venerdì 22 febbraio 2019

Presa in carico della cronicità in Lombardia: bilancio del primo anno

Due anni fa, il 31 gennaio 2017, veniva pubblicata la prima delibera sulla PiC in Lombardia, primo modello di traduzione pratica dei principi generale del Piano Nazionale della Cronicità, licenziato a settembre 2016. Doveva però passare ancora anno, contrappuntato da altre 3 delibere, perché prendesse il via nella primavera del 2018 il programma di effettiva PiC della cronicità. Con questi concreti risultati, riferiti ad una popolazione di 3.057.519 cronici su 10 milioni di cittadini lombardi.


N. di attivazioni “telefoniche” 
della PiC
N. di PAI redatti (in % rispetto alle lettere inviate)*
% di attivazioni del percorso di PiC su 3057519 di lettere**
Al 5/6/2018
257.998
140.724 (4,6%)
8,4%
Al 29/10/2018
293.697
183.307 (6,0%)
9,6%
Al 31/12/2018
310.000
215.000 (7,1%)
10,1%
*L'iter della PiC prevede tre tappe: inizia con la manifestazione di interesse telefonico da parte dell'assistito, prosegue con la sottoscrizione formale del Patto di cura con il Gestore e si conclude con la redazione del PAI, a cura del Clinical Manager.
**L'80% circa delle manifestazioni di interesse arriva al termine del percorso di PiC.

Ecco le percentuali di PAI sottoscritti in alcune provincie/ATS:
  • Milano 4,06%
  • Brescia 6,74%
  • Cremona  8,10%
  • Insubria 11,36%
Rispetto alle 310 mila attivazioni del percorso di PiC 245.829 sono stati i pazienti arruolati con il Patto di cura dai medici di MG. Su 215.000 PAI (Piano Assistenziale Individuale) compilati al 31 dicembre 2018 201.266 sono stati attivati dai MMG, vale a dire oltre il 93% di tutti i PAI, (al 29 ottobre erano 174.587 sul totale 183.307) mentre solo 14.000 circa sono stati redatti dai Clinical Manager di strutture pubbliche o private. Oltre l’80% delle attivazioni della PiC - ovvero le telefonate effettuate dai pazienti per fissare il primo colloquio dopo il recapito delle oltre 3 milioni di lettere - sono avvenute nei primi 4 mesi di avvio della riforma dopo l'invio di oltre 3 milioni di lettere.

I circa 2600 MMG lombardi partecipanti alla PiC - come gestori o co-gestori, su 6300 generalisti in attività - hanno compilato in media un'ottantina di PAI rispetto ai circa 500 potenziali cronici seguiti da un massimalista. Nei primi mesi del 2019 potranno essere arruolati altri assistiti anche se l'operazione non sarà agevole per l'impegno richiesto dal rinnovo dei Patti di cura e dei PAI già in essere nel 2018.

Nei 10 mesi di arruolamento sono stati “attivate” telefonicamente 1000 PiC al giorno e sottoscritti circa 700 PAI, vale a dire solo 1/3 di quelli preventivati.  Più ottimistiche erano le previsioni dell'Assessore al 30 ottobre 2018: "Cresce anche il numero dei PAI sottoscritti con un incremento di oltre il 30%. Gli MMG/PLS che hanno aderito sono circa il 50% a livello regionale” e grazie al loro supporto “contiamo di arrivare a 500.000 pazienti presi in carico entro la fine del 2018". 

Nella seconda metà del 2018, visti gli esiti non eclatanti dell’arruolamento dei pazienti cronici, si rendeva necessario un generoso restyling della PiC, che si concretizzava nell’accordo tra Assessorato e Federazione Regionale degli ordini, recepito nelle regole di sistema del 2019. Per il biennio 2019-2020 anche ammettendo che l'arruolamento continui con il ritmo del 2018, anno di lancio mediatico e pubblicitario della riforma, si può ipotizzare di coinvolgere un 20-25% dei cronici lombardi.

CRONACA DELL’EVOLUZIONE DELLA PIC

Complessivamente nel biennio 2017-2018 sono state approvate ben 7 Delibere, per oltre 200 pagine di istruzioni e indicazioni operative sulla gestione della riforma. Un imponente apparato in cui non è stato facile districarsi per tradurre le parole in atti e pratiche sul campo. Vediamo schematicamente qual è stato il percorso attuativo della PiC nel biennio 2017-2018, nel senso del suo impatto e del necessario adattamento per tentativi ed errori rispetto alla realtà di fatto.

L’evoluzione della normativa è stata significativa, tant’è che rispetto alla prima Delibera del gennaio 2017 l’ultima versione della PiC, datata fine 2018, è quasi irriconoscibile. Il principio ispiratore della PiC prima versione era quello che ha guidato nell’ultimo ventennio la politica sanitaria lombarda: vale a dire il principio del quasi mercato sanitario interno, basato sulla separazione tra erogatori in concorrenza tra loro ed ente pubblico regolatore ed acquirente. Su queste basi la cronicità veniva “esternalizzata” ed appaltata ai cosiddetti Gestori, sia pubblici che privati, in competizione per offrire ai cronici i migliori servizi.

Tutti potevano candidarsi al ruolo di Gestori della cronicità, dalle AO pubbliche alla variegata platea di Enti privati no-profit o for-profit, con l’eccezione delle ATS che deve svolgere i compiti “super partes” di regolatore, supervisore, programmatore e controllore dell’intero processo organizzativo e amministrativo. Nella prima Delibera il ruolo della MMG restava in ombra e relegato in una sorta di limbo indefinito rispetto ai Gestori organizzativi.

Solo con le successive delibere del 2017 si apriva la possibilità anche per i generalisti di aderire alla PiC ma solo per il tramite delle Cooperative di MMG che, sul modello dei CReG di inizio 2010, si dovevano costituire per candidarsi ad assumere il ruolo formale di Gestore, al pari degli altri soggetti organizzativi (unica eccezione erano i MMG co-gestori, aggregati ad un Gestore organizzativo diverso dalle Coop di MMG).

La seconda metà del 2017 era dedicata alla “messa a bolla” di tutto il complesso apparato amministrativo (accreditamento dei Gestori, degli Erogatori di prestazioni, costituzione delle Coop e adesione dei MMG alle stesse etc…) che a partire dalla primavera del 2018 inaugurava la stagione della PiC dei pazienti cronici, concretizzata nella compilazione del PAI da parte del Clinical Manager (CM) e nella sottoscrizione del Patto di Cura da parte del cittadino aderente alla PiC.

