Per analizzare e comprendere il braccio di ferro in atto da mesi tra Regioni e Ministero circa l’ipotesi di passaggio alla dipendenza dei medici delle cure primarie bisogna ricorrere alla dimensione storico sociale, senza la quale è difficile decifrare i contorni del problema e intravvederne gli esiti. L’attuale evoluzione della medicina segnala un malessere che pervade la categoria dall’inizio del secolo, appro-fondito nel 2003 in un testo di riferimento dal sociologo sanitario Guido Giarelli. Il presidente dell’ANAAO Troise nell’intervento della scorsa settimana sul QS ha tratteggiato un disagio profes- sionale che interessa in egual modo dipendenti e convenzionati, per un mal comune che non comporta il proverbiale mezzo gaudio, ma che a dispetto delle differenze di status giuridico a vantaggio dei primi esita in burn out e disaffezione comune ad entrambi.
I poteri controbilanciati e il
declino della dominanza
Il punto di partenza dell’analisi
è la descrizione delle forze in campo, ovvero dei tre poteri che si
controbilanciano e si fronteggiano nell’arena sociale e sanitaria per spostare
gli equilibri sistemici a proprio favore: la professione medica, il complesso
sanitario-industriale di mercato e quello pubblico regolatore delle relazioni
tra gli altri attori. Per tutto il Novecento e fino alla fine degli anni
Settanta la “dominanza medica”, descritta dal sociologo americano Freidson, ha
giocato un ruolo preminente per via di una delega di potere frutto di un
contratto sociale stipulato idealmente tra stato, società e biomedicina.
Per mezzo secolo lo stato ha
conferito un mandato in bianco ai medici per esercitare in autonomia un sorta
di controllo monopolistico sul settore, giustificato da alcune garanzie fornite
dalla professione organizzata: pratiche e compiti fondati su basi
tecno-scientifiche e razionali, di matrice positivistica, e una assicurazione
etica di servizio disinteressato ed altruistico verso i pazienti e la comunità,
di matrice paternalistica, grazie alle quali poteva esercitare un’egemonia
sulle altre professioni sanitarie, un controllo sul mercato, sui clienti, sulla
formazione e inoltre un’influenza significativa sui decision maker pubblici.
Con la prima riforma sanitaria
del 1978 la società, tramite gli organismi del Servizio Sanitario Nazionale, si
riprendeva una parte del “potere” delegato alla medicina, controbilanciando con
l’influenza della politica nelle USSL il “dominio” della professione. Da allora
si è aperta una lunga fase di riequilibrio dei rapporti di forza tra i tre
poteri, nel segno del progressivo declino dell’autonomia clinica e
dell’autorevolezza professionale, fatta di crescenti interferenze e controlli
esterni sull’attività. Ma è con la seconda riforma sanitaria del 1992 che viene
inferto il colpo più rilevante alla dominanza, con l’aziendalizzazione e
soprattutto con la managerializzazione del servizio sanitario, specie
ospedaliero. Anche perché nel frattempo il terzo attore, ovvero il sistema
industriale, era balzato in primo piano con un’espansione incontrollata
dell’offerta che aveva messo in discussione i fragili equilibri finanziari del
wellfare pubblico.
Così la forzatura manageriale
trovava la strada spianata per mettere sotto tutela sia l’eccessiva espansione
della medicina sia quella sinergica dell’apparato industriale, con una
burocratizzazione e standardizzazione delle procedure e delle prestazioni
mediate dagli agenti professionali mai attuata in precedenza. Gli interventi
della prima CUF ne sono l’esempio emblematico: la riclassificazione del
prontuario terapeutico attuata nel 1994 inaugurava la stagione dei vincoli
prescrittivi, a base di Note e Piani Terapeutici, prolungata con alterne
vicende fino ai nostri giorni, ed espressione del controllo burocratico sulle
decisioni mediche, seppur supportato scientificamente dall’appropriatezza EBM.
Bisogna considerare che in precedenza il mercato farmaceutico coincideva con il
prontuario terapeutico del SSN per cui ogni nuovo prodotto messo in commercio diveniva
automaticamente anche “mutuabile”.
