Contributo al dibattito sul futuro dell'assistenza primaria
Per prefigurare gli esiti della riforma della medicina territoriale conviene partire da quanto bolle in pentola e che verrà presto servito come
piatto forte al cenacolo riformatore, vale a dire le Case della Comunità (CdC).
Prima però mi si consenta una divagazione da “filosofia” spicciola delle politiche
pubbliche, utilizzando la chiave di lettura della classica dicotomia tra
programmazione top down e bottom-up. La misura 6 del Pnrr per quanto riguarda
le strutture territoriali costituisce uno strano ibrido tra i due modelli di
policy: da un lato promuove la crescita dal basso delle nuove strutture a partire dalle risorse umane, cognitive ed organizzative disponibili sul campo e da coinvolgere ma, dall’altro, dopo una semina top down a pioggia definita nei minimi
dettagli a prescindere dalle caratteristiche del territorio, con un’unica semenza che dovrebbe attecchire indipendentemente dal
terreno, fertile o sabbioso, arido o ben irrigato.
Va da se che sarebbe stato più
redditizio l’uso di varianti adatte alle diverse orografie, pena il rischio che qualche seme cresca in modo stentato e dando
frutti poco gustosi. La distribuzione centralizzata a pioggia delle CdC, in stile pianificazione sovietica, prescinde dalla dotazioni regionale di case della salute, che
si colloca lungo un continnum compreso
tra il 100% dell’Emilia Romagna e lo 0% di una manciata di altre
amministrazioni. La decisione di imporre top down le 1350 CdC marca di ambiguità l’implementazione ibrida di cui sopra. Sarebbe stata più
appropriata una ripartizione regionale dei fondi, lasciando libere le
amministrazioni di imbastire la rete Hub&Spoke più adatta al proprio
contesto, in nome dell’autonomia regionale e del principio della
territorializzazione dei servizi, correndo però il rischio di una disomogeneità
nei tempi e nei modi di edificazione delle CdC.
Insomma, fuor di metafora, che CdC
da 45-50mila abitanti rischino di rivelarsi un’indigesta ciofeca è chiaro a
tutti per svariati motivi; “ogni scolaretto sa” quanto siano diversificati gli
ecosistemi del bel paese, per parametri sociodemogafici, orografici, economici
ed antropologici senza contare la path dependence socio-organizzativa. La domanda è:
possibile che gli estensori del Pnrr non ne fossero consapevoli? La risposta
più probabile è che hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco, per
assecondare i diktat top down della UE diffidente verso le regioni italiane. Ad
onor del vero i 2 miliardi in più previsti dalla prima versione della Missione6 erano
quasi sufficienti per intessere una vera rete Hub&Spoke. Invece si è preferito dirottarli sull'assistenza domiciliare.
Inspiegabilmente la seconda versione ha adottato un parametro inappropriato per servizi sociosanitari territoriali
efficaci e di prossimità, buono tutt’al più per la riedizione del vetusto
“poliambulatorio specialistico INAM” nelle grandi città, ma poco o nulla appetibile
per quel terzo di connazionali che risiedono in comuni con meno di 20mila abitanti.
La pianificazione a tavolino delle 1350 CdC dovrà fare i conti con il fatto che
tra il neo-poliambulatorio e lo studio del MMG single nel borgo appenninico,
alle prese con lo spopolamento denunciato dal poeta paesologo Arminio, si
aprirà un gap che assomiglia ad una voragine. La combinazione tra un difficile
ricambio generazionale in MG, specie nelle aree disagiate, e CdC inaccessibili
agli abitanti delle stesse zone potrebbe assumere connotati paradossali se non
di una beffarda prossimità.
Bastava ripassare il DM70 o
scorrere i report Emiliani sulla locale rete di case della salute
Hub&Spoke, per convincersi che una una razionale diversificazione
dell’offerta, in ossequio alla legge della varietà necessaria,
passa dalla previsione di tre modelli: case piccole da 10-15mila abitanti,
medie da 30-40mila e grandi da 50 mila e più. Eppure anche in Emilia, sebbene
sulla carta le categorie programmate fossero tre, quando è stato fatto
l’inventario delle case in funzione si è scoperto che non ce n'era una uguale
all'altra, come ha sottolineato il prof. Longo del CERGAS Bocconi.
Come conciliare uno standard unico
e rigido di CdC, di necessità gestita in modo piramidale e burocratizzato sul
modello dell’ospedale, con esigenze territoriali così variegate? In che modo si potrà colmare la voragine tra
il generalista single e la mega-struttura? Si profila già l’escamotage in stile “passato il Recovery gabbata la UE”
per rimediare alla “svista” centralista: il dimezzamento dello standard, come nella montagna lombarda, o la
suddivisione di una CdC in una sede principale e una secondaria, nelle regioni
che si potranno permettere finanziamenti aggiuntivi per sdoppiare le strutture
previste, ovvero le solite note a riconferma del divario territoriale
attualmente esistente.
Qui rientra in gioco la MG che
potrebbe riempire il vuoto come adombrano alcuni documenti che candidano le
forme associative della Balduzzi al ruolo di Spoke, previsti dal DM71 ma
rimasti indefiniti. Due sono gli indizi che corroborano questa ipotesi.
- In primo luogo non è casuale che finalmente l’ACN 2016-2018, firmato a fine gennaio 2022, abbia recepito le AFT e le UCCP varate nel 2012 e mai inserite nelle precedenti Convenzioni, per deficit di volontà, fiducia e/o finanziamenti. Di fatto grazie alle risorse del PNRR trova finalmente attuazione una riforma innovativa rimasta nei cassetti degli assessorati per un decennio.
- In secondo luogo i futuri ACN ibridi introdurranno quella parasubordinazione che potrebbe far si che le CdC Hub non restino semi deserte, per il noto sottofinanziamento della spesa corrente ai fini del reclutamento del personale. La quota oraria del prossimo ACN dovrebbe garantire sia l’assistenza agli utenti orfani di un MMG sia gli interventi di popolazione, in particolare per la gestione della cronicità e della domiciliarità.
Nelle UCCP e nelle AFT in rete con
le CdC Hub i generalisti potrebbero conservare l’attuale limitata autoorganizzazione, che difficilmente potranno avere in CdC da 50mila abitanti, in
cambio di garanzie su audit, accoutability e benchmarking della qualità etc.
come indicato della Balduzzi. Si potrebbero innescare processi sociali e
professionali per la promozione della comunità di pratica, apprendimento,
formazione sul campo e ricerca del
territorio, mai decollata; si potrà forse tentare di frenare un’emorragia di
risorse umane apparentemente inarrestabile, sotto i colpi di una teleburocrazia
a silos e di una deriva amministrativa punitiva, arrivate al culmine nel
2020-2021 in contemporanea con la delegittimazione mediatica.
Se invece si decidesse di spremere
ulteriormente i fantomatici libero-professionisti già bersagliati
da un sadico accanimento burocratico allora un’ingestibile emorragia trascinerà il
sistema verso il collasso annunciato. Servirebbe qualche piccolo gesto di
“empatia”, per allentare una morsa soffocante e dare un po’ di respiro ai più
disagiati. Le speranze in verità sono scarse, perché i segnali provenienti dai
decisori e dalle agenzie pubbliche sono poco incoraggiati se non di serena
indifferenza al grido di dolore che sale dai territori; una volta arrivati al
fondo si può solo risalire, ma siamo sicuri di averlo già toccato?
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