giovedì 2 ottobre 2025

Cronicità e valutazione del rischio

 Estratto dalla GUIDA AL PIANO NAZIONALE DELLA CRONICITA’

Dai fattori di rischio alle polipatologie croniche, una sfida organizzativa, educativa e culturale per l’assistenza primaria 

Disponibile su Amazon in formato cartaceo ed e-book, pag, 198

Capitolo 6 . Cronicità e valutazione del rischio

 La cronicità ha rotto schemi interpretativi consolidati, ha rimescolato le carte rispetto a schemi consolidati, inducendo dissonanze cognitive, culturali e socio-relazionali a cui il sistema non ha ancora dato una risposta organizzativa e gestionale ben definita. Queste differenze hanno importanti conseguenze sull’identità professionale dei medici, sui bisogni e sulle aspettative dei pazienti, sulle concezioni e sulle valutazioni di entrambi circa la natura della malattia, la qualità dell’assistenza e gli obiettivi delle cure.

Bisogna infatti tener conto che le patologie a bassa prevalenza considerate dal PNC, a differenza di quelle “silenti”, si caratterizzano per la presenza di sintomi o disturbi più o meno specifici che sono il target della terapia: dal dolore osteotendineo e muscolare nelle forme ortopediche e reumatiche ai disturbi gastroenterici nelle forme infiammatorie croniche intestinali, dai deficit neurologi nelle malattie neurodegenerative ai disturbi idro-elettrolitici nelle nefropatie ed epatopatie terminali, dal prurito nelle dermatiti croniche all’astenia nelle neoplasie in fase avanzata. Questa sintomatologia porta in primo piano la dimensione soggettiva e rende agevole il confronto tra modelli esplicativi del medico e del paziente.

Come già osservato nell’elenco delle schede inserite nel PNC, sono assenti i fattori di rischio e le patologie ad elevata prevalenza nell’area clinica metabolica e cardio-cerebro-vascolare, che rappresentano l’impegno professionale più rilevante per il MMG, a cui si aggiunge la cronicità ortopedica (artrosi) e quella psichiatrica (ansia e/o depressione).

A differenza delle patologie prese in considerazione dal PNC la galassia cardio-cerebro-metabolica si presenta con una duplice fisionomia: in una prima fase sono assenti sintomi o disturbi soggettivi correlabili alle anomalie fisiopatologiche (ipertensione arteriosa, iperglicemia, ipercolesterolemia, ecc.) e solo in tempi successivi si manifestano sintomi e segni clinici obiettivi dovuti alle complicanze e ai danni d’organo insorti per effetto della sinergia tra i diversi fattori di rischio, specie se non ben controllati dalle terapie o per effetto di abitudini e stili di vita scorretti. Vi è peraltro un’ulteriore differenziazione nella fenomenologia delle patologie croniche, anche rispetto alla descrizione proposta da Assal.

Vale la pena di accennare ad un nodo concettuale che ostacola l’incontro clinico in caso di semplice rischio, senza evidenza di malattia conclamata: il portatore asintomatico di un fattore di rischio isolato, al quale è stata riscontrato casualmente un aumento della Pressione Arteriosa, tende ad interpretare la sua condizione come una vera patologia e a sentirsi “malato”, soprattutto se posto in terapia farmacologica, per cui

 d'ora innanzi l'uomo è considerato per il resto della sua vita come un <paziente» accolto nel quadro, familiare a tutti, dell' assistenza medica. In verità egli non è affatto un paziente, perché il suo trattamento per l'ipertensione è un atto di prevenzione e non di terapia, ma per il medico è facile perdere di vista la distinzione fra «pazienti» e «quasi pazienti». [..] Quell' uomo che si era recato dal medico perché aveva un dolore al collo se ne era andato via dallo studio con l'etichetta «paziente ipertensivo» che. Ora gli resterà attaccata per tutta la Vita. Essendosi egli fino ad allora considerato sano, si vede in seguito come qualcuno che deve prendere delle pillole e andare dal medico regolarmente. Pensava di essere normale; ora è un malato. Questo può essere inevitabile e giustificato dai benefici, ma è un grosso Costo[1].