Dalla seconda alla terza
riforma e gli effetti della managerializzazione
Ben presto emergevano però i problemi di applicazione delle Note, con contraccolpi sulle relazioni tra I, II livello e assistiti, correlati alla “discrezionalità” di alcune prescrizioni, specie da parte degli specialisti, effetti che si riverberavano soprattutto sul generalista. L'effetto perturbante delle Note non è dovuto tanto al loro contenuto "tecnico", ovvero ai criteri inseriti nel dispositivo vincolante per il professionista, ma al loro impatto sul sistema di relazione del network sociosanitario, i cui attori interpretano a diverso titolo e in modo difforme la Nota.
La riforma Bindi ter del 1999 tentava di porre
rimedio alle tensioni generate dalle note, introducendo il cosiddetto obbligo
di appropriatezza per tutti i professionisti del SSN, ma con scarsi effetti
pratici. Il tentativo di regolamentazione veniva reiterato dopo una quindicina
di anni con i LEA per l’appropriatezza delle prestazioni diagnostiche e
specialistiche, ma con analoghi risultati deludenti.
A fare le spese della
razionalizzazione burocratica e dei controlli esterni, in termini di
conseguenze sulla relazione con pazienti sempre più informati ed esigenti per
un diffuso consumerismo, erano paradossalmente i medici convenzionati, che in
teoria godevano di margini di manovra più ampi in quanto lavoratori autonomi
rispetto ai colleghi subordinati. Le Note terapeutiche e diagnostiche avevano
un impatto destabilizzante sulla relazione di cura, in dissonanza con la
retorica prevalente che prescriveva ai medici di promuovere empatia, autonomia,
empowerment, ascolto e partnership del paziente, olismo e integrazione in un
sistema sostanzialmente dis-integrato per il disallineamento tra le regole
ospedaliere e quelle vigenti sul territorio.
A questi ideali faceva da
contrappeso il New Public Management nel tentativo di trasferire le logiche del
libero mercato all’area sanitaria pubblica, a base di managed care e
competition, libertà di scelta, sovranità del cliente, concorrenza
amministrata, consumerismo e quasi mercato, accountability, separazione tra
erogatori e acquirenti di prestazioni, come nel modello lombardo di SSR.
La promozione retorica
dell’empowerment e della personalizzazione delle cure si scontrava con la standardizzazione
tecnocratica iscritta nella deriva manageriale, mediata dall’imposizione di
decisioni diagnostico-terapeutiche predeterminate e procedure routinarie verso
tutti i pazienti, a prescindere dalla loro complessità, varietà e unicità, in
nome della razionalizzazione delle cure. La burocratizzazione degli standard
clinici presupponeva un ruolo di passivo esecutore del MMG in una cornice di
compiti impiegatizi ed amministrativi delegati al territorio, in misura
complementare alla proletarizzazione del medico salariato, incaricato di
indurre la domanda e attivare la “catena di montaggio” per la mercificazione
della salute a beneficio dei profitti delle grandi organizzazioni sanitarie
private.
La medicina del territorio veniva
stretta in una rigida tenaglia: da un lato le pressioni del paziente, grazie
all’uso “ricattatorio” della revoca per ridurre a miti consigli il medico
recalcitrante a soddisfarne i desiderata, e dall’altro la pressione del
controllo burocratico-manageriale a base di budget, medie prescrittive, centri
di costo, controlli contabili, protocolli, linee guida, report di spesa etc..
Con un declino della dominanza proporzionale alla stretta della morsa.
L'impatto della pandemia e
la proposta di dipendenza
La pandemia ha assestato un ulteriore
colpo all’autonomia di una medicina territoriale abbandonata a sè stessa nella
maggioranza delle regioni - come nell’epicentro lombardo - ma ritenuta
responsabile in prima persona dell’inefficace risposta organizzativa, a
dispetto di una vacanza contrattuale ultradecennale e di una riforma Balduzzi
rimasta inattuata. Anche il mercato sembrava messo da parte dal massiccio
intervento pubblico durante la pandemia, moltiplicatore del deficit sanitario
per fronteggiare l’emergenza tanto quanto impegnato a tagliare i finanziamenti
negli anni precedenti.
Solo in apparenza però, perché
gli imponenti stanziamenti pubblici sono andati alla socializzazione delle cure
ospedaliere e soprattutto all’immunizzazione di massa, che ha incrementato gli
utili delle grandi major farmaceutiche e del settore medicale in genere. Mentre
sul versante delle prestazioni il mercato privato si è fatto avanti per colmare
il gap tra domanda e offerta pubblica, alle prese con liste d’attesa infinite,
effetto queste ultime del blocco delle prestazioni diagnostiche e
specialistiche per fronteggiare a livello ospedaliero l’emergenza Covid-19, con
una privatizzazione di fatto in settori chiave come la chirurgia e l’assistenza
ai cronici.
