domenica 31 marzo 2019

Dai CReG alla Presa in Carico, bilancio provvisorio di un decennio riformatore

Con il 2019 si conclude un decennio di riforme lombarde volte ad affrontare la "pandemia" di patologie croniche che investe i Servizi Sanitari di tutto l’occidente. E’ probabilmente presto per valutarne gli esiti della Presa in Carico (PiC) dei cronici a tre mesi dal giro di boa di una riforma triennale; tuttavia considerando i risultati al dicembre 2018 non sembra che vi siano le condizioni per un chiaro successo, specie per quanto riguarda i Gestori ospedalieri della PiC.( https://curprim.blogspot.com/2019/02/presa-in-carico-della-cronicita-in.html )

Il decennio riformatore è stato inaugurato dalle regole di sistema del 2011 dedicate ai CReG - i DRG della cronicità, precursori della PiC - che partivano da una valutazione della MG da far sobbalzare sulla sedia: “l’attuale organizzazione delle cure primarie manca delle premesse contrattuali e delle competenze cliniche, gestionali ed amministrative richieste ad una organizzazione che sia in grado di garantire una reale presa in carico complessiva dei pazienti cronici al di fuori dell’ospedale”.

Insomma una bocciatura su tutti i fronti, per un comparto inadeguato a reggere l’impatto della cronicità; in poche righe si faceva piazza pulita della retorica sul mitico “ruolo centrale” del MMG nel SSN, con una speculare e ruvida squalifica professionale di un’intera categoria, peraltro non supportata da dati probanti. 

La sostanziale delegittimazione professionale riattualizzava il fantasma che da una ventina di anni si aggira nella comunità dei MMG: il timore della messa in liquidazione delle cure primarie, per passare la mano al più affidabile secondo livello, con il conseguente rischio di espropriazione dei cronici, che troverà riscontro nell’inedita figura del Clinical Manager ospedaliero della PiC. Qual è il bilancio del decennio riformatore, tra vacanza contrattuale dell’ACN, riforme mancate come la Balduzzi, CReG, Piano Nazionale della Cronicità (PNC) e varo della PiC? 

La strategia di politica sanitaria

Nell’ottobre del 2016 è stato approvato il PNC, premessa per il via alla riforma lombarda della PiC nel biennio successivo che, sulla scia dei CReG, doveva rappresentare una svolta nella gestione “complessiva dei cronici al di fuori dell’ospedale”. Certo il giudizio poco lusinghiero verso le cure primarie non è stato reiterato nella mezza dozzina di delibere attuative della PiC. Tuttavia è rimasto come premessa implicita e cornice programmatica delle riforme lombarde del decennio. 

Numerose sono le prove empiriche che dimostrano come l’immagine di una MG screditata e inaffidabile abbia influenzato, a mo' filo conduttore sotto traccia, le politiche sanitarie regionali:
  • il disinteresse lombardo per le forme organizzative previste dalla Balduzzi – Unità Complesse e Aggregazioni Funzionali Territoriali – premesse contrattuali mai recepite per nuovi modelli di gestione della cronicità
  • la centralità data ai Gestori organizzativi, che dovevano compensare le carenze cliniche, gestionali ed amministrative del territorio, nello spirito del quasi mercato interno
  • l’assenza di qualsiasi riferimento, nella prima Delibera del gennaio 2017, al ruolo dei MMG, che solo con la seconda Delibera del maggio 2017 entravano in gioco nella PiC come soci di una Coop
  • la discesa in campo, nell’ultima Delibera del 2017, del Clinical Manager (CM) dei gestori organizzativi come referente primario dei pazienti in alternativa al generalista.
I Gestori organizzativi, non previsti nei CReG, rappresentano la novità più rilevante della PiC; entrano in gioco con il mandato implicito di sostituire il medico curante non aderente alla PiC nello spirito del preambolo delle regole 2011, sopra riportato, e in un'ottica concorrenziale tra soggetti erogatori all'interno del quasi mercato sanitario regionale. I dati delle adesioni dei Cronici alla PiC all'inizio del 2019 non sembrano premiare questo disegno strategico, specie per quanto riguarda proprio gli arruolamenti dei CM ospedalieri: https://curprim.blogspot.com/2019/02/presa-in-carico-della-cronicita-in.html

Le reazioni dei MMG alla proposta di PiC sono testimoniate dalle scelte operate: il 42% circa dei MMG ha aderito ad una Coop/Gestore o come Co-gestore singolo aggregato ad un Gestore organizzativo, mentre il restante 58% si è astenuto. Tra le motivazioni oltre ad una quota di adesioni convinte ha avuto un’importanza il timore della “messa in liquidazione” e dell’emarginazione dalla MG dalla cura territoriale dei cronici. Le scelte degli assistiti alla proposta di PiC, mediante lettera inviata nei primi mesi del 2018, erano quelle gravate dalla maggiore incertezza assieme al comportamento dei medici dei Gestori chiamati a svolgere il compito del CM. 

Le scelte dei Clinical Manager specialisti

La vicenda riformatrice della PiC ha avuto il merito, come effetto collaterale del suo momentaneo flop, di far emergere la “drammatica” divaricazione tra la cultura del territorio, centrata sulla gestione della cronicità nella dimensione personale, e la cultura ospedaliera rivolta selettivamente alle condizioni acute, nella dimensione tecno-specialistica d’organo/apparato. Non si tratta di competenza versus incompetenza, di conoscenze generali versus specialistiche, ma di una divaricazione culturale, di schemi mentali e di pratiche assistenziali che incidono in modo tanto profondo quanto tacito sulle modalità di approccio e gestione dei problemi.

Non mi riferisco tanto agli schemi diagnostico-terapeutici e alle conoscenze di base, più o meno specifiche/specialistiche, ma alla cornice interpretativa e al bagaglio culturale modellato sulle pratiche e sui contesti organizzativi e professionali. La prova provata della discrasia tra medicina ospedaliere ed extra ospedaliera è venuta dalla sostanziale ricusazione del ruolo del CM da parte degli specialisti ospedalieri (si vada in proposito la reazione dell’AMPO Lombardia: http://www.quotidianosanita.it/lombardia/articolo.php?articolo_id=61211); nel disegno della PiC i CM dovevano prima scalzare e poi sostituire di fatto i "mutualisti generici”, tramite un implicito passaggio in cura deciso dai cronici stessi con la sottoscrizione del “patto di cura” presso il Gestore ospedaliero.