 Inoltre potrebbe indotto ad interpretare il fattore di rischio in chiave deterministica, nel senso di un nesso causale necessario tra l’ipertensione arteriosa e l’insorgenza della malattia mentre per il sapere medico la relazione è probabilistica, ovvero di carattere frequentistico dedotto dall’osservazione di una popolazione esposta al medesimo fattore. Un’altra discrasia concettuale tra determinismo e probabilismo resta spesso implicita: mi riferisco all’incommensurabilità tra i benefici della normalizzazione di alcuni parametri clinici, dimostrati a livello di popolazione dai trial randomizzati ed espressi con il parametro NNT, e il vantaggio individuale in senso preventivo che resta aleatorio ed incerto. Come ha osservato G. Rose la strategia preventiva finalizzata all’individuazione e alla correzione dell’alto rischio individuale

 E’ limitata dalla scarsa capacità di prevedere il futuro degli individui. [..] una persona con un punteggio alto per il rischio coronarico può avere venti o anche trenta volte in più la probabilità di avere un attacco cardiaco di un' altra con un punteggio molto basso [..] Sfortunatamente, alla capacità di stimare il rischio medio in un gruppo, che può essere buona, non corrisponde la capacità di predire quali siano gli individui che presto si ammaleranno. [..] ..non ci si deve sorprendere dell'inesattezza delle previsioni sul futuro di un singolo: le persone a <basso rischio» possono ammalarsi e molti individui ad «alto rischio» staranno bene[2].

 Nella valutazione del rischio il paziente e il malato possono incorrere nel cosiddetto paradosso dell’evento singolare, ovvero nell’attribuire ad un soggetto una probabilità (ed un beneficio terapeutico) che riguarda regolarità statistiche meta-individuali, cioè ricavate dall’osservazione della frequenza di eventi (o della riduzione) in popolazioni più o meno numerose. Se ad esempio un soggetto dislipidemico senza altri fattori presenta un rischio del 5% di incorrere in un evento acuto non si può predire se l’individuo apparterrà al 5% di coloro che nei successivi 5 anni avranno un infarto o a coloro che invece resteranno sani: in altri termini non è detto che il singolo soggetto beneficerà della riduzione del rischio – ad esempio una statina – che in prevenzione primaria si è dimostrata efficace in una coorte dalle caratteristiche simili a quelle dell’individuo posto in terapia.

Come ammonisce Rose la lezione che si può trarre dagli studi di popolazione sul controllo dei fattori di rischio isolati è che “l'uso, a lungo termine, di farmaci nella prevenzione è giustificato solo all'interno di un gruppo ad alto rischio”. Probabilmente i pazienti, una volta mesi al corrente di questa sorta di incommensurabilità tra dimensione individuale e di popolazione, potrebbero

 sentirsi un po’ meno a proprio agio, perché realizzerebbero che stanno partecipando a una specie di lotteria perché quello che si sta trattando non è in realtà la loro malattia, ma il rischio di una popolazione di cui fanno parte[3].

 La probabilità di fraintendimenti nella comunicazione circa efficacia, priorità e accettabilità di una terapia è minore se si utilizzano i valori assoluti e soprattutto il parametro del numero di soggetti da trattare per evitare un evento o NNT, che può superare le centinaia di pazienti posti in terapia per evitare un solo evento, specie in prevenzione primaria cardiovascolare. Come sottolinea Giani

 l’approccio epidemiologico è insensibile per definizione alle vicissitudini dei casi individuali che invece sono la principale preoccupazione pratica dei medici che adottano il paradigma ippocratico[4]

 La conclusione di Coen è netta: “la prevenzione farmacologica offre la certezza di un beneficio di popolazione al costo dell’incertezza per quanto riguarda vantaggi e rischi per il singolo individuo”[5].

Nessun commento:

Posta un commento