Così la crisi pandemica è stata l’occasione
per spingere in cima all’agenda pubblica il passaggio alla dipendenza dei
medici convenzionati come soluzione dei problemi emergenti, complice un revival
del centralismo statale nel coordinamento regionale della crisi e sull’onda di
una campagna mediatica denigratoria verso la categoria, focalizzata sulla
denuncia dei medici fannulloni, libero-professionisti estranei al SSN, inadatti
ad arginare il covid per via di sole 15 ore di attività ambulatoriale,
latitanti al telefono e spesso anche nell’assistenza ai cronici.
In questo contesto il passaggio
alla dipendenza si configura come ultimo atto della progressiva erosione di una
dominanza professionale peraltro debole, ma per alcuni ancora impregnata di
corporativismo, di cui restano poche tracce sul territorio, come dimostra il
percorso evolutivo sopra schematizzato. Il passaggio alla dipendenza segnerebbe
il venire meno della residua autonomia organizzativa e professionale dei
convenzionati, ormai confinata nella gestione del proprio studio e delle
modalità di contatto e relazione con l’ambiente.
Le criticità della transizione
Infine la pandemia ha peggiorato
la conflittualità latente tra MMG e pazienti sfiduciati, incerti e non
raramente incattiviti, specie quelli dell’area no vax, fino all’intimidazione
legale. In questo contesto la produzione di nuove Note AIFA corredate da Piani
Terapeutici di dubbia utilità, nel pieno della peggiore ondata della peggiore
pandemico dell’ultimo secolo, ha avuto un impatto perturbante su una categoria
già nel mirino dei media, desiderosi di additare alla riprovazione pubblica i
peones dell’assistenza primaria, oppressi da una burocrazia
deprofessionalizzante ma colpevoli delle carenze nella gestione pandemica. Per
giunta nel biennio pandemico sono proliferate le piattaforme informatiche a
silos, monadi di una burocrazia elettronica che non scambia informazione e moltiplica
le stesse procedure.
La componente giovanile e
femminile della categoria, e i colleghi nei contesti più esposti alle tensioni
con i pazienti, si sono dimostrati interessati allo scambio proposto
dall’operazione dipendenza: in cambio del rapporto di subordinazione sarebbero
state garantite maggiori tutele lavorative e previdenziali (malattia, ferie,
gravidanza, assicurazioni etc..) e il disinnesco del ricatto della revoca,
spada di Damocle brandita da pazienti ingovernabili, pretenziosi e conflittuali
fino alla vera aggressività verbale o fisica.
In periodo di vacche grasse la
transizione dall’autonomia al rapporto di subordinazione, sebbene di complessa
attuazione, era proponibile. Ma con i chiari di luna per un debito pubblico al
150% del Pil lo scambio è a rischio di insostenibilità finanziaria, criticità
normative, compatibilità logistico-organizzative, incertezza sugli esiti e
possibili effetti collaterali. Da qui il braccio di ferro irrisolto tra regioni
paladine della dipendenza e ministro propugnatore di un’evoluzione normativa
incrementale rispetto allo status quo convenzionale, come la proposta di ACN
delle 38 ore, peraltro di implementazione non certo più agevole.
Comunque il combinato disposto di
questi incertezze sta già destabilizzando gli equilibri dei servizi
territoriali per due fenomeni sinergici: da un lato il pensionamento anticipato
degli ultra sessantenni, per il deteriorarsi delle condizioni di lavoro e per
le incerte prospettive del futuro e, dall’altro, lo scarso appeal della
professione sui neolaureati che potrebbero accedere al corso di formazione
specifica in MG con una borsa di misera entità. Con il risultato pratico che i
posti vacanti, lasciati liberi dai pensionati, vengono occupati solo in parte
dai giovani privando milioni di cittadini dell’assistenza primaria.
In conclusione la dipendenza
segnerebbe la revoca definitiva del mandato ricevuto a suo tempo e l’ultimo atto della
parabola declinante di una “dominanza medica” quanto mai debole sul territorio
e arrivata al capolinea del suo ciclo
storico, all’insegna della burocratizzazione e della deprofessionalizzazione,
all’origine di un malessere comune a convenzionati e dipendenti nella
frustrazione, nel risentimento e nello scoramento emerso con la defezione di massa
dalla sanità pubblica.
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