Proprio questa inedita figura professionale faceva emergere la principale criticità della riforma, a parte la gestione dell’infrastruttura informatica non certo all’altezza delle aspettative; nel senso che il CM del Gestore organizzativo si proponeva come sostituto del MMG nella gestione delle varie patologie, con inevitabile emarginazione della MG dall’assistenza ai cronici.

L’implicita marginalizzazione della MG era il nodo problematico che rendeva conto delle scarse adesioni alla PiC nel primo semestre 2018, con arruolamenti inferiori al 5% dei potenziali interessati, per oltre il 90% effettuati dalle Coop di MMG, a fronte della sostanziale insignificanza dei Gestori organizzativi, specie quei privati che dovevano nelle intenzioni entrare in modo concorrenziale nel “quasi mercato” regionale della cronicità (in alternativa al MMG-Gestore in Coop).

Da questo esito inatteso e controintuitivo derivava la sostanziale retromarcia, nella seconda metà del 2018, con l’apertura dei “tavoli” di trattativa tra regione e ordini dei medici che si concretizzava nella delibera, datata 5 novembre 2018, di recepimento dell’Intesa raggiunta e poi inserita formalmente nelle regole del 2019. Con l’intesa Ordini-Assessorato si concludeva la parabola rifomista della PiC, all’insegna del recupero del ruolo del MMG, prima ignorato e marginalizzato, poi ripescato in extremis all’interno delle Coop ed infine ammesso a pieno titolo alla PiC anche come Clinical Manager in forma singola. Una metamorfosi, portata avanti per tentativi ed errori, dettati dall’esito non certo trionfale dell’arruolamento dei cronici nel corso del 2018.

domenica 17 febbraio 2019

Anche la Regione Toscana ha approvato il Piano per la Presa in Carico della cronicità

GESTIRE LA CRONICITÀ

La cronicità e la salute al nostro tempo: il Sistema Sociosanitario Pubblico si ridisegna, la comunità si organizza e il cittadino si rafforza

La cronicità è ormai la nuova sfida per i sistemi sanitari. Le malattie croniche sono causa di mortalità prematura e di disabilità evitabile, rappresentano il principale problema di salute pubblica nei paesi occidentali e minacciano la sostenibilità dei sistemi di welfare. Il sistema sociosanitario deve affrontare la cronicità superando approcci settoriali, adottando adeguati modelli di prevenzione e cura, attuando politiche integrate coi settori sociali, educativi, della formazione, dell’ambiente e dell’industria. L’esperienza toscana già oggi offre più di un esempio in tal senso, con risposte efficaci nella sfida alle malattie croniche.

In sintonia con il Piano Nazionale Cronicità (Ministero della Salute 2016) il PSSIR della Toscana individua quattro aree strategiche di intervento:
stratificazione e targeting della popolazione
promozione della salute, prevenzione e diagnosi precoce
presa in carico e gestione del paziente (definizione dei PDTAS)
erogazione di interventi personalizzati
valutazione della qualità delle cure erogate.

Stratificazione e targeting della popolazione

Non si può parlare di una cronicità ma di tante cronicità: la defnizione OMS di malattia cronica (“problemi di salute che richiedono un trattamento continuo durante un periodo di tempo da anni a decadi”) delinea una grande categoria in cui entrano condizioni molto diverse.

La cronicità comprende un ampio spettro di condizioni patologiche. Alcuni fattori che descrivono questo panorama variegato di patologie sono:
prevalenza: vi sono condizioni ad alta o altissima prevalenza (vedi: diabete tipo 2 e ipertensione) e condizioni a bassa prevalenza o rare (vedi: SM, SLA, Lupus eritematoso sistemico, ecc.);
insorgenza: alcune condizioni hanno un’insorgenza improvvisa (es: diabete tipo 1), mentre in altri casi si ha uno sviluppo lento e una lunga latenza (es. diabete tipo 2, ipertensione, ecc.);
sintomatologia: vi sono condizioni che comportano dolore, impotenza funzionale, astenia e in generale sintomatologia importante (es: artriti, malattie infiammatorie intestinali, asma), mentre in altre i sintomi possono essere anche meno rilevanti (es: insufficienza renale cronica, diabete tipo 2, ipertensione);
controllabilità: alcune condizioni croniche, come la demenza ad esempio, non sono al momento controllabili con una terapia specifica, mentre altre (es: SM, Parkinson, diabete) trovano presidi terapeutici in grado di controllarne il decorso;
evoluzione verso la disabilità: c’è una relazione tra condizioni croniche e disabilità: mentre le persone con disabilità hanno con più probabilità condizioni croniche, le persone con condizioni croniche possono sviluppare nel tempo limitazioni al funzionamento ed alla partecipazione, in modo variabile a seconda della o delle condizioni presenti e della loro evoluzione nel tempo.
Per la loro lunga durata le condizioni croniche hanno un’evoluzione nel tempo e una variabilità legata a fattori individuali, sociali e contestuali.

Un sistema evoluto di gestione delle condizioni croniche necessita sia di standardizzare sia di personalizzare l’offerta di servizi e richiede quindi di
riconoscere e valutare le persone che hanno livelli o fasce di complessità e rischio progressivamente crescenti (STRATIFICAZIONE);
garantire un’offerta proattiva e continua nel tempo degli interventi adeguati ai bisogni di ogni sottogruppo di pazienti (TARGETING). L’offerta attiva richiede la creazione di un elenco o registro di patologia.

Il modello consolidato utilizzato per la stratifcazione (Piramide di Kaiser) punta a individuare:
i pazienti con rischi più bassi verso i quali mettere in atto azioni di prevenzione primaria e secondaria;
quelli affetti da patologia conclamata ma di complessità medio bassa, verso i quali intervenire con approccio Chronic Disease Management;
i malati più complessi, che hanno bisogno di una presa in carico clinica e sociosanitaria, tipica dell’approccio Chronic Case Management.
Questa schematizzazione, pur avendo un valore sia concettuale sia operativo, non è però sufficiente a rispondere alla complessità dei pazienti con condizioni croniche spesso coesistono nella stessa persona.