La PiC doveva rivelarsi il cavallo di Troia per espugnare il fortino territoriale, contendibile in quanto inadatto e delegittimato alla gestione della cronicità, come recitava il preambolo ai CReG. Il presupposto implicito e dato per scontato su cui si doveva basare l’operazione era l’intercambiabilità dei ruoli e dei compiti tra professionisti ospedalieri e del territorio; nel senso che i decisori ritenevano naturale per il CM specialistico lo spostamento, culturale e pratico, dalla corsia ospedaliera alla PiC ambulatoriale dei cronici afferenti al nosocomio dal territorio. Va da sé che l’intercambiabilità dei ruoli/compiti è unidirezionale, nel senso che nessuno immagina che il MMG si possa far carico di pazienti con problematiche specialistiche mentre è ritenuto “fisiologico” che il CM potesse indifferentemente gestire assisti polipatologici territoriali e monopatologici di abituale competenza ospedaliera.

Alla verifica empirica anche gli specialisti ospedalieri hanno confutato l’idea di un carattere acontestuale della professionalità, a dimostrazione che competenze e abilità sono aderenti alle pratiche, mediate dai contesti socio-organizzativi e non possono essere vicariati a piacimento. Certo nella latitanza del CM hanno pesato anche i problemi organizzativi delle strutture, specie quelle pubbliche spesso con organico carente, sovraffollate e in continua emergenza “posti letto”. 

Tuttavia il fattore organizzativo spiega solo in parte il flop della PiC tra i potenziali CM ospedalieri. Il rigetto del ruolo del CM ha basi prevalentemente culturali ed esperienziali: i medici della persona sul territorio, proprio per le caratteristiche del setting ambulatoriale, sono obbligati a farsi carico dei loro assistiti in modo integrale e non in base a barriere disciplinari specialistiche.  Evidentemente tra i CM ha prevalso un certo disagio per il fatto di dover superare nella PiC la propria sfera specialistica.

Le scelte dei pazienti cronici

Un’altra “drammatica” dimostrazione della divaricazione tra la rappresentazione della realtà e la realtà stessa è venuta dal comportamento degli assistiti in risposta alle proposte di arruolamento presso le strutture ospedaliere, in sostituzione del proprio MMG che non avevano aderito ad una Cooperativa (oltre il 50% dei MMG lombardi). L’intento esplicito della riforma era di favorire il passaggio dei cronici in carico ai MMG auto-esclusi dalla PiC al CM specialista ospedaliero. 

La risposta dei diretti interessati è stata opposta a quella preventivata: un numero irrisorio di pazienti è stato preso in carico dalle strutture ospedaliere in alternativa al MMG, a dimostrazione di un legame forte tra assistiti e medici del territorio; legame che nel disegno della riforma doveva essere scardinato dall’offerta assistenziale dei CM specialistici, a cui hanno aderito solo il 7% di quel 7% complessivo di lombardi arruolati con il PAI.

Evidentemente la valutazione dell’assistenza sul territorio da parte dei pazienti non era allineata con quella degli estensori della riforma, per un tipico esempio di divaricazione tra percezione della realtà e realtà stessa. Il deludente esito dell’arruolamento dei cronici da parte delle strutture (il 7% circa rispetto al 93% di PiC da parte dei MMG in Coop) ha fatto emergere la discrepanza di giudizio che separa la gente dai decisori pubblici. Gli assistiti hanno evidentemente ritenuto che il proprio MMG fosse il naturale garante di una visione unitaria, continuativa e personalizzata della propria condizione cronica, a fronte del rischio di "spezzettamento" specialistico e di discontinuità relazionale dell'eventuale PiC da parte di un anonimo CM ospedaliero.

In sostanza le caratteristiche organizzative, sociorelazionali, culturali, tecnologiche e professionali dei due contesti, ospedaliero e territoriale, erano ritenute indifferenti dai decisori regionali ai fini della gestione della cronicità. Non sono stati dello stesso avviso i diretti interessati che, posti di fronte all’alternativa tra defezione della MG e passaggio in cura presso il Gestore/CM ospedaliero, hanno optato in massa per il mantenimento dello status quo e della relazione sociale e professionale con il MMG, contro le previsioni e i desiderata della riforma. 

La presunta intercambiabilità dei ruoli tra medici ospedalieri/specialisti e generalisti del territorio nella PiC poggia sulla negazione della specificità assistenziale e delle peculiarità del contesto organizzativo delle cure primarie, cioè sulla scotomizzazione della natura situata della conoscenza, delle competenze, della formazione e dell’assistenza territoriale. Come ha affermato il sociologo francese Michel Crozier "non si cambia la società per decreto".

Conclusioni provvisorie

Gli esiti empirici dei primi dieci anni di riforme della cronicità sembrano dimostrare che
  • non esiste intercambiabilità tra primo e secondo livello nella gestione della cronicità
  • solo il MMG è in grado di attuare la PiC, grazie alla specificità del contesto sociorelazionale e organizzativo territoriale
  • a differenza dei CM ospedalieri, che hanno ricusato tale ruolo per la segmentazione dell'approccio specialistico d'organo.

sabato 9 marzo 2019

Codici Bianchi in PS e ambulatori piemontesi delle "non urgenze"

La gestione dei codici bianchi nelle strutture di emergenza/urgenza è stata affrontata con diverse iniziative regionali nel tentativo di ridurre la “pressione” sui PS. In Sicilia è in atto dall’inizio del decennio un’esperienza di ambulatori per codici bianchi annessi al Pronto soccorso, che prosegue con un discreto successo, mentre nel Lazio una sperimentazione analoga è stata bruscamente interrotta all’inizio del secondo mandato della Giunta Zingaretti.
Ora anche il Piemonte con la firma dell’AIR 2019, sulla scia di queste esperienze, gioca la carta dell’ambulatorio per i codici bianchi;  l’accordo raggiunto con i sindacati della MG si propone di ridurre gli accessi inappropriati e il ricorso all’intervento specialistico, fornendo allo stesso tempo la migliore risposta agli assistiti che si rivolgeranno all“ambulatorio delle non urgenze”; l’ambulatorio, separato fisicamente dai locali del pronto soccorso, propone una sorta di via di mezzo tra il modello siciliano e quello laziale.
I MMG piemontesi prenderanno in carico pazienti già passati dal triage nel vicino PS e classificati come codici bianchi e dopo la visita potranno confermare la non urgenza del caso e fornire anche alcune prestazioni aggiuntive “finalizzate a un minor ricorso all’intervento specialistico”; se la visita del MMG sarà stata sufficiente a risolvere il problema, il paziente sarà invece dimesso e riaffidato al proprio medico curante.
Tuttavia il medico potrà anche modificare il codice di triage, giudicandolo di priorità maggiore e quindi reinviando il paziente al percorso del PS/Dea, che riprenderà in carico il caso valutando la necessità di esami o consulenze urgenti suggeriti dal MMG. Il MMG sarà dotato del ricettario Ssn e delle credenziali per le prescrizioni farmaceutiche “elettroniche” non differibili, ma non potrà prescrivere esami o consulenze non urgenti, che saranno affidate alla discrezionalità del medico curante a cui il paziente si rivolgerà dopo l’accesso. Per prefigurare gli esiti assistenziali e l’impatto di questo accordo conviene rifarsi agli sviluppi delle analoghe iniziative già sperimentate in due regione nell'ultimo lustro, Lazio e Sicilia.

