Il
dibattito pubblico attorno all’ormai famosa lista di 208 accertamenti
sottoposti ai criteri di appropriatezza diagnostica si è subito
cristallizzato in due opposte fazioni: da un lato la ministra si prodiga
per accreditare la tesi secondo la quale “non si taglia proprio niente” e
che tutto resta come prima mentre, mentre dall'altro i suoi oppositori
gridano allo scandalo perchè con il pretesto dell'appropriatezza si
ridurranno le prestazioni e si costringerà la gente a pagarsi le
indagini diagnostiche negate dai medici, facendo un regalo alla sanità
privata.
L’era dell’appropriatezza è iniziata una ventina di anni fa con
l’introduzione delle Note CUF sui farmaci, poi ribattezzate Note AIFA
per l’appropriatezza terapeutica. Il fenomeno rientra nella più generale
tendenza e normare e regolamentare comportamenti che ricadono nella
sfera dell’iniziativa pubblica, riducendo i margini di discrezionalità e
di autonomia decisionale degli attori professionali, secondo
l’idealtipo dell’apparato burocratico di stampo weberiano. Ci sono però
voluti ben due decenni perché si affrontasse anche il capitolo della
diagnostica, preceduti da alcuni tentativi di introdurre vincoli
regolatori sugli esami, non a caso abortiti per le obiettive difficoltà
della materia.
Infatti una differenza
metodologica di fondo contraddistingue l’iniziativa degli anni novanta
sui farmaci da quella odierna sugli accertamenti: la terapia appropriata
presuppone un dato certo e una solida base di partenza, ovvero la
diagnosi dalla quale discende logicamente la cura, secondo lo schema
categoriale se…allora (se un assistito è affetto da diabete di tipo II
ed obesità allora la terapia di prima scelta è la metformina); non
esiste invece un unico esame appropriato a priori per ogni situazione o
sintomo perché i test clinici hanno la funzione di aiutare il medico ad
orientarsi rispetto ad una gamma di ipotesi diagnostiche differenziali,
tra le quali solo al termine dell’iter clinico emergerà quella corretta,
talvolta dopo un processo conoscitivo per “prove ed errori”.
I test di
laboratorio, ad esempio, servono per selezionare le ipotesi generate e
quindi è impossibile definire a priori quale sarà quello appropriato,
ovvero l’esame che confermerà l’ipotesi diagnostica corretta. Insomma le
strategie cognitive, il metodo e le regole del gioco del processo
diagnostico non sono le stesse della decisione terapeutica. Inoltre le variabili in gioco nella prescrizione di un’indagine clinica sono più numerose e complesse. Una
discussione ponderata e appropriata sull’appropriatezza diagnostica
dovrebbe considerare che a monte della prescrizione di un test
interagiscono numerosi fattori su diversi piani, ovvero
- Il giudizio del medico, che sconta margini di rischio/incertezza decisionale più o meno ampi, insiti in ogni processo clinico (falsi positivi, falsi negativi, valore predittivo etc..);
- Una certa sopravvalutazione delle potenzialità della tecnologia diagnostica nel ridurre tale incertezza, in particolare riguardo all’ipotesi di una patologia rara (prevalenza, probabilità pre e post-test etc..);
- l’induzione della prescrizione da parte dell’assistito, specie se esente e/o eccessivamente preoccupato per il proprio stato di salute, alimentate dall’ipertrofia delle attese verso le tecnologia biomedica;
- la diffusione di linee guida, protocolli, percorsi diagnostico-terapeutici etc.. e di ogni altro documento di supporto informativo e di aiuto alla decisione appropriata;
- il suggerimento dell’esame da parte di uno specialista in regime libero-professionale, non tenuto rispettare i criteri di appropriatezza vigenti in ambito pubblico e quindi propenso ad abbondare in test clinici;
- il livello di offerta e di disponibilità della tecnologia medica, che di per sé induce la propria domanda;
- il rischio medico-legale e l’atteggiamento difensivo verso ipotetiche denunce e contenziosi giudiziari;
- una certo clima sociale di allarme, alimentato da un’informazione a due facce: da un parte l’esaltazione acritica delle novità tecnologiche e dall’altra la caccia a notizie di presunta malapratica;
- l’indeterminatezza del concetto di appropriatezza, che oscilla tra la dimensione regolatoria collettiva e la relazione clinica individuale, e la rigidità dei criteri prescritti che non tengono della varietà, unicità e complessità degli assistiti in carne ed ossa della pratica clinica.