La compresenza di più patologie porta alla necessità di riadattare i criteri di stratifcazione, passando da quelli solo clinici a quelli funzionali e di rischio aggregato e oggi più della metà della popolazione con patologie ha più di una malattia cronica (il 52% - ISTAT 2015).
Le malattie croniche a maggiore prevalenza, in particolare quelle cardiovascolari, il diabete mellito, le malattie respiratorie croniche hanno alcuni fattori di rischio comuni e modifcabili con interventi preventivi (stili di vita), altri fattori di rischio cosiddetti “ intermedi” (dislipedemia); inoltre livello d’istruzione, condizioni ambientali e assetto urbanistico, condizione occupazionale, professione svolta, reddito medio familiare e stati di deprivazione, influenzano i fattori di rischio citati. Riuscire ad intervenire sui fattori di rischio comuni, ma anche sui determinanti distali consente un'efficace prevenzione delle condizioni croniche e della loro evoluzione.

I programmi di promozione della salute e di prevenzione delle patologie richiedono tre tipi di azioni:
1. Epidemiologia e sorveglianza: per guidare e orientare le priorità, nonché implementare e monitorare gli interventi più efcaci di prevenzione a livello di popolazione;
2. Azioni su ambiente, tessuto sociale e comunità di cittadini: per favorire le abitudini positive e per individuare le risorse accessibili per l’adozione di comportamenti sani;
3. Azioni sui singoli individui: per identificare precocemente coloro che hanno un rischio aumentato di malattia e intraprendere iniziative di counselling motivazionale individuale o di gruppo.
Le evidenze derivanti dai sistemi di sorveglianza dovranno essere recepite e utilizzate non solo in ambito sanitario e sociale, ma anche dalle amministrazioni comunali, dalle istituzioni scolastiche ed educative, dalle associazioni dei pazienti e dal terzo settore e diventare un patrimonio delle comunità.

Presa in carico e gestione del paziente:
interventi sull’organizzazione
PRINCIPI DA GARANTIRE

tempestività: per assicurare l’ingresso precoce in un percorso diagnostico terapeutico assistenziale e sociale (PDTAS);
coordinamento e continuità: perché le persone possano essere seguite senza soluzioni di continuità né difcoltà d’accesso nelle diverse fasi della malattia nei tre classici livelli assistenziali, assistenza primaria, specialistica territoriale, degenza ospedaliera che devono coordinarsi
globalità e multidimensionalità: perché le sole misure cliniche oggettive non sono adeguate a comprendere le malattie croniche e come trattarle.
flessibilità: perché le condizioni croniche evolvono nel tempo e determinano nuovi e differenti bisogni ed interventi. I PDTAS non possono essere format rigidi con un’offerta invariante;
facilitazione: perché è richiesto un impegno gravoso per tutti, pazienti e caregiver, nella vita quotidiana e non si può appesantirlo con adempimenti burocratici e accessi superflui;
appropriatezza: perché è vitale valorizzare percorsi di cura precisi e puntuali e in grado di sfruttare tutte le risorse disponibili nell’ambiente di vita della persona e nella sua comunità;
autodeterminazione: perché chi è malato ha il diritto di essere informato e consapevole e il dovere di essere corresponsabile degli impegni che il sistema si assume per curarlo.

MAPPATURA E GEOREFERENZIAZIONE DEI SERVIZI

Come azione preliminare per una migliore presa in carico ed a supporto ella partecipazione del cittadino ad ogni azione di riorganizzazione occorre procedere a una puntuale mappatura sul territorio (georeferenziazione) delle varie tipologie di servizio sia istituzionale che gestito dal terzo settore o da altre soggettività informali, con l’obiettivo di potere prima di tutto conoscere la coerenza e la praticabilità dei livelli attuali di offerta con i bisogni dei pazienti cronici.
Rendere immediatamente visibile e fruibile la mappatura dei singoli servizi sul territorio ai case manager che si trovino ad organizzare l’assistenza ai pazienti cronici secondo gli standard defniti nei PDTAS in un qualsiasi punto del territorio regionale diventi nrequisito minimo di funzionamento della rete.

REALIZZAZIONE DELL’INTEGRAZIONE MULTIPROFESSIONALE

Ovunque, nell’ambito di sistemi a copertura universale e orientati alle comunità, è stato dimostrato che una buona organizzazione delle cure primarie migliora i risultati di salute ed è più efficiente.
L’incremento della cronicità, della disabilità e lo sviluppo di bisogni complessi rinnova il ruolo dei medici di medicina generale (MMG) e richiede uno sviluppo del lavoro in team.
Un sistema di cure che può usufruire del buon funzionamento di forme organizzate di cure primarie, come in questa regione le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) degli MMG, garantisce soddisfacenti risultati clinici e relazioni di cura, anche a lungo termine, tra i pazienti e i curanti, in un contesto capace di considerare le preferenze delle persone e i loro bisogni combinati, biomedici, psicologici e sociali.

Per abbattere barriere ancora significative tra l’organizzazione assistenziale ospedaliera e territoriale, la soluzione non è la riallocazione della casistica da una parte all’altra del sistema ma la riarticolazione dell’offerta utilizzando criteri di stratificazione dei pazienti e mirando alle loro differenti condizioni e ad un continuum di cure orientate ai bisogni individuali. Se è evidente che la gestione della cronicità esclusivamente nell’ambito di strutture specialistiche ospedaliere come è né appropriata né sostenibile, è chiaro anche come essa non possa neanche essere una competenza esclusiva dell’assistenza territoriale.

Ne consegue che il livello specialistico e quello del setting ambulatoriale ospedaliero dovranno partecipare, sulla base delle differenti fasi di evoluzione delle specifiche malattie, a percorsi di presa in carico come i PDTAS e integrarsi nella rete clinica territoriale.

PDTAS: Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali Sociali

L’articolazione e integrazione delle prestazioni e degli interventi dovrà esplicitarsi nei percorsi terapeutico assistenziali sociali, in cui il contributo di ogni segmento e attore del percorso sarà facilitato dal miglioramento del supporto fornito dagli strumenti informativi e da sistemi intelligenti per le decisioni cliniche. L’impegno futuro mira a mettere a punto percorsi diagnostico-terapeutici-riabilitativi il più possibile individualizzati, con buon rapporto costo/efcacia, che consentono l’empowerment del paziente e della sua famiglia e una continuità nella collaborazione tra i molteplici provider coinvolti. I PDTAS saranno anche il riferimento per il principale strumento di lavoro oggi impiegato dai team multi professionali: i Piani Assistenziali Individuali (PAI).
L’aspetto clinico, necessario per un adeguata valutazione del paziente, dovrà essere arricchito e completato con quello relazionale e comunicativo, per capire la singolarità della persona malata e con quello economico-gestionale, per sviluppare l'efcienza e la sostenibilità dei migliori risultati.

INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA

L’impatto combinato di più condizioni croniche è la causa della progressiva perdita di indipendenza, dell’evoluzione verso la disabilità e dell’incremento del bisogno di supporto sociale. E’ ragionevole prevedere che la domanda di servizi sociali e sociosanitari sia destinata a crescere per l’aumento di bisogni e per loro natura complessa. Proprio in funzione di tale caratteristica, la complessità, la risposta non può essere affdata solo al SSR. Le necessità di riabilitazione e di supporto sociale, nonché l’integrazione nella comunità locali, possono diventare più determinanti ai fni del risultato che non la sola accessibilità alle cure mediche. Un intervento sociale precoce migliora l’esperienza di cura del soggetto, può evitarne l’ospedalizzazione o comunque ritardarne il ricorso. È quindi vitale la sinergia e l’integrazione operativa tra sociale e sanitario che si attua con i PDTAS, laddove la S evidenzia il loro forte coordinamento. Per farlo è necessario potenziare l’assistenza sul territorio, promuovendo il benessere delle persone con problemi di cronicità con l’impiego di modelli di welfare di comunità.

Il welfare di comunità significa disporre di una rete di supporto sociale che integra e sostiene da un lato la rete familiare sempre più debole e dall’altro la rete dei servizi per creare nella società civile percorsi di auto-organizzazione e di autodeterminazione fondati sui valori della solidarietà e della coesione sociale.
Le Case della Salute in quanto espressione di un modello integrato e multidisciplinare di intervento rappresentano un driver fondamentale dell’integrazione sociale e sanitaria, promuovono la medicina di iniziativa e la prevenzione sociale e sanitaria, valorizzano il ruolo dei MMG, dei PLS e delle professioni sanitarie e sociali, sollecitano un ruolo proattivo dell’utenza e della società civile. Le Case della Salute si pongono come un punto di riferimento rivolto ai cittadini per l’accesso alle cure primarie, un luogo in cui si concretizza l’accoglienza e l’orientamento ai servizi, la continuità dell’assistenza, di integrazione con i servizi sociali per il completamento dei principali percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali. Nel corso di vigenza del Piano lo sviluppo delle Case della Salute e dei modelli organizzativi e culturali che le caratterizzano dovrà trovare diffusione e presenza in tutto il territorio regionale.

I VANTAGGI DELLA TECNOLOGIA NELLE CURE CONTINUATIVE: LA TELEMEDICINA

L’uso delle innovazioni tecnologiche nella gestione dei pazienti è un opportunità per migliorare l’efcienza e la sostenibilità della continuità di cura.  La Telemedicina può essere di supporto nelle diverse fasi della malattia:
prevenzione: attraverso servizi che aiutano mantenere adeguati stili di vita oppure a monitorare parametri vitali importanti per ridurre il rischio di insorgenza di complicazioni;
diagnosi: favorendo la circolazione delle informazioni diagnostiche tra i diversi operatori sanitari;
cura e riabilitazione: con la trasmissione di dati relativi ai parametri vitali tra il paziente (a casa, in farmacia, in strutture assistenziali) e una postazione di monitoraggio, per la loro interpretazione e l’adozione delle scelte terapeutiche necessarie (ad esempio, i servizi di Teledialisi).

La telemedicina è uno strumento per promuovere l'equità di accesso all’assistenza sanitaria nelle zone remote, favorire la continuità delle cure, sostenere la qualità della vita di pazienti cronici attraverso soluzioni di auto-gestione e monitoraggio remoto, rendere facilmente fruibile la comunicazione fra i diversi attori.

LE CURE DI FINE VITA E LA DOMICILIARITÀ

Sappiamo anche che la maggioranza delle persone desidererebbero morire a casa. Si muore ancora troppo in ospedale, la presa in carico da parte dei servizi palliativi domiciliari e il ricorso all’hospice ha ancora livelli di risposta non adeguati al bisogno e troppo spesso intervengono solo in fase terminale.
L’assistenza alle persone in fine vita deve essere basata sulle evidenze e personalizzata sulle preferenze e necessità del paziente al fine di creare piani assistenziali individualizzata che tengano in considerazione gli obiettivi riconosciuti come prioritari dal malato e la sua famiglia, la migliore qualità di vita possibile, anche attraverso un adeguato controllo dei sintomi, un aumentata consapevolezza rispetto alla situazione per favorire i processi di adattamento alla situazione clinica e un supporto nelle decisioni relative alle scelte
terapeutiche-assistenziali nelle fasi avanzate di malattia e alla fne della vita, come previsto dalla L 219/17 in materia di i consenso informato, di disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa delle cure.

Erogazione di interventi personalizzati

Negli ultimi anni si è spesso abusato del principio che l’assistenza deve essere centrata sul paziente, senza che fosse davvero messo in pratica. Anche quando questo approccio si è concretizzato, spesso è stato concepito in modo superficiale. La gestione delle condizioni croniche insegna due lezioni fondamentali:
ci si deve basare sull’esperienza e sulla prospettiva del paziente per la defnizione dei suoi problemi clinici così come per giudicare l’efficacia del successivo intervento;
scopo primario dell’assistenza è aumentare la capacità dei paziente di curarsi anche autonomamente.
L’assistenza al paziente con malattie croniche centrata sulla persona richiede che il processo decisionale clinico si concentri sulle priorità del singolo assistito e sui suoi bisogni psico-sociali.