Gli ambulatori dei codici bianchi laziali, apparentemente simili a quelli siciliani, hanno avuto vita breve per uno scarso utilizzo da parte dei cittadini, a differenza di quelli dell’isola che continuano ad offrire prestazioni alla popolazione. Secondo una una sorta di legge ferrea dell’economia sanitaria  l’offerta di prestazioni prima o poi induce la propria domanda, come nella battuta di un professore di radiologia belga: mettete un ecografo nel deserto e dopo qualche mese avrete una lista d'attesa. Il diverso esito degli ambulatori per codici bianchi nelle due regioni sembra dimostrare che non è affatto detto che le cose funzioni sempre in questo modo, visto che nel Lazio non c’è stato il boom di accessi verificatosi invece in Sicilia, decretando in una caso il successo e la conferma dell'iniziativa e nell'altro la sua archiviazione.

La spiegazione dell' "anomalia" è stata spiegata dalla FIMMG Laziale che ha rimarcato le differenze tra i due modelli. Il fatto è che nell’isola il MMG dei “codici bianchi” può prescrivere accertamenti diagnostici da eseguire nell’adiacente Pronto soccorso. In tal caso l’ambulatorio si è rivelato una comoda scorciatoia per accedere alle prestazioni specialistiche da parte degli utenti con problemi pseudo-urgenti, vale a dire aggirando le liste d’attesa, evitando le trafile burocratiche della prenotazione e il pagamento di ticket esosi.

Al contrario nel Lazio i medici di MG non avevano la facoltà prescrittiva dei colleghi siciliani, per cui i cittadini dovevano rivolgersi alle strutture diagnostiche ambulatoriali ordinarie, non avendo la possibilità di recarsi in Ps per una radiografa o una TAC. Senza volerlo è stato approntato tra Roma e Palermo una sorta di esperimento “naturale” e inintenzionale sulle differenze comportamentali degli assistiti. In sostanza il “braccio” laziale fungeva da gruppo di controllo per valutare l’impatto dell’offerta del modello siciliano sulla potenziale domanda.

L’esito è chiaro: in Sicilia il Mmg annesso al Ps viene utilizzato dagli assistiti per accedere alla tecnologia biomedica nel modo più breve ed economico possibile. Il by-pass delle strutture convenzionate, comprensibile in un periodo di crisi economica, reindirizza la domanda di prestazioni verso i Pronto soccorso, di cui pagano però le conseguenze gli operatori di emergenza in termini di sovraccarico per accessi inappropriati. Ecco un’ennesima dimostrazione degli effetti collaterali dell’offerta di prestazioni. La teoria è stata confermata: l’offerta induce la propria domanda specie se è concorrenziale rispetto ad altre modalità di erogazione delle prestazioni, ad esempio presso strutture poliambulatoriali non emergenziali.

Medicina di gruppo: è consentita la presenza del MMG in studi secondari?

Può un medico che aderisce ad una medicina di gruppo gestire anche uno o più studi secondario e, in caso affermativo, quante ore di presenza può dedicarvi rispetto alla sede principale del gruppo stesso? Oppure deve garantire tutto lo standard individuale di 15 ore ambulatoriali settimanali presso la sede del gruppo? 

In proposito l’ACN del 2009, all’art.54 sulla medicina di gruppo, non risolve questo problema in quanto recita testualmente: "La medicina di gruppo si caratterizza per la sede unica del gruppo articolata in più studi medici, ferma restando la possibilità che singoli medici possano operare in altri studi del medesimo ambito territoriale ma in ORARI AGGIUNTIVI A QUELLI PREVISTI, NELLA SEDE PRINCIPALE, PER L'ISTITUTO DELLA MEDICINA DI GRUPPO"

Appare evidente che l’aggettivo "AGGIUNTIVI" non si riferisce allo STANDARD ORARIO INDIVIDUALE di 15 ORE PREVISTO dall'ACN per il singolo medico convenzionato, ma bensì allo STANDARD ORARIO DELLA SEDE DEL GRUPPO stesso (ad esempio 6 ore di presenza dei medici nella sede del gruppo). Partanto, sebbene in modo non esplicito, l’art. 54 ammette indirettamente che un MMG della medicina di gruppo possa legittimamente dedicare un numero di ore dello standard individuale allo studio secondario, mentre non si deduce dal testo che debba riservare tutte le 15 ore ambulatoriali alla sede del gruppo.

In buona sostanza è come se l’ACN dicesse ai medici: il vostro gruppo, ad esempio composto da tre membri, deve garantire nella sede principale almeno 6 ore di apertura al giorno; tuttavia un singolo componente del gruppo stesso ne può riservare altre ad un secondo o terzo studio, che non conteranno per adempiere allo standard orario previsto per il gruppo, ma concorreranno solo allo standard individuale di 15 ore complessive di disponibilità richieste al singolo medico convenzionato.

Ecco due esempi pratici: un MMG potrebbe garantire 2 ore die nella sede del gruppo e 1 ora die in uno studio in altro comune, dove risiedono 500 o più assistiti, come di fatto accade in molte medicine di gruppo. Altro esempio, ancor più emblematico e paradossale, è quello di un collega neoinserito con obbligo di apertura in un paese con carenza assistenziale, che aderisce anche alla medicina di gruppo con sede in un paese limitrofo, ma con un numero inferiore di ore rispetto a quelle che dedica allo studio secondario, dove ha iniziato a lavorare proprio su esplicita imposizione ATS per una mancata copertura delle cure primarie nella zona. In pratica delle due l'una: o assolve all' "obbligo di apertura" dello studio o si aggrega ad una medicina di gruppo.

