martedì 27 ottobre 2015

Appropriatezza diagnostica e terapeutica, le differenze contano!

Il dibattito pubblico attorno all’ormai famosa lista di 208 accertamenti sottoposti ai criteri di appropriatezza diagnostica si è subito cristallizzato in due opposte fazioni: da un lato la ministra si prodiga per accreditare la tesi secondo la quale “non si taglia proprio niente” e che tutto resta come prima mentre, mentre dall'altro i suoi oppositori gridano allo scandalo perchè con il pretesto dell'appropriatezza si ridurranno le prestazioni e si costringerà la gente a pagarsi le indagini diagnostiche negate dai medici, facendo un regalo alla sanità privata. 

L’era dell’appropriatezza è iniziata una ventina di anni fa con l’introduzione delle Note CUF sui farmaci, poi ribattezzate Note AIFA per l’appropriatezza terapeutica. Il fenomeno rientra nella più generale tendenza e normare e regolamentare comportamenti che ricadono nella sfera dell’iniziativa pubblica, riducendo i margini di discrezionalità e di autonomia decisionale degli attori professionali, secondo l’idealtipo dell’apparato burocratico di stampo weberiano. Ci sono però voluti ben due decenni perché si affrontasse anche il capitolo della diagnostica, preceduti da alcuni tentativi di introdurre vincoli regolatori sugli esami, non a caso abortiti per le obiettive difficoltà della materia.

Infatti una differenza metodologica di fondo contraddistingue l’iniziativa degli anni novanta sui farmaci da quella odierna sugli accertamenti: la terapia appropriata presuppone un dato certo e una solida base di partenza, ovvero la diagnosi dalla quale discende logicamente la cura, secondo lo schema categoriale se…allora (se un assistito è affetto da diabete di tipo II ed obesità allora la terapia di prima scelta è la metformina); non esiste invece un unico esame appropriato a priori per ogni situazione o sintomo perché i test clinici hanno la funzione di aiutare il medico ad orientarsi rispetto ad una gamma di ipotesi diagnostiche differenziali, tra le quali solo al termine dell’iter clinico emergerà quella corretta, talvolta dopo un processo conoscitivo per “prove ed errori”. 

I test di laboratorio, ad esempio, servono per selezionare le ipotesi generate e quindi è impossibile definire a priori quale sarà quello appropriato, ovvero l’esame che confermerà l’ipotesi diagnostica corretta. Insomma le strategie cognitive, il metodo e le regole del gioco del processo diagnostico non sono le stesse della decisione terapeutica. Inoltre le variabili in gioco nella prescrizione di un’indagine clinica sono più numerose e complesse. Una discussione ponderata e appropriata sull’appropriatezza diagnostica dovrebbe considerare che a monte della prescrizione di un test interagiscono numerosi fattori su diversi piani, ovvero

  • Il giudizio del medico, che sconta margini di rischio/incertezza decisionale più o meno ampi, insiti in ogni processo clinico (falsi positivi, falsi negativi, valore predittivo etc..);
  • Una certa sopravvalutazione delle potenzialità della tecnologia diagnostica nel ridurre tale incertezza, in particolare riguardo all’ipotesi di una patologia rara (prevalenza, probabilità pre e post-test etc..);
  • l’induzione della prescrizione da parte dell’assistito, specie se esente e/o eccessivamente preoccupato per il proprio stato di salute, alimentate dall’ipertrofia delle attese verso le tecnologia biomedica;
  • la diffusione di linee guida, protocolli, percorsi diagnostico-terapeutici etc.. e di ogni altro documento di supporto informativo e di aiuto alla decisione appropriata;
  • il suggerimento dell’esame da parte di uno specialista in regime libero-professionale, non tenuto rispettare i criteri di appropriatezza vigenti in ambito pubblico e quindi propenso ad abbondare in test clinici;
  • il livello di offerta e di disponibilità della tecnologia medica, che di per sé induce la propria domanda;
  • il rischio medico-legale e l’atteggiamento difensivo verso ipotetiche denunce e contenziosi giudiziari;
  • una certo clima sociale di allarme, alimentato da un’informazione a due facce: da un parte l’esaltazione acritica delle novità tecnologiche e dall’altra la caccia a notizie di presunta malapratica;
  • l’indeterminatezza del concetto di appropriatezza, che oscilla tra la dimensione regolatoria collettiva e la relazione clinica individuale,  e la rigidità dei criteri prescritti che non tengono della varietà, unicità e complessità degli assistiti in carne ed ossa della pratica clinica.
Appiattire questa complessità con criteri schematici e soprattutto con il condizionamento delle sanzioni economiche non è la strada più appropriata per risolvere il problema, che va affrontato prioritariamente sul piano culturale e, se mai, adottando logiche incentivanti piuttosto che punitive, ed interventi generalizzati a monte della singola richiesta di indagini diagnostiche. Con l’entrata in vigore dei criteri di appropriatezza la situazione si complicherà sul piano cognitivo per tutti i decisori, con inediti problemi di interpretazione e di applicazione pratica ai casi concreti, ma non solo; la spada di Damocle delle sanzioni economiche previste dalla legge accentuerà la diffidenza degli assistiti verso i medici e avrà un impatto negativo anche sulle relazioni tra i professionisti, per il rischio di generare un deleterio rimpallo della responsabilità della prescrizione tra i professionisti che si alternano alla gestione dei casi, come accaduto per anni con le Note CUF sui farmaci.