Personalizzare gli interventi per gli operatori sanitari significa cambiare l’equilibrio di potere insito nella relazione di cura, co-produrre salute e benessere in modo collaborativo con individui, famiglie e comunità.
Oltre alla competenze tecniche è necessaria la capacità nella “comunicazione/relazione”, uno degli strumenti più importanti dell’assistenza sanitaria. Per sostenere la capacità di auto-cura delle persone la gestione della malattia va contestualizzata nella vita di tutti i giorni e le sue eventuali preoccupazioni. La relazione tra la persona e il team di assistenza si sostanzia nel Patto di cura, che è la traduzione concreta degli impegni che le due parti reciprocamente assumono:
il sistema sociosanitario, con gli interventi definiti dal PDTAS e tradotti in un piano individuale per la persona;
la singola persona, con l’adesione al piano e ai suoi impegni nei confronti della propria salute.


E’ un cambiamento culturale, oltre che tecnico, che deve permeare tutto il sistema ed essere sostenuto da una formazione capillare, adeguata ed efficace rivolta a tutti e con particolare impegno agli infermieri, che sono il punto di contatto principale tra i cittadini e il sistema di cura delle malattie croniche.

Valutazione della qualità delle cure erogate

I sistemi informativi integrati permettono anche una puntuale valutazione della qualità delle cure
erogate. Relativamente a questo aspetto il Piano Nazionale Cronicità sollecita la revisione del paradigma di fondo relativo al concetto di “esito” concettualmente legato ad una visione della medicina caratterizzata da eventi piuttosto che da percorsi. come era quella tipica del secolo scorso.

Si propone oggi di considerare gli esiti come un “insieme di risultati intermedi” e non solo finali, non solo clinici ma anche connessi alla disabilità e alla qualità di vita. Tra gli esiti, sempre maggiore considerazione ricevono quelli direttamente riportati dai pazienti, sia che riguardino aspetti tangibili delle cure sia che abbiano a che vedere con l’esperienza che ogni singolo paziente sperimenta. Ciò è realizzabile introducendo tecniche e strumenti efficienti per misurare:
il benessere auto percepito dal paziente;
la qualità della vita;
l’impatto della condizione cronica sulla vita quotidiana;
la pratica dell’ “auto-cura”

sabato 2 febbraio 2019

Sorpresa! La guaritrice popolare apprezza il reverendo scozzese...

Quante volte di fronte a sintomi strani, inspiegabili ed enigmatici, al confine tra fisiologia e patologia, si resta senza uno straccio di ipotesi diagnostica, incapaci di uscire dalla zona grigia in cui allignano incertezza e dubbi? Un tempo nelle campagne la gente si rivolgeva per i propri acciacchi fisici, in genere di natura ortopedica, a chi aveva pochi dubbi sul da farsi, ovvero la guaritrice del paese dotata di abilità manuali per rimettere a posto "nervi accavallati" e quindi restituire il benessere. Molte ormai non praticano più, ma alcune sono rimaste in campo ed hanno anche saputo adeguare la loro metodologia all'evoluzione dei tempi.
Ecco ad esempio gli esiti di due consultazioni di una guaritrice popolare, ben nota in paese, alle prese con alcuni tipici problemi diagnostici della MG, riferiti da un collega in una lista di discussione medica.
  • "Doveva venire da me prima, ora faccio ciò che posso per il mal di schiena, intanto vada dal suo medico e si faccia fare una Risonanza e prenda Voltaren e Soldesam forte 2 volte al giorno. Lasci un'offerta libera e vedrà che la guarirò! Ah dimenticavo: protegga anche lo stomaco, si faccia ordinare una....pompa, non ricordo come si chiama..!"
  • "Ha mal di testa? Faccia subito, ma subito una TAC e si faccia mettere il bollino verde, il suo medico li ha...". "Non digerisce? Faccia un eco e meglio ancora una gastroscopia, non si sa mai!".
Non c'è confronto rispetto alle guaritrici di un tempo che, senza esitazione, passavano subito alla terapia manuale, perlomeno per i disturbi ortopedici. Personalmente qualche anno fa ho avuto a che fare con un caso analogo. Di fronte ad una caviglia tumefatta e dolente per una comune "storta" la signora che sistema i "tendini", mi aveva rinviato il paziente per competenza: prima di passare alla manipolazione era bene fare una radiografia! In sostanza si era tutelata da un possibile errore diagnostico, per il misconoscimento di una lesione ossea scambiata per semplice distorsione.

L'episodio segnalava un passo in avanti verso un approccio razionale e critico, per una diagnosi di certezza (relativa) e non solo di presunzione. La "guaritrice" dimostrava di aderire ad un impostazione (proto) fallibilista, che parte dalla differenza tra realtà e rappresentazione, tra mappa e territorio, con l'obiettivo pratico di verificare/confutare l'ipotesi diagnostica di distorsione, grazie al ricorso dell'indagine radiologica.
Nei due casi in oggetto la guaritrice fa un'altro salto di qualità metodologica, in direzione di un approccio per problemi: come farebbe un MMG, prende in considerazione un ventaglio di ipotesi diagnostiche per arrivare alla conferma di una di queste, dopo la raccolta di informazioni di base per una prima valutazione probabilistica. Gli esami che suggerisce segnalano un'ulteriore evoluzione metodologica: lo fa però in modo un po' rozzo applicando, in modo meccanico, lo schema se...allora (lombalgia=RMN della colonna, cefalea=TAC encefalo). Ma non si deve disperare, prima o poi anche l'approccio bayesiano farà breccia nel suo grezzo processo diagnostico.
Anzi, a ben vedere la guaritrice popolare ha già adottato uno sguardo proto-bayesiano, perlomeno nel caso di dispepsia, coerente con un approccio graduale al problema. Grazie all'esperienza ha capito che il suo target ideale, i probabili responder alle sue tecniche curative, sono quei pazienti che hanno già provato di tutto, sia sul piano diagnostico che terapeutico. Si tratta dei portatori di un cosiddetto MUS (Medically Unenxplaned Symptom), ovvero gli assistiti affetti da disturbi inspiegabili, spesso funzionali e talvolta "bizzarri", ancor più difficili da trattare con l'armamentario farmacologico a disposizione del MMG, di cui ho accennato all'inizio.

