domenica 8 novembre 2015

I paradossi del tirocinio valutativo per l'esame di stato

Ogni anno a novembre e aprile inizia il ciclo trimestrale del tirocinio valutativo per l’esame di stato, che prevede un mese di frequenza in un reparto di medicina, uno in chirurgia ed uno presso uno studio di MG. E’ difficile valutare le persone quando, come spesso accade, non hanno avuto esperienze pratiche di medicina ambulatoriale sul territorio. Anche perché il sistema di valutazione è estremamente ampio e puntiglioso: il libretto per la certificazione finale, dopo il mese di tirocinio, prevede decine di parametri di valutazione nelle aree clinica, relazionale, comunicativa, diagnostica, comportamentale, etica etc..
  
Come posso valutare le abilità informatiche del tirocinante se non ha mai avuto l’occasione di utilizzare il mio programma? E che dire delle competenze nella raccolta e gestione dei dati se non ha mai utilizzato la carella clinica informatizzata orientata per problemi, specie cronici, ma ha compilato solo classica cartella ospedaliera per degenze in acuto? Ed ancora, come posso valutare le competenze diagnostiche se il tirocinante ha solo una vaga idea dell’epidemiologia del territorio rispetto a quella ospedaliera? Come testare le abilità relazionali, se ha visto solo degenti ospedalieri e non si è mai cimentato con una famiglia intera che viene in studio per sottoporre i problemi di un o più dei suoi componente? 

E che dire delle differenze tra processo diagnostico ospedaliero, con le sue innumerevoli risorse tecnologiche e specialiste, a fronte della pratica “a mani nude” delle cure primarie, che obbliga a tollerare un surplus di incertezza rispetto a quella della corsia. Oppure dell’approccio per problemi, tipico delle cure primarie, non certo prioritario nella didattica universitaria. Come saggiare la competenza educativa nelle gestione dei cronici, se il neo-laureato ha avuto solo esperienze di reparti per acuti? Quali abilità cliniche valutare nella gestione delle infezioni prevalenti sul territorio, dalle affezioni delle prime vie aeree all’influenza vera e propria, se queste malattie non hanno spazio nell’insegnamento universitario? 

Insomma esiste un unico modello di medicina, trasmesso a 360 gradi dalla formazione curricolare, indipendentemente dal contesto operativo? Oppure le caratteristiche peculiari di organizzazione, di contesto sociorelazionale ed epidemiologico richiedono un approccio clinico e culturale diversificato e specifiche modalità di formazione alla diagnosi, terapia e alla gestione dei problemi? Devo confessare un certo imbarazzato quando, al termine del tirocinio, si tratta di compilare il libretto per la valutazione del tirocinante! Il numero di parametri di valutazione e la loro complessità costituirebbe un ostacolo non indifferente per lo stesso valutatore. 

Ma questa è solo una componente del paradosso del tutor: ancor più stridente è la discrasia tra le modalità e i contenuti del sapere (prevalentemente teorico) trasmessi dalla formazione di base e il modello di sapere pratico, di apprendimento dall’esperienza, di riflessione durante e sull’azione che caratterizza le cure primarie.  Al lato pratico, perlomeno nell’ esperienza personale, il tirocinio si trasforma più che altro in un apprendimento sul campo, grazie a quella pratica che i neolaureati non hanno quasi mai avuto l’occasione di sperimentare durante gli ultimi anni di formazione universitaria.
  
Ma probabilmente è un mio limite e mi piacerebbe sapere che ne pensano altri tutor....

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