Mmg: il tramonto (senza troppo clamore) dell’ipotesi della dipendenza
Nell’ultimo anno si è sviluppato un acceso dibattito sull’opportunità o meno del passaggio al rapporto di dipendenza dei medici convenzionati dell’assistenza primaria, che ha diviso addetti ai lavori e decision maker. Il DM71 nelle attese doveva superare le diversità di vedute emerse tra regioni e ministero prendendo una decisione definitiva ma così non è stato e la questione è stata
Come ha osservato Antonio Panti sul Quotidiano Sanità “da eroi a capri espiatori il passo è più breve di quanto sembri e gli amministratori del servizio sanitario, dopo aver lasciato i medici di famiglia senza protezioni e supporti, scoprono ora le gravi carenze del territorio”.
Lo scivolamento dall’ammirazione al biasimo, dagli allori al banco degli imputati si è focalizzato su un capo d’accusa: il fronte pro dipendenza ha identificato nel rapporto di lavoro convenzionale l’origine delle criticità emerse nella prima ondata di Covid-19 e, con il supporto di questa teoria causale, ha imposto all’attenzione della pubblica opinione il problema.
Così il superamento della natura “libero professionale” del MMG – più presunta che reale - è entrato di slancio nell’agenda pubblica sulla riforma della medicina territoriale, seppur a prezzo di una campagna di delegittimazione mediatica di stampo populista, a base di denunce dei “medici fannulloni” basate su bias cognitivi e generalizzazioni indebite.
La tappa successiva era il passaggio della questione dalla cosiddetta agenda pubblica a quella istituzionale per una deliberazione formale e risolutiva del problema, ritenuto di urgente rilevanza collettiva. Tuttavia la “promozione” non è ancora avvenuta per diversi motivi. Secondo le decisioni di policy per accedere all’ordine del giorno dell’agenda istituzionale occorre far leva su alcune risorse: di consenso presso l’opinione pubblica, i decision maker e i vari portatori di interessi, risorse economico-finanziarie per la sostenibilità del cambiamento, conoscitive e di competenza per formulare la soluzione e definire le tecniche dell’intervento ed infine risorse normative o legali per produrre le regole della legittimazione formale e dell’implementazione.
Sono numerosi i nodi problematici da sciogliere per attuare un progetto come il passaggio alla dipendenza di 70mila professionisti sanitari, tanto ambizioso quanto irto di insidie. Non è sufficiente un’ondata di riprovazione o la percezione della gravità di un problema per guadagnare la priorità dell’agenda istituzionale, vincendo l’agguerrita concorrenza di altri problemi di policy specie sul versante delle risorse.
Già nel documento di settembre sulla riforma delle cure primarie le regioni avevano sollecitato una "valutazione relativa al costo del lavoro e alla necessità di aumentare significativamente gli organici se si applicassero le regole della dipendenza rispetto ad orari di lavoro, tutela di malattia e infortunio, ferie". Ma questa richiesta a distanza di 6 mesi non ha avuto seguito, almeno con atti o documenti pubblici.
In pratica fin’ora il composito fronte favorevole della dipendenza non è riuscito a sospingere la questione in cima alle priorità dell’agenda istituzionale per la deliberazione finale. Sono probabilmente mancate all’appello alcune delle risorse necessarie per completare l’iter della sponsorizzazione a favore del cambiamento radicale auspicato dato che la dipendenza "richiederebbe un iniziale importante investimento in quelle regioni che non hanno già investito nella rete delle strutture territoriali, prevedendo di fornire ambienti, strumentazioni e personale di supporto alla Medicina Generale".
Il progetto si è arenato prima di tutto sullo scoglio delle compatibilità finanziarie, correlate al probabile incremento della spesa corrente per le assunzioni, non coperte dai fondi comunitari ma necessarie alla transizione da uno status giuridico all’altro: in un anno non è stato reso pubblico un documentato studio di sostenibilità economico-finanziaria e fattibilità organizzativa del progetto o forse, più probabilmente, è stato elaborato dai tecnici del MEF ma non divulgato. Inoltre le regioni sono alle prese con il non indifferente problema di reperire sul mercato del lavoro medici di comunità e personale amministrativo dipendente per la gestione ordinaria delle strutture, che come è noto non può attingere ai fondi del recovery plan comunitario.
Non a caso tra i rilievi delle regioni al DM71 figura anche la pressante richiesta di "consentire l'assunzione di medici di comunità e delle cure primarie e di medici dei servizi territoriali da impiegare nelle case della comunità, a seguito di appositi corsi abilitanti organizzati a cura delle regioni" oltre a "garantire l'impiego di tutto il personale sanitario e amministrativo necessario a far funzionare le strutture territoriali previste dal PNRR. Per tale personale occorre che sia assicurata l'integrale copertura finanziaria". Non meno problematici sono i risvolti tecnico-normativi di un’operazione di ampia portata legale, ad esempio sul fronte previdenziale, che evoca rischi di effetti imprevisti tipo esodati. Sempre il documento di settembre delle regioni prospettava l'esigenza di un "atto normativo nazionale che renda compatibile l’incremento della dotazione organica con i tetti di spesa del personale e permetta l’inquadramento dei MMG nella dipendenza anche se non possiedono un titolo di specializzazione".
Per quanto riguarda il consenso se quello dell’opinione pubblica è stato acquisito è mancato quello di altri due attori: i sindacati maggioritari della categoria, a fronte dell’appoggio di organizzazioni minoritarie, e dei decisori pubblici. I promotori della riforma radicale hanno dovuto fare i conti con il disallineamento tra le istituzioni, divise tra regioni favorevoli e contrarie, peraltro in sintonia con la posizione sfavorevole del Ministero. Le divergenze tra i decisori pubblici spiegano lo stallo e la decisione di non decidere, che il DM71 ha certificato.
Anche il venire meno della pressione della pandemia sull’opinione pubblica, per i positivi effetti della vaccinazione di massa nel contenimento dell’ondata Omicron, assieme all’urgenza di definire un quadro normativo coerente in vista dell’avvio del PNRR hanno contribuito a far tramontare per ora l’ipotesi della subordinazione, in attesa di tempi meno pressanti. Infine si può anche ipotizzare che le conseguenze economiche della guerra possano determinare un impatto negativo sull’adeguatezza dei fondi strutturali del PNRR, mettendo in dubbio il finanziamento di programmi elaborati nel 2021 in una fase di ripresa economica e calma inflattiva. In merito si sono già levate le voci degli imprenditori che reclamano una revisione delle stime per l’adeguamento dei costi delle infrastrutture all’inflazione e al rincaro delle materie prime.
In buona sostanza sono venute meno alcune delle risorse indispensabili per supportare il complesso iter deliberativo ed attuativo di una riforma tanto radicale quanto a rischio di ostacoli pratici e scarsamente sostenibile in questa difficile fase di transizione.
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