Le ricerche documentano che il 20-25% delle consultazioni in MG non portano ad alcuna diagnosi di (relativa) certezza, anche dopo ripetuti accertamenti diagnostici e specialistici. Il disturbo inspiegato resta in una sorta di limbo diagnostico, in una terra di nessuno al confine tra soma e psiche, e rimane quindi anche orfano di linee guida o percorsi diagnostico-terapeutici specifici. Di fronte al disturbo inclassificabile e inspiegabile mancano per definizione punti di riferimento codificati o schemi decisionali per una gestione razionale del caso e si deve, per così dire, navigare a vista senza una chiara mappa o con una bussola malfunzionante; così i pazienti, delusi dall'inconcludenza della medicina "ufficiale", finiscono spesso tra le braccia di "praticoni" non professionali, dai pranoterapeuti fino alle nostre guaritrici popolari.
Come in questi casi esemplari: di fronte a problemi tipicamente funzionali, come cefalea o dispepsia, la guaritrice si guarda bene dall'intervenire subito ed imposta un iter diagnostico differenziale tra le forme organiche più probabili, ovvero nel caso della dispepsia quella epato-biliare piuttosto che gastroduodenale. Solo dopo aver escluso la natura organica del disturbo, da curare in modo specifico da parte del medico, avrà una sufficiente probabilità di aver a che fare con un caso di MUS (dispepsia funzionale) e potrà quindi sfoderare le sue armi terapeutiche con discreto successo, grazie al suo primo alleato ovvero l'effetto placebo della relazione.
E' proprio vero quello che annotava lo stagirita: "tutti gli uomini per loro natura tendono alla conoscenza". A quanto pare accede pure alle guaritrici popolari e questa è una buona notizia! C'e' speranza se cio' accade anche nella bassa padana, per parafrasare un'altro motto celebre della pedagogia lombarda!

mercoledì 30 gennaio 2019

La crociata del prof. Cavicchi contro il burionismo, tra stati generali e patto per la scienza

La critica del Prof. Cavicchi al Patto per la scienza, promosso dal prof. Burioni, prende le mosse da un espediente retorico teso a screditare gli interlocutori (https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/10/quella-di-burioni-e-unidea-di-scienza-vecchia-e-superata-e-il-suo-patto-lo-conferma/4888431/): quella tratteggiata sul Blog del Fatto quotidiano, per smascherare il positivismo ottocentesco del Patto, è una caricatura della “scienza” medica, comodo bersaglio polemico al pari della proverbiale Croce Rossa, ma lontano anni luce dalle pratiche dei professionisti, specie sul territorio (http://www.treccani.it/enciclopedia/scientismo/). 

Probabilmente nella medicina accademica nostrana residuano sacche di (vetero) "scientismo positivistico", che si attardano in difesa di una superiore “razionalità tecnica”, a mo’ dei militi nipponici rimasti a combattere i fantasmi dei nemici sull’isoletta a decenni dalla resa. (http://m.dagospia.com/l-immunologa-maria-luisa-villa-fa-a-pezzi-la-retorica-del-castigatore-di-somari-di-burioni-192818). Peraltro il burionismo (si veda il PS) è un bersaglio fin tropo facile per una scontata operazione metonimica, utile a profilare un nemico ad hoc da impallinare ad occhi chiusi dopo averlo ridicolizzato 

Nei fatti la (presunta) superiore “razionalità tecnica” positivistica è stata archiviata da tempo dai medici, che hanno adottato giocoforza una razionalità riflessiva imposta dalla pratica situata e dalla necessità di fare i conti con gli effetti perversi di un'illusoria medicina esatta e incontrovertibile. Un positivista non confonderebbe gli effetti con la causa, che affonda le radici culturali nella definizione di salute dell’OMS del secolo scorso, ontologica e irrealistica, che inquina l’immaginario collettivo ed alimenta esorbitanti aspettative di efficacia tra la gente. In modo retroattivo le attese frustrate si ritorcono su chi le ha assecondate: gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, dalla caccia al risarcimento per presunti episodi di malasanità alle aggressioni verso i medici, divenute cronaca quotidiana, in qualità di rappresentanti di una presunta èlite privilegiata e corrotta.

Eppure tra le 300 ridondanti pagine delle tesi per gli stati generali della professione medica non ha trovato spazio una sola paginetta di critica “razionale” alla definizione di salute, madre di buona parte delle incomprensioni tra medico e assistito, società e professione, e delle aporie sintomatiche della crisi della medicina. Il contenimento delle aspettative di efficacia a 360 gradi alimentate dalle magnifiche sorti scientiste, in sinergia con il circuito industrial-mediatico, è una priorità relazionale delle pratiche sul campo.

Che poi il contrasto al presunto predominio del neo-positivismo, polveroso ed obsoleto per conto suo, si trinceri dietro la metafisica di un’omeopatia - peraltro in fase declinante a livello sociale e di marketing - appare piuttosto buffo. Come se il “tutto fa brodo” della medicina alternativa per eccellenza fosse un valido antidoto ad una razionalità tecnica dispotica ed imperante. Come se l’ "esigente" inguaribile, deluso dalle false speranze scientiste, potesse trovare la panacea in rimedi pre-positivistici, legittimati per confutare il positivismo. Come se milioni di utilizzatori delle infallibili palline e goccine fossero la prova provate della loro validità ed efficacia, per l'imprimatr da parte di un’inedita EMM (Evidence Marketing Medicine).

Insomma il rimedio cavicchiano rischia di rivelarsi una proverbiale cura peggiore del burionismo: l’uno e l’altro pari sono! Onde evitare di finire dalla padella scientista alla brace alternativa, conviene seguire il monito di Gragory Bateson, che a suo tempo consigliava di rifiutare gli opposti estremismi: “queste due superstizioni, queste epistemologie rivali, la soprannaturale e la meccanicistica, si alimentano a vicenda”.

P.S. Stefano Massini nel suo ultimo libro ha coniato una manciata di nuove parole. Da qualche mese nel dibattito pubblico si è affacciato un'inedito neologismo; il BURIONISMO, vale a dire la tendenza, "dogmatica" e scientista, a rispondere alle contestazioni dei non addetti ai lavori, verso l'autorità degli esperti, oltre che con contro-argomentazioni razionali, anche con la squalifica degli stessi contestatori, giudicati ignoranti, rozzi, somari e incompetenti in quanto non addetti ai lavori e non autorevoli come i "tecnici" competenti.

sabato 26 gennaio 2019

La difficile gestione dei sintomi aspecifici in medicina generale

Una recente sentenza della Cassazione su un caso controverso (si veda il P.S.) e discussioni in rete sulle richieste di accertamenti diagnostici hanno fatto emergere il problema della gestione dei sintomi aspecifici in MG. Bisogna preliminarmente accordarsi sul significato della coppia specifico/aspecifico, che può avere due accezioni: statistica, nel senso della specificità probabilistica del sintomo in analogia con la sensibilità/specificità del test diagnostico, e per così dire “anatomica”, nel senso della più o meno chiara localizzazione di un sintomo a livello di un organo, sistema o apparato (a questo significato fanno riferimento le successive considerazioni).

