martedì 28 febbraio 2017

Appropriatezza endoscopica, facile con il senno di poi!

Come abbiamo visto nel precedente post la conoscenza a priori delle casistiche cliniche, a cui fanno riferimento i criteri di appropriatezza delle endoscopie, non esaurisce tutta la gamma delle situazioni in cui invece è opportuno un accertamento diagnostico, per una deformazione "statistica": i criteri di appropriatezza sono tarati sul caso medio, sul paziente tipo più rappresentativo della categoria di portatori di una certa patologia.

Nella realtà lo spettro delle presentazioni è invece più variegato e multiforme della rappresentazione schematica e, solo apparentemente, oggettiva che ne danno le linee guida. Questo argomento ci porta a considerare le basi concettuali delle raccomandazioni e del loro utilizzo pratico per valutare l'appropriatezza delle decisioni. In questo campo si realizza una sorta di cortocircuito metodologico e temporale tra un'impostazione a priori e quella complementare ex post, tra indicazioni generali e specificità di ogni caso.

L'appropriatezza di un esame, come pure di un accesso in PS, dovrebbe essere giudicata ex ante nel singolo assistito, e non a posteriori tra quanti hanno eseguito il test, come invece fanno i gastroenterologi che giudicano l'appropriatezza su ampie coorti. Lo stesso discorso vale per i codici cromatici del PS, che dovrebbero essere attribuiti all'inizio dell'iter e non alla fine delle procedure diagnostiche, spesso complesse ed articolate, espletate in PS.

Il giudizio di appropriatezza emerge generalmente dal confronto statistico su grandi numeri tra esami negativi ed esami che invece hanno dato un esito patologico, a dimostrazione che l'accertamento era stato prescritto correttamente. Questo modello presuppone che la prescrizione dell'esame miri sempre a confermare un sospetto diagnostico ben definito, mentre nella realtà spesso i test vengono prescritti per confutare un'ipotesi di malattia; è il caso di condizioni pauci- o asintomatiche, di disturbi vaghi ed aspecifici ma soprattutto di soggetti portatori di fattori di rischio privi di sintomi soggettivi (basta pensare agli assistiti con familiarità per neoplasia gastrica o colica, per i quali ad esempio è prevista una colonscopia periodica ed una specifica esenzione, per non parlare dei test di suscettibilità genetica).

Come afferma Marco Bobbio nel suo recente libro "Troppa medicina" (Einaudi, Torino 20017: http://www.troppamedicina.it/ ) "se alimentiamo l'idea che esiste una sola scelta giusta a priori, qualunque risultato sfavorevole presupporrà un errore" (pag. 29). Ovvero se i criteri di appropriatezza ex ante sono considerati in modo assoluto, acontestuale ed avulsi da una valutazione globale del singolo caso ogni scostamento rispetto al dato atteso sarà segno di inappropriatezza, specie se questa conclusione viene emessa ex post rispetto al percorso diagnostico.

Il giudizio di appropriatezza dovrebbe valere solo se chi lo formula è soggetto al cosiddetto "velo di ignoranza", definito dal filosofo della politica John Rawls riprendendo una nozione sviluppata da Kant. Il concetto di Rawls fa riferimento al principio cardine della sua "teoria della giustizia", in cui i singoli individui scelgono essendo privi di informazioni relative alla propria condizione futura nella società.

Applicato al campo medico il velo di ignoranza corrisponde alla condizione di incertezza che caratterizza chi osserva una situazione clinica all'esordio, prima di poter acquisite informazioni diagnostiche rilevanti sulla natura del disturbo che, dissolvendo l'incertezza e squarciando il velo, consentiranno un giudizio esauriente solo a posteriori. Detto in altri termini, con il senno di poi tutti sono in grado di valutare l'appropriatezzza di un accertamento, tent'è che esiste uno specifica euristica/bias per descrivere situazioni di questo tipo (indsight bias: http://www.dif.unige.it/epi/networks/05/motterrlini.pdf ).

A detta del filosofo della scienza Matteo Motterlini l'esperienza ci insegna che "c’è una grossa differenza fra predire gli sviluppi  futuri di una situazione e spiegare il corso di eventi già accaduti. Col senno di poi, infatti, siamo tutti più bravi". Questa "distorsione retrospettiva del giudizio" è dovuta alla propensione degli umani "a dare senso agli eventi passati, descrivendoli come conseguenze inevitabili (o quasi) di condizioni che erano presenti fin dall’inizio". Il "velo di ignoranza" è l'opposto dell'insight bias perchè costringe a giudicare e valutare la situazione ex ante e non ex post, cioè prima di aver acquisito informazioni significative, spesso dirimenti, sulla natura del problema e sull'epilogo della vicenda.

Conclude Motterlini: "uno sguardo retrospettivo può avere un’influenza fuorviante sul modo in cui valutiamo non solo i giudizi, ma anche le decisioni". Nel caso dell'appropriatezza delle endoscopie le decisioni di una popolazione di medici, alle prese con casi multiformi e spesso fonte di incertezza, vengono valutate ex post (grazie al senno di poi) e sulla base di criteri generali a priori, astratti rispetto alla varietà della casistica.

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