Il buon senso vuole che in caso di più studi gli orari siano distribuiti in modo proporzionale alla concentrazione geografica degli assistiti, per garantire l'accessibilità e la fruibilità degli studi stessi, come peraltro sottolinea in diversi passaggi l’ACN stesso, al fine di assicurare la continuità delle cure sul territorio (si veda il PS 2). l'ACN stesso all'articolo 35 precisa che l'orario complessivo "può essere frazionato, previo parere del Comitato aziendale, fra tutti gli studi"

Se tale facoltà è espressamente prevista per il singolo medico che esercita in due o più studi individuali è logico che la regola valga anche nel caso in cui uno degli studi sia la sede di un gruppo; nella fattispecie il medici di un gruppo con un secondo ambulatorio diverso dalla sede sono un sotto-insieme o una sotto-categoria dell'insieme dei medici singoli con due o più studi, a cui fa riferimento esplicito l'articolo 35 dell'ACN. Infine alcuni AIR adottano esplicitamente un analogo criterio - come in Veneto e Toscana (si veda il PS 1) - nel prevedere che un numero prevalente di ore dello standard individuale siano riservate alla sede del gruppo (ad esempio 8 su 15) rispetto a quelle dedicate allo studio secondario (cioè 7).

In sostanza il combinato disposto dell'Art. 54 e 35 dell’ACN prevede esplicitamente che il singolo medico possa adempiere in più studi allo standard individuale di 15 ore settimanali, in funzione del numero di assistiti che afferiscono allo studio secondario. Viceversa un medico che esercitasse in due o più studi secondari – evenienza non rara in zone montane o disagiate – dovendo garantire una presenza di 15 ore nella sede del gruppo non potrebbe di fatto mai farvi parte.

Ricordo che nei precedenti ACN lo standard individuale era di un'ora di presenza ambulatoriale ogni 100 assistiti in carico, criterio che si adattava meglio sia all'incremento progressivo delle scelte del singolo medico sia alla distribuzione territoriale degli assistiti (il numero di ore di ambulatorio dovrebbe essere commisurato ai pazienti che gravitano su ogni studio, che sia la sede della medicina di gruppo o uno studio secondario). 

Il problema sta nel fatto che i due standard orari - quello del gruppo e quello individuale - non sono l'uno subordinato all'altro ma normativamente indipendenti e complementari; d'altro canto nessuna norma di ACN stabilisce esplicitamente che lo standard individuale debba essere garantito PER INTERO nella sede del gruppo, potendo essere "spalmato" su due o più studi, in modo razionale, per garantirne accessibilità e fruibilità, come recita esplicitamente l'ACN (PS 2).

Quella sovra esposta pare un’interpretazione ragionevole delle norme ACN - peraltro fatta propria da alcuni AIR - in quanto aderente alle pratiche assistenziali consolidate sul territorio e finalizzata a conciliare standard orario del gruppo e standard individuale del medico, in funzione della collocazione degli studi e della distribuzione geografica degli assistiti. 

P.S. 1. AIR Toscana del 2005 (http://www.fimmgpisa.org/downloads/ACCORDO_REGIONALE_2005.pdf )
”la sede unica del gruppo articolata in più studi medici, ferma restando la possibilità che singoli medici possano operare in altri studi del medesimo ambito territoriale di sceltama in orari aggiuntivi a quelli previsti nella sede principale per l’istituto della medicina di gruppo, con parte maggioritaria dell’orario di ambulatorio riservata alla sede unica (art. 35 comma 14 del Preaccordo regionale) e per 7 ore di apertura al giorno dal lunedì al venerdì"....

ACN articolo 35, comma 14. Nel caso di esercizio dell’attività convenzionata in più studi, l’orario di studio complessivo, come determinato sulla base di quanto disposto dall’articolo 36 del presente Accordo, può essere frazionato, previo parere del Comitato aziendale, fra tutti gli studi, fatta salva la erogazione dell’attività ambulatoriale, nel suo insieme, per almeno 5 giorni la settimana.


P.S. 2.In diversi articoli l’ACN vigente sottolinea l’importanza che il MMG svolga la sua attività professionale con modalità tali da venire incontro ed adattarsi alle necessità e alle esigenze degli assistiti, ottimizzando il rapporto con i pazienti, la fruibilità e accessibilità degli studi, anche tenendo conto delle condizioni geografiche per favorire la continuità dell’assistenza ambulatoriale presso gli studi medici. 

·         Art. 36. Punto 5. L’orario di studio è definito dal medico anche in relazione alle necessità degli assistiti iscritti nel suo elenco e alla esigenza di assicurare una prestazione medica corretta ed efficace e comunque in maniera tale che sia assicurato il migliore funzionamento dell'assistenza.

·         Art. 54. Punto 2. Al fine (a) di facilitare il rapporto tra cittadino e medico di libera scelta (c) realizzare adeguate forme di continuità dell'assistenza e delle cure anche attraverso modalità di integrazione professionale tra medici (d) realizzare forme di maggiore fruibilità e accessibilità, da parte dei cittadini, dei servizi e delle attività dei medici di medicina generale, anche prevedendo la presenza di almeno uno studio nel quale i medici associati svolgono a rotazione attività concordate.


·      Punto 4. (j). gli orari dei singoli studi devono essere coordinati tra di loro in modo da garantire complessivamente una disponibilità all’accesso per un arco di almeno 6 ore giornaliere, distribuite equamente nel mattino e nel pomeriggio, secondo un congruo orario determinato dai medici in rapporto alle esigenze della popolazione assistita e alla effettiva accessibilità degli studi, anche tenendo conto delle condizioni geografiche.... 

venerdì 22 febbraio 2019

Presa in carico della cronicità in Lombardia: bilancio del primo anno

Due anni fa, il 31 gennaio 2017, veniva pubblicata la prima delibera sulla PiC in Lombardia, primo modello di traduzione pratica dei principi generale del Piano Nazionale della Cronicità, licenziato a settembre 2016. Doveva però passare ancora anno, contrappuntato da altre 3 delibere, perché prendesse il via nella primavera del 2018 il programma di effettiva PiC della cronicità. Con questi concreti risultati, riferiti ad una popolazione di 3.057.519 cronici su 10 milioni di cittadini lombardi.