Nella pratica, specie sul territorio, si possono presentare una gamma di situazioni in cui sintomi soggettivi si possono accompagnare o meno a segni clinici obiettivabili da parte del medico. Il continuum dei casi pratici è delimitato da due estremi: da un lato il singolo sintomo soggettivo isolato, ovvero senza alcun fattore di rischio anamnestico o segno clinico associato, e dall’altro una combinazione di più sintomi, segni obiettivi e fattori di rischio anamnestici, tra loro coerenti e convergenti verso una certa diagnosi, spesso “evidente”. Ai due estremi del continuum specifico/aspecifico troviamo quindi situazioni di massima e minima incertezza diagnostica. Nel senso che l’incertezza è massima quando l’informazione è ridotta all’osso - come nel caso del sintomo aspecifico isolato – mentre è minima quando l'informazione è elevata per il combinato disposto di sintomi e segni clinici specifici.

Tra i due estremi del continuum, da un lato la massima aspecificità e all’opposto una chiara organo-specificità, si collocano la maggioranza delle presentazioni cliniche caratterizzate da gradi intermedi di combinazione tra informazioni soggettive (sintomi non obiettivabili, come il dolore) segni fisici rilevati all’esame semiologico del paziente (ad esempio la megalia di un organo) a cui si possono associare informazioni anamnestiche rilevanti e gli esiti degli accertamenti di laboratorio, di immaging etc.. per una conferma o smentita dell’ipotesi diagnostica avanzata.

Gli esempi pratici dei due estremi sono presto fatti: da un lato abbiamo tutti i sintomi vaghi, indistinti e isolati, ovvero senza alcun riscontro obiettivo, tipici della medicina del territorio (astenia, malessere generale, prurito, debolezza, aumento/calo di peso/appetito etc…) mentre dall’altro malattie febbrili batteriche acute, come tonsilliti od otiti di agevole diagnosi ispettiva. In una posizione mediana vi sono casi con segni e sintomi di localizzazione d’organo, come disturbi dispeptico-dolorosi o tumefazioni articolari, che però non sono sufficienti per porre una diagnosi di certezza. In linea di massima più il sintomo è organo-specifico più si restringe il cerchio delle ipotesi diagnostiche, fino al caso estremo del sintomo patognomonico, che equivale ad una diagnosi di certezza immediata; purtroppo l'idea che si potessero avere sintomi patognomonici per ogni malattia si è rivelata con il tempo e con l’irruzione della tecnologia illusoria.

In questo processo di indagine viene adottato il metodo bayesiana, seppur implicito o grossolano, per ridurre l’incertezza e aumentare la probabilità soggettiva di un’ipotesi a scapito delle altre, grazie all’acquisizione di nuove informazioni. Se le informazioni raccolte con l'esame obiettivo, dopo la selezione del sintomo chiave o la definizione del problema, hanno un peso probabilistico "forte" allora il sospetto diagnostico sarà di fatto confermato, nel senso che di fronte ad un sintomo ben definito associato ad un segno clinico specifico il ventaglio di ipotesi si restringe drasticamente in modo "naturale", fino alla prevalenza di una singola ipotesi sulle altre.

In altri termini la probabilità a priori di una certa malattia viene incrementata dalle cosiddette probabilità condizionali (nel senso della sensibilità e specificità del sintomo + segno clinico) fino a superare una certa soglia, che fa scattare un''ipotesi diagnostica, più accreditata delle concorrenti. Quando i sintomi e i segni clinici sono particolarmente evidenti e inequivoci allora scatta automaticamente la diagnosi per pattern recognition, come nel caso già evocato della tonsillite acuta batterica o di un’eruzione cutanea da Herpes Zoster. 

Si tratta delle diagnosi “a prima vista” o per pattern recognition frutto della semplice osservazione dell’organo interessato, come accade spesso nelle patologie dermatologiche, del cavo orale o ORL in cui una probabilità soggettiva elevata consente di passare direttamente alla terapia senza bisogno della conferma diagnostica da parte del test. In altri casi il sintomo organo-specifico l’ipotesi dovrà essere messo alla prova di un test diagnostico ad elevata sensibilità/specificità per la confermata/smentita definitivamente dell’ipotesi stessa da parte dall'esito del test diagnostico.

Giova ricordare che statisticamente il 20-25% dei sintomi lamentati da pazienti ambulatoriali restano orfani di una chiara diagnosi, anche dopo ripetuti accertamenti diagnostici o consulenze specialistiche. Vengono definiti MUS (Medically Unexplaned Symptoms) e per buona parte si tratta di disturbi aspecifici, vaghi, atipici, indistinti e sfuggenti che mettono a dura prova i medici pratici (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5297117/)

In queste situazioni non può funzionare il pattern recognition e quindi la ricerca di prove a favore dell'una o dell'altra diagnosi dovrà svolgersi ad ampio spettro clinico - ad esempio con una batteria di esami, come si fa in caso di sospetto astenia, febbre o prurito - per rafforzarne una a scapito delle altre. Si deve cioè ricorrere al metodo ipotetico-deduttivo o meglio ipotetico-selettivo per via del gran numero di ipotesi potenzialmente generate dal sintomo aspecifico (ad esempio quelle relative all’astenia sono decine) e quindi fonte di grande incertezza diagnostico-differenziale e decisionale. Per quale tra le tante ipotesi correlabili al sintomo lamentato si dovrà optare?

In tutti i sintomi aspecifici si apre un notevole ventaglio di ipotesi diagnostiche, che devono essere filtrate e vagliate sia con un attento esame obiettivo sia, soprattutto, con accertamenti tesi ad acquisire quelle informazioni che non sono state ricavate nelle fasi anamnestiche e con l’esame clinico; spesso gli esami vengono prescritti più con l’intento di escludere perlomeno le ipotesi più frequenti/gravi dal punto di vista fisiopatologico ed epidemiologico, senza privilegiare una sola ipotesi, che non con l'obiettivo di confermare una congettura diagnostica. 


Come afferma il filosofo Dario Antiseri “una mente pullulante di ipotesi riesce a cogliere, a rilevare, fatti che per altre menti povere di ipotesi sarebbero insignificanti o addirittura ignoti” da cui deriva "uno dei normali comandi della metodologia che, trascurato, può portare - come già vide Murri - a gravi errori. Questo comando suona; davanti ad un problema, fai proliferare le tue ipotesi (principio della proliferazione delle ipotesi)!"

In buona sostanza il processo può essere immaginato come una sorta di proliferazione e successiva “selezione naturale” di ipotesi diagnostiche concorrenti, al termine della quale sopravvive l'ipotesi più adatta a spiegare i sintomi e a dirimere i dubbi diagnostici. Più il sintomo è aspecifico e isolato più elevata è l’incertezza ed ampia sarà la gamma di ipotesi generate mentalmente e messe alla prova del processo di selezione per eliminazione progressiva fino alla diagnosi. Gli accertamenti diagnostici, in presenza di un sintomo aspecifico isolato, sono funzionali più che alla conferma alla cosiddetta diagnosi d’esclusione per confutazione progressiva di ipotesi.

In presenza di un sintomo specifico il quesito diagnostico nella richiesta di accertamenti sarà altrettanto specifico e dettagliato - ovvero sintomo+segno+sospetto ed eventuali comorbilità/rischi significativi - mentre nel sintomo aspecifico sarà il mero disturbo lamentato dal paziente, senza una chiara ipotesi esplicativa. Il primo procedimento diagnostico è la sintesi tra l'approccio induttivo bayesiano e quello ipotetico, mentre il secondo è squisitamente ipotetico-selettivo per eliminazione di ipotesi (nel canonico procedimento scientifico ipotetico-deduttivo si confrontano di solito due ipotesi teoriche alternative).

Spesso di fronte al sintomo aspecifico si deve attendere l'evolvere degli eventi che possono condurre ad un naturale chiarimento dei disturbi e ad una diagnosi grazie al miglioramento della specificità dei sintomi successivi: il tempo e/o le nuove informazioni sono il motore che fa progredire il processo diagnostico fino al suo esito finale (purtroppo nelle malattie rare questo processo è spesso assai lento fino a raggiungere gli anni).  In attesa che, grazie al fattore tempo, emergano altri "indizi", proprio come nella classica indagine giudiziaria, si devono prescrivere perlomeno alcuni esami di primo livello, con l'obiettivo di sfoltire la lista delle potenziali ipotesi.

Ad esempio di fronte ad un paziente con febbre o prurito isolato o astenia il numero di possibili malattie supera le decine, per cui non è possibile avanzare ipotesi diagnostiche specifiche; si dovrà quindi procedere per macro-ipotesi fisiopatologiche alternative (ad esempio origine infettiva, neoplastica, ematologica, immunologica e di origine sconosciuta) e quindi in prima battuta dovranno essere sondate tutte le piste “investigative”, con accertamenti a 360 gradi, per poi restringere via via il campo, ad esempio ad una ipotesi infettiva di natura virale, piuttosto che batterica o parassitaria.

Il processo di proliferazione/selezioni delle ipotesi utilizzato in presenza di sintomi aspecifici può essere assimilato al metodo scientifico descritto sinteticamente dal filosofo della scienza Karl Popper, in analogia all’evoluzione biologica: "Il progresso scientifico non consiste nell’accumulazione di osservazioni, ma bensì nell’eliminazione delle teorie meno buone e nella loro sostituzione con teorie migliori, in particolare con teorie che abbiano un contenuto maggiore. Si trattava quindi di una competizione fra teorie, una specie di lotta darwiniana per la sopravvivenza". Basta sostituire il termine "teoria" con "ipotesi diagnostica" e il gioco è fatto.

 P.S. Corte di cassazione - Sezione III civile - Ordinanza 30 novembre 2018 n. 30999

Nel 2001 M.A. decedette in seguito alle conseguenze della rottura di un aneurisma cerebrale. Nel 2002 la moglie ( C.A.) ed i due figli minori ( M.A. e G.) di M.A. convennero dinanzi al Tribunale di Nuoro Mu.Lu., F.R.M.N. e la AUSL n. (OMISSIS) di Nuoro, esponendo che:
  • il rispettivo marito e padre, M.A., il (OMISSIS) ebbe uno svenimento e, su indicazione del medico curante, si rivolse al pronto soccorso dell'ospedale (OMISSIS), dove venne visitato dalla dott.ssa F.R.M.N., la quale gli prescrisse unicamente una visita cardiologica ed il controllo della pressione sanguigna;
  • cinque giorni dopo ((OMISSIS)), sempre su indicazione del medico curante, a causa d'una preesistente cefalea M.A. tornò nel medesimo ospedale, dove venne visitato dalla dott.ssa Mu.Lu., la quale anche in questo caso non prescrisse particolari accertamenti diagnostici, limitandosi a prescrivere l'assunzione del farmaco Laroxil;
  • il (OMISSIS) M.A. venne colto da una emiparesi sinistra; questa volta, sempre nell'ospedale di (OMISSIS), venne sottoposto ad un esame TAC del cranio, che rivelò la presenza d'un ematoma intracranico, dovuto alla rottura d'un aneurisma:
  • sebbene il paziente, trasferito a (OMISSIS), fosse stato ivi sottoposto ad intervento chirurgico di evacuazione dell'ematoma e di chiusura della lesione che l'aveva provocato ("clippaggio" dell'aneurisma), M.A. decedette il (OMISSIS) a causa delle conseguenze del pregresso ematoma intracranico;
  • i sanitari dell'ospedale di (OMISSIS) furono imperiti e negligenti nella gestione del paziente, dal momento che non lo sottoposero tempestivamente a quegli esami (come una TAC del cranio) che avrebbero potuto rivelare la presenza dell'aneurisma, e consentire più tempestive e salvifiche cure.
Conclusione: la sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d'appello di Cagliari, la quale nel riesaminare il gravame applicherà il seguente principio di diritto: tiene una condotta colposa il medico che, dinanzi a sintomi aspecifici, non prenda scrupolosamente in considerazione tutti i loro possibili significati, ma senza alcun approfondimento si limiti a far propria una sola tre le molteplici e non implausibili diagnosi.