Appiattire
questa complessità con criteri schematici e soprattutto con il
condizionamento delle sanzioni economiche non è la strada più
appropriata per risolvere il problema, che va affrontato
prioritariamente sul piano culturale e, se mai, adottando logiche
incentivanti piuttosto che punitive, ed interventi generalizzati a monte
della singola richiesta di indagini diagnostiche. Con l’entrata in
vigore dei criteri di appropriatezza la situazione si complicherà sul
piano cognitivo per tutti i decisori, con inediti problemi di
interpretazione e di applicazione pratica ai casi concreti, ma non solo;
la spada di Damocle delle sanzioni economiche previste dalla legge
accentuerà la diffidenza degli assistiti verso i medici e avrà un
impatto negativo anche sulle relazioni tra i professionisti, per il
rischio di generare un deleterio rimpallo della responsabilità della
prescrizione tra i professionisti che si alternano alla gestione dei
casi, come accaduto per anni con le Note CUF sui farmaci.
Un’
informazione corretta sul decreto appropriatezza dovrebbe contrastare
il luogo comune in base al quale si farebbero “pesare i tagli sui malati
che si dovranno pagare gli esami", come affermano in TV alcuni
commentatori. Il rischio esiste ma perlomeno per gli esami di
laboratorio di uso comune appare poco probabile, a parte le limitazioni e
i vincoli temporali per l’analisi dei lipidi, ed i medici potranno
continuere a prescrivere gli esami appropriati per le patologie ad alta
prevalenza, specie quelle croniche. Due sono le categorie individuate
per classificare i 208 accertamenti inseriti nella lista ministriale:
condizioni di erogabilità o indicazioni di appropriatezza. La
maggioranza dei 143 esami di laboratorio, ad esmpio, rientra nella prima
categoria mentre solo in 8 casi il test è soggetto a generiche
indicazioni di appropriatezza (alfa amilasi, le 3 fosfatasi, lipasi,
potassio, proteine, sodio).
I
criteri prescrittivi dei più comuni test clinici, previsti dalla bozza
ministeriale, sono a dir poco scontati e generici: transaminasi in caso
di sospetta patologia epatica, amilasi nella diagnostica delle ghiandole
salivari e pancreatiche, ferro per la diagnosi e il monitoraggio delle
patologie da carenza o accumulo marziale, urea in pazienti con
alterazioni sospette o dimostrate della funzione renale, idratazione o
catabolismo, CPK per mialigie e nel monitoraggio delle statine etc… Le
superflue condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza
degli esami di laboratorio sono la dimostrazione delle insormontabili
difficoltà metodologiche incontrate dai consulenti ministeriali per
definire a priori criteri non banali e validi per ogni situazione, a cui
si è fatto cenno all’inizio.
D’altra
parte esistono dati statistici che attestano livelli di richieste di
indagini diagnostiche eccedenti rispetto alle medie degli altri paesi,
specie le richieste di esami di imaging (TAC e soprattutto RMN). Nel
caso della diagnostica per immagini invece prevalgono condizioni di
eragabilità più dettagliate, “intrusive” e di applicazione problematica
alla gamma di casi concreti bisognosi di approfondimento diagnostico. Un
esempio per tutti, la RMN della colonna, prescrivibile in caso di
"dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo
neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno
4 settimane, traumi recenti e fratture da compressione".
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