Un’ informazione corretta sul decreto appropriatezza dovrebbe contrastare il luogo comune in base al quale si farebbero “pesare i tagli sui malati che si dovranno pagare gli esami", come affermano in TV alcuni commentatori. Il rischio esiste ma perlomeno per gli esami di laboratorio di uso comune appare poco probabile, a parte le limitazioni e i vincoli temporali per l’analisi dei lipidi, ed i medici potranno continuere a prescrivere gli esami appropriati per le patologie ad alta prevalenza, specie quelle croniche. Due sono le categorie individuate per classificare i 208 accertamenti inseriti nella lista ministriale: condizioni di erogabilità o indicazioni di appropriatezza. La maggioranza dei 143 esami di laboratorio, ad esmpio, rientra nella prima categoria mentre solo in 8 casi il test è soggetto a generiche indicazioni di appropriatezza (alfa amilasi, le 3 fosfatasi, lipasi, potassio, proteine, sodio).

I criteri prescrittivi dei più comuni test clinici, previsti dalla bozza ministeriale, sono a dir poco scontati e generici: transaminasi in caso di sospetta patologia epatica, amilasi nella diagnostica delle ghiandole salivari e pancreatiche, ferro per la diagnosi e il monitoraggio delle patologie da carenza o accumulo marziale, urea in pazienti con alterazioni sospette o dimostrate della funzione renale, idratazione o catabolismo, CPK per mialigie e nel monitoraggio delle statine etc… Le superflue condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza degli esami di laboratorio sono la dimostrazione delle insormontabili difficoltà metodologiche incontrate dai consulenti ministeriali per definire a priori criteri non banali e validi per ogni situazione, a cui si è fatto cenno all’inizio.

D’altra parte esistono dati statistici che attestano livelli di richieste di indagini diagnostiche eccedenti rispetto alle medie degli altri paesi, specie le richieste di esami di imaging (TAC e soprattutto RMN). Nel caso della diagnostica per immagini invece prevalgono condizioni di eragabilità più dettagliate, “intrusive” e di applicazione problematica alla gamma di casi concreti bisognosi di approfondimento diagnostico. Un esempio per tutti, la RMN della colonna, prescrivibile in caso di "dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno 4 settimane, traumi recenti e fratture da compressione".

La materia "appropriatezza diagnostica" è particolarmente delicata perché ha a che fare con la gestione dell’ incertezza e non si può irrigidire in criteri e schemi predefiniti che si scontrano inevitabilmente con il carattere interattivo e variabile del processo diagnostico differenziale. I consulenti ministeriali non hanno affrontato il compito loro affidato nel modo più appropriato; ora il ministero paga il fio di una manovra impopolare e probabilmente inefficace sul piano economico, che invece piace a chi preferisce imbastire una campagna propagandistica ed ideologica a prescindere dal merito di complesse questioni metodologiche e pratiche.
 

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