N. di attivazioni “telefoniche” 
della PiC
N. di PAI redatti (in % rispetto alle lettere inviate)*
% di attivazioni del percorso di PiC su 3057519 di lettere**
Al 5/6/2018
257.998
140.724 (4,6%)
8,4%
Al 29/10/2018
293.697
183.307 (6,0%)
9,6%
Al 31/12/2018
310.000
215.000 (7,1%)
10,1%
*L'iter della PiC prevede tre tappe: inizia con la manifestazione di interesse telefonico da parte dell'assistito, prosegue con la sottoscrizione formale del Patto di cura con il Gestore e si conclude con la redazione del PAI, a cura del Clinical Manager.
**L'80% circa delle manifestazioni di interesse arriva al termine del percorso di PiC.

Ecco le percentuali di PAI sottoscritti in alcune provincie/ATS:
  • Milano 4,06%
  • Brescia 6,74%
  • Cremona  8,10%
  • Insubria 11,36%
Rispetto alle 310 mila attivazioni del percorso di PiC 245.829 sono stati i pazienti arruolati con il Patto di cura dai medici di MG. Su 215.000 PAI (Piano Assistenziale Individuale) compilati al 31 dicembre 2018 201.266 sono stati attivati dai MMG, vale a dire oltre il 93% di tutti i PAI, (al 29 ottobre erano 174.587 sul totale 183.307) mentre solo 14.000 circa sono stati redatti dai Clinical Manager di strutture pubbliche o private. Oltre l’80% delle attivazioni della PiC - ovvero le telefonate effettuate dai pazienti per fissare il primo colloquio dopo il recapito delle oltre 3 milioni di lettere - sono avvenute nei primi 4 mesi di avvio della riforma dopo l'invio di oltre 3 milioni di lettere.

I circa 2600 MMG lombardi partecipanti alla PiC - come gestori o co-gestori, su 6300 generalisti in attività - hanno compilato in media un'ottantina di PAI rispetto ai circa 500 potenziali cronici seguiti da un massimalista. Nei primi mesi del 2019 potranno essere arruolati altri assistiti anche se l'operazione non sarà agevole per l'impegno richiesto dal rinnovo dei Patti di cura e dei PAI già in essere nel 2018.

Nei 10 mesi di arruolamento sono stati “attivate” telefonicamente 1000 PiC al giorno e sottoscritti circa 700 PAI, vale a dire solo 1/3 di quelli preventivati.  Più ottimistiche erano le previsioni dell'Assessore al 30 ottobre 2018: "Cresce anche il numero dei PAI sottoscritti con un incremento di oltre il 30%. Gli MMG/PLS che hanno aderito sono circa il 50% a livello regionale” e grazie al loro supporto “contiamo di arrivare a 500.000 pazienti presi in carico entro la fine del 2018". 

Nella seconda metà del 2018, visti gli esiti non eclatanti dell’arruolamento dei pazienti cronici, si rendeva necessario un generoso restyling della PiC, che si concretizzava nell’accordo tra Assessorato e Federazione Regionale degli ordini, recepito nelle regole di sistema del 2019. Per il biennio 2019-2020 anche ammettendo che l'arruolamento continui con il ritmo del 2018, anno di lancio mediatico e pubblicitario della riforma, si può ipotizzare di coinvolgere un 20-25% dei cronici lombardi.

CRONACA DELL’EVOLUZIONE DELLA PIC

Complessivamente nel biennio 2017-2018 sono state approvate ben 7 Delibere, per oltre 200 pagine di istruzioni e indicazioni operative sulla gestione della riforma. Un imponente apparato in cui non è stato facile districarsi per tradurre le parole in atti e pratiche sul campo. Vediamo schematicamente qual è stato il percorso attuativo della PiC nel biennio 2017-2018, nel senso del suo impatto e del necessario adattamento per tentativi ed errori rispetto alla realtà di fatto.

L’evoluzione della normativa è stata significativa, tant’è che rispetto alla prima Delibera del gennaio 2017 l’ultima versione della PiC, datata fine 2018, è quasi irriconoscibile. Il principio ispiratore della PiC prima versione era quello che ha guidato nell’ultimo ventennio la politica sanitaria lombarda: vale a dire il principio del quasi mercato sanitario interno, basato sulla separazione tra erogatori in concorrenza tra loro ed ente pubblico regolatore ed acquirente. Su queste basi la cronicità veniva “esternalizzata” ed appaltata ai cosiddetti Gestori, sia pubblici che privati, in competizione per offrire ai cronici i migliori servizi.

Tutti potevano candidarsi al ruolo di Gestori della cronicità, dalle AO pubbliche alla variegata platea di Enti privati no-profit o for-profit, con l’eccezione delle ATS che deve svolgere i compiti “super partes” di regolatore, supervisore, programmatore e controllore dell’intero processo organizzativo e amministrativo. Nella prima Delibera il ruolo della MMG restava in ombra e relegato in una sorta di limbo indefinito rispetto ai Gestori organizzativi.

Solo con le successive delibere del 2017 si apriva la possibilità anche per i generalisti di aderire alla PiC ma solo per il tramite delle Cooperative di MMG che, sul modello dei CReG di inizio 2010, si dovevano costituire per candidarsi ad assumere il ruolo formale di Gestore, al pari degli altri soggetti organizzativi (unica eccezione erano i MMG co-gestori, aggregati ad un Gestore organizzativo diverso dalle Coop di MMG).

La seconda metà del 2017 era dedicata alla “messa a bolla” di tutto il complesso apparato amministrativo (accreditamento dei Gestori, degli Erogatori di prestazioni, costituzione delle Coop e adesione dei MMG alle stesse etc…) che a partire dalla primavera del 2018 inaugurava la stagione della PiC dei pazienti cronici, concretizzata nella compilazione del PAI da parte del Clinical Manager (CM) e nella sottoscrizione del Patto di Cura da parte del cittadino aderente alla PiC.

Proprio questa inedita figura professionale faceva emergere la principale criticità della riforma, a parte la gestione dell’infrastruttura informatica non certo all’altezza delle aspettative; nel senso che il CM del Gestore organizzativo si proponeva come sostituto del MMG nella gestione delle varie patologie, con inevitabile emarginazione della MG dall’assistenza ai cronici.

L’implicita marginalizzazione della MG era il nodo problematico che rendeva conto delle scarse adesioni alla PiC nel primo semestre 2018, con arruolamenti inferiori al 5% dei potenziali interessati, per oltre il 90% effettuati dalle Coop di MMG, a fronte della sostanziale insignificanza dei Gestori organizzativi, specie quei privati che dovevano nelle intenzioni entrare in modo concorrenziale nel “quasi mercato” regionale della cronicità (in alternativa al MMG-Gestore in Coop).

Da questo esito inatteso e controintuitivo derivava la sostanziale retromarcia, nella seconda metà del 2018, con l’apertura dei “tavoli” di trattativa tra regione e ordini dei medici che si concretizzava nella delibera, datata 5 novembre 2018, di recepimento dell’Intesa raggiunta e poi inserita formalmente nelle regole del 2019. Con l’intesa Ordini-Assessorato si concludeva la parabola rifomista della PiC, all’insegna del recupero del ruolo del MMG, prima ignorato e marginalizzato, poi ripescato in extremis all’interno delle Coop ed infine ammesso a pieno titolo alla PiC anche come Clinical Manager in forma singola. Una metamorfosi, portata avanti per tentativi ed errori, dettati dall’esito non certo trionfale dell’arruolamento dei cronici nel corso del 2018.

domenica 17 febbraio 2019

Anche la Regione Toscana ha approvato il Piano per la Presa in Carico della cronicità

GESTIRE LA CRONICITÀ

La cronicità e la salute al nostro tempo: il Sistema Sociosanitario Pubblico si ridisegna, la comunità si organizza e il cittadino si rafforza

La cronicità è ormai la nuova sfida per i sistemi sanitari. Le malattie croniche sono causa di mortalità prematura e di disabilità evitabile, rappresentano il principale problema di salute pubblica nei paesi occidentali e minacciano la sostenibilità dei sistemi di welfare. Il sistema sociosanitario deve affrontare la cronicità superando approcci settoriali, adottando adeguati modelli di prevenzione e cura, attuando politiche integrate coi settori sociali, educativi, della formazione, dell’ambiente e dell’industria. L’esperienza toscana già oggi offre più di un esempio in tal senso, con risposte efficaci nella sfida alle malattie croniche.

In sintonia con il Piano Nazionale Cronicità (Ministero della Salute 2016) il PSSIR della Toscana individua quattro aree strategiche di intervento:
stratificazione e targeting della popolazione
promozione della salute, prevenzione e diagnosi precoce
presa in carico e gestione del paziente (definizione dei PDTAS)
erogazione di interventi personalizzati
valutazione della qualità delle cure erogate.

Stratificazione e targeting della popolazione

Non si può parlare di una cronicità ma di tante cronicità: la defnizione OMS di malattia cronica (“problemi di salute che richiedono un trattamento continuo durante un periodo di tempo da anni a decadi”) delinea una grande categoria in cui entrano condizioni molto diverse.

La cronicità comprende un ampio spettro di condizioni patologiche. Alcuni fattori che descrivono questo panorama variegato di patologie sono:
prevalenza: vi sono condizioni ad alta o altissima prevalenza (vedi: diabete tipo 2 e ipertensione) e condizioni a bassa prevalenza o rare (vedi: SM, SLA, Lupus eritematoso sistemico, ecc.);
insorgenza: alcune condizioni hanno un’insorgenza improvvisa (es: diabete tipo 1), mentre in altri casi si ha uno sviluppo lento e una lunga latenza (es. diabete tipo 2, ipertensione, ecc.);
sintomatologia: vi sono condizioni che comportano dolore, impotenza funzionale, astenia e in generale sintomatologia importante (es: artriti, malattie infiammatorie intestinali, asma), mentre in altre i sintomi possono essere anche meno rilevanti (es: insufficienza renale cronica, diabete tipo 2, ipertensione);
controllabilità: alcune condizioni croniche, come la demenza ad esempio, non sono al momento controllabili con una terapia specifica, mentre altre (es: SM, Parkinson, diabete) trovano presidi terapeutici in grado di controllarne il decorso;
evoluzione verso la disabilità: c’è una relazione tra condizioni croniche e disabilità: mentre le persone con disabilità hanno con più probabilità condizioni croniche, le persone con condizioni croniche possono sviluppare nel tempo limitazioni al funzionamento ed alla partecipazione, in modo variabile a seconda della o delle condizioni presenti e della loro evoluzione nel tempo.
Per la loro lunga durata le condizioni croniche hanno un’evoluzione nel tempo e una variabilità legata a fattori individuali, sociali e contestuali.

Un sistema evoluto di gestione delle condizioni croniche necessita sia di standardizzare sia di personalizzare l’offerta di servizi e richiede quindi di
riconoscere e valutare le persone che hanno livelli o fasce di complessità e rischio progressivamente crescenti (STRATIFICAZIONE);
garantire un’offerta proattiva e continua nel tempo degli interventi adeguati ai bisogni di ogni sottogruppo di pazienti (TARGETING). L’offerta attiva richiede la creazione di un elenco o registro di patologia.

Il modello consolidato utilizzato per la stratifcazione (Piramide di Kaiser) punta a individuare:
i pazienti con rischi più bassi verso i quali mettere in atto azioni di prevenzione primaria e secondaria;
quelli affetti da patologia conclamata ma di complessità medio bassa, verso i quali intervenire con approccio Chronic Disease Management;
i malati più complessi, che hanno bisogno di una presa in carico clinica e sociosanitaria, tipica dell’approccio Chronic Case Management.
Questa schematizzazione, pur avendo un valore sia concettuale sia operativo, non è però sufficiente a rispondere alla complessità dei pazienti con condizioni croniche spesso coesistono nella stessa persona.

La compresenza di più patologie porta alla necessità di riadattare i criteri di stratifcazione, passando da quelli solo clinici a quelli funzionali e di rischio aggregato e oggi più della metà della popolazione con patologie ha più di una malattia cronica (il 52% - ISTAT 2015).
Le malattie croniche a maggiore prevalenza, in particolare quelle cardiovascolari, il diabete mellito, le malattie respiratorie croniche hanno alcuni fattori di rischio comuni e modifcabili con interventi preventivi (stili di vita), altri fattori di rischio cosiddetti “ intermedi” (dislipedemia); inoltre livello d’istruzione, condizioni ambientali e assetto urbanistico, condizione occupazionale, professione svolta, reddito medio familiare e stati di deprivazione, influenzano i fattori di rischio citati. Riuscire ad intervenire sui fattori di rischio comuni, ma anche sui determinanti distali consente un'efficace prevenzione delle condizioni croniche e della loro evoluzione.

I programmi di promozione della salute e di prevenzione delle patologie richiedono tre tipi di azioni:
1. Epidemiologia e sorveglianza: per guidare e orientare le priorità, nonché implementare e monitorare gli interventi più efcaci di prevenzione a livello di popolazione;
2. Azioni su ambiente, tessuto sociale e comunità di cittadini: per favorire le abitudini positive e per individuare le risorse accessibili per l’adozione di comportamenti sani;
3. Azioni sui singoli individui: per identificare precocemente coloro che hanno un rischio aumentato di malattia e intraprendere iniziative di counselling motivazionale individuale o di gruppo.
Le evidenze derivanti dai sistemi di sorveglianza dovranno essere recepite e utilizzate non solo in ambito sanitario e sociale, ma anche dalle amministrazioni comunali, dalle istituzioni scolastiche ed educative, dalle associazioni dei pazienti e dal terzo settore e diventare un patrimonio delle comunità.

Presa in carico e gestione del paziente:
interventi sull’organizzazione
PRINCIPI DA GARANTIRE

tempestività: per assicurare l’ingresso precoce in un percorso diagnostico terapeutico assistenziale e sociale (PDTAS);
coordinamento e continuità: perché le persone possano essere seguite senza soluzioni di continuità né difcoltà d’accesso nelle diverse fasi della malattia nei tre classici livelli assistenziali, assistenza primaria, specialistica territoriale, degenza ospedaliera che devono coordinarsi
globalità e multidimensionalità: perché le sole misure cliniche oggettive non sono adeguate a comprendere le malattie croniche e come trattarle.
flessibilità: perché le condizioni croniche evolvono nel tempo e determinano nuovi e differenti bisogni ed interventi. I PDTAS non possono essere format rigidi con un’offerta invariante;
facilitazione: perché è richiesto un impegno gravoso per tutti, pazienti e caregiver, nella vita quotidiana e non si può appesantirlo con adempimenti burocratici e accessi superflui;
appropriatezza: perché è vitale valorizzare percorsi di cura precisi e puntuali e in grado di sfruttare tutte le risorse disponibili nell’ambiente di vita della persona e nella sua comunità;
autodeterminazione: perché chi è malato ha il diritto di essere informato e consapevole e il dovere di essere corresponsabile degli impegni che il sistema si assume per curarlo.

MAPPATURA E GEOREFERENZIAZIONE DEI SERVIZI

Come azione preliminare per una migliore presa in carico ed a supporto ella partecipazione del cittadino ad ogni azione di riorganizzazione occorre procedere a una puntuale mappatura sul territorio (georeferenziazione) delle varie tipologie di servizio sia istituzionale che gestito dal terzo settore o da altre soggettività informali, con l’obiettivo di potere prima di tutto conoscere la coerenza e la praticabilità dei livelli attuali di offerta con i bisogni dei pazienti cronici.
Rendere immediatamente visibile e fruibile la mappatura dei singoli servizi sul territorio ai case manager che si trovino ad organizzare l’assistenza ai pazienti cronici secondo gli standard defniti nei PDTAS in un qualsiasi punto del territorio regionale diventi nrequisito minimo di funzionamento della rete.

REALIZZAZIONE DELL’INTEGRAZIONE MULTIPROFESSIONALE

Ovunque, nell’ambito di sistemi a copertura universale e orientati alle comunità, è stato dimostrato che una buona organizzazione delle cure primarie migliora i risultati di salute ed è più efficiente.
L’incremento della cronicità, della disabilità e lo sviluppo di bisogni complessi rinnova il ruolo dei medici di medicina generale (MMG) e richiede uno sviluppo del lavoro in team.
Un sistema di cure che può usufruire del buon funzionamento di forme organizzate di cure primarie, come in questa regione le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) degli MMG, garantisce soddisfacenti risultati clinici e relazioni di cura, anche a lungo termine, tra i pazienti e i curanti, in un contesto capace di considerare le preferenze delle persone e i loro bisogni combinati, biomedici, psicologici e sociali.

Per abbattere barriere ancora significative tra l’organizzazione assistenziale ospedaliera e territoriale, la soluzione non è la riallocazione della casistica da una parte all’altra del sistema ma la riarticolazione dell’offerta utilizzando criteri di stratificazione dei pazienti e mirando alle loro differenti condizioni e ad un continuum di cure orientate ai bisogni individuali. Se è evidente che la gestione della cronicità esclusivamente nell’ambito di strutture specialistiche ospedaliere come è né appropriata né sostenibile, è chiaro anche come essa non possa neanche essere una competenza esclusiva dell’assistenza territoriale.

Ne consegue che il livello specialistico e quello del setting ambulatoriale ospedaliero dovranno partecipare, sulla base delle differenti fasi di evoluzione delle specifiche malattie, a percorsi di presa in carico come i PDTAS e integrarsi nella rete clinica territoriale.

PDTAS: Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali Sociali

L’articolazione e integrazione delle prestazioni e degli interventi dovrà esplicitarsi nei percorsi terapeutico assistenziali sociali, in cui il contributo di ogni segmento e attore del percorso sarà facilitato dal miglioramento del supporto fornito dagli strumenti informativi e da sistemi intelligenti per le decisioni cliniche. L’impegno futuro mira a mettere a punto percorsi diagnostico-terapeutici-riabilitativi il più possibile individualizzati, con buon rapporto costo/efcacia, che consentono l’empowerment del paziente e della sua famiglia e una continuità nella collaborazione tra i molteplici provider coinvolti. I PDTAS saranno anche il riferimento per il principale strumento di lavoro oggi impiegato dai team multi professionali: i Piani Assistenziali Individuali (PAI).
L’aspetto clinico, necessario per un adeguata valutazione del paziente, dovrà essere arricchito e completato con quello relazionale e comunicativo, per capire la singolarità della persona malata e con quello economico-gestionale, per sviluppare l'efcienza e la sostenibilità dei migliori risultati.

INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA

L’impatto combinato di più condizioni croniche è la causa della progressiva perdita di indipendenza, dell’evoluzione verso la disabilità e dell’incremento del bisogno di supporto sociale. E’ ragionevole prevedere che la domanda di servizi sociali e sociosanitari sia destinata a crescere per l’aumento di bisogni e per loro natura complessa. Proprio in funzione di tale caratteristica, la complessità, la risposta non può essere affdata solo al SSR. Le necessità di riabilitazione e di supporto sociale, nonché l’integrazione nella comunità locali, possono diventare più determinanti ai fni del risultato che non la sola accessibilità alle cure mediche. Un intervento sociale precoce migliora l’esperienza di cura del soggetto, può evitarne l’ospedalizzazione o comunque ritardarne il ricorso. È quindi vitale la sinergia e l’integrazione operativa tra sociale e sanitario che si attua con i PDTAS, laddove la S evidenzia il loro forte coordinamento. Per farlo è necessario potenziare l’assistenza sul territorio, promuovendo il benessere delle persone con problemi di cronicità con l’impiego di modelli di welfare di comunità.

Il welfare di comunità significa disporre di una rete di supporto sociale che integra e sostiene da un lato la rete familiare sempre più debole e dall’altro la rete dei servizi per creare nella società civile percorsi di auto-organizzazione e di autodeterminazione fondati sui valori della solidarietà e della coesione sociale.
Le Case della Salute in quanto espressione di un modello integrato e multidisciplinare di intervento rappresentano un driver fondamentale dell’integrazione sociale e sanitaria, promuovono la medicina di iniziativa e la prevenzione sociale e sanitaria, valorizzano il ruolo dei MMG, dei PLS e delle professioni sanitarie e sociali, sollecitano un ruolo proattivo dell’utenza e della società civile. Le Case della Salute si pongono come un punto di riferimento rivolto ai cittadini per l’accesso alle cure primarie, un luogo in cui si concretizza l’accoglienza e l’orientamento ai servizi, la continuità dell’assistenza, di integrazione con i servizi sociali per il completamento dei principali percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali. Nel corso di vigenza del Piano lo sviluppo delle Case della Salute e dei modelli organizzativi e culturali che le caratterizzano dovrà trovare diffusione e presenza in tutto il territorio regionale.

I VANTAGGI DELLA TECNOLOGIA NELLE CURE CONTINUATIVE: LA TELEMEDICINA

L’uso delle innovazioni tecnologiche nella gestione dei pazienti è un opportunità per migliorare l’efcienza e la sostenibilità della continuità di cura.  La Telemedicina può essere di supporto nelle diverse fasi della malattia:
prevenzione: attraverso servizi che aiutano mantenere adeguati stili di vita oppure a monitorare parametri vitali importanti per ridurre il rischio di insorgenza di complicazioni;
diagnosi: favorendo la circolazione delle informazioni diagnostiche tra i diversi operatori sanitari;
cura e riabilitazione: con la trasmissione di dati relativi ai parametri vitali tra il paziente (a casa, in farmacia, in strutture assistenziali) e una postazione di monitoraggio, per la loro interpretazione e l’adozione delle scelte terapeutiche necessarie (ad esempio, i servizi di Teledialisi).

La telemedicina è uno strumento per promuovere l'equità di accesso all’assistenza sanitaria nelle zone remote, favorire la continuità delle cure, sostenere la qualità della vita di pazienti cronici attraverso soluzioni di auto-gestione e monitoraggio remoto, rendere facilmente fruibile la comunicazione fra i diversi attori.

LE CURE DI FINE VITA E LA DOMICILIARITÀ

Sappiamo anche che la maggioranza delle persone desidererebbero morire a casa. Si muore ancora troppo in ospedale, la presa in carico da parte dei servizi palliativi domiciliari e il ricorso all’hospice ha ancora livelli di risposta non adeguati al bisogno e troppo spesso intervengono solo in fase terminale.
L’assistenza alle persone in fine vita deve essere basata sulle evidenze e personalizzata sulle preferenze e necessità del paziente al fine di creare piani assistenziali individualizzata che tengano in considerazione gli obiettivi riconosciuti come prioritari dal malato e la sua famiglia, la migliore qualità di vita possibile, anche attraverso un adeguato controllo dei sintomi, un aumentata consapevolezza rispetto alla situazione per favorire i processi di adattamento alla situazione clinica e un supporto nelle decisioni relative alle scelte
terapeutiche-assistenziali nelle fasi avanzate di malattia e alla fne della vita, come previsto dalla L 219/17 in materia di i consenso informato, di disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione condivisa delle cure.

Erogazione di interventi personalizzati

Negli ultimi anni si è spesso abusato del principio che l’assistenza deve essere centrata sul paziente, senza che fosse davvero messo in pratica. Anche quando questo approccio si è concretizzato, spesso è stato concepito in modo superficiale. La gestione delle condizioni croniche insegna due lezioni fondamentali:
ci si deve basare sull’esperienza e sulla prospettiva del paziente per la defnizione dei suoi problemi clinici così come per giudicare l’efficacia del successivo intervento;
scopo primario dell’assistenza è aumentare la capacità dei paziente di curarsi anche autonomamente.
L’assistenza al paziente con malattie croniche centrata sulla persona richiede che il processo decisionale clinico si concentri sulle priorità del singolo assistito e sui suoi bisogni psico-sociali.

Personalizzare gli interventi per gli operatori sanitari significa cambiare l’equilibrio di potere insito nella relazione di cura, co-produrre salute e benessere in modo collaborativo con individui, famiglie e comunità.
Oltre alla competenze tecniche è necessaria la capacità nella “comunicazione/relazione”, uno degli strumenti più importanti dell’assistenza sanitaria. Per sostenere la capacità di auto-cura delle persone la gestione della malattia va contestualizzata nella vita di tutti i giorni e le sue eventuali preoccupazioni. La relazione tra la persona e il team di assistenza si sostanzia nel Patto di cura, che è la traduzione concreta degli impegni che le due parti reciprocamente assumono:
il sistema sociosanitario, con gli interventi definiti dal PDTAS e tradotti in un piano individuale per la persona;
la singola persona, con l’adesione al piano e ai suoi impegni nei confronti della propria salute.


E’ un cambiamento culturale, oltre che tecnico, che deve permeare tutto il sistema ed essere sostenuto da una formazione capillare, adeguata ed efficace rivolta a tutti e con particolare impegno agli infermieri, che sono il punto di contatto principale tra i cittadini e il sistema di cura delle malattie croniche.

Valutazione della qualità delle cure erogate

I sistemi informativi integrati permettono anche una puntuale valutazione della qualità delle cure
erogate. Relativamente a questo aspetto il Piano Nazionale Cronicità sollecita la revisione del paradigma di fondo relativo al concetto di “esito” concettualmente legato ad una visione della medicina caratterizzata da eventi piuttosto che da percorsi. come era quella tipica del secolo scorso.

Si propone oggi di considerare gli esiti come un “insieme di risultati intermedi” e non solo finali, non solo clinici ma anche connessi alla disabilità e alla qualità di vita. Tra gli esiti, sempre maggiore considerazione ricevono quelli direttamente riportati dai pazienti, sia che riguardino aspetti tangibili delle cure sia che abbiano a che vedere con l’esperienza che ogni singolo paziente sperimenta. Ciò è realizzabile introducendo tecniche e strumenti efficienti per misurare:
il benessere auto percepito dal paziente;
la qualità della vita;
l’impatto della condizione cronica sulla vita quotidiana;
la