall'entrata in vigore dei nuovi codici di
priorità, l'applicazione pratica delle nuove norme è ancora
incompleta e, come si suol dire, a macchia di Leopardo. Le strutture
erogatrici infatti stentano ad adattare la gestione delle agende di
prenotazione e
i sistemi informatici
ai nuovi standard e capita, non di rado, che la priorità venga del
tutto ignorata al momento della prenotazione dell'esame o della
visita ambulatoriale. Rispetto
all’auspicata appropriatezza
temporo-organizzativa, garantita
dai nuovi
criteri di priorità, prevale
una
puntigliosa richiesta di adattamento burocratico del
MMG alle
regole amministrative
delle
strutture, a
base di ripetizioni
e correzioni delle richieste quando queste
non collimano con le esigenze economico-finanziarie, a prescindere da
quelle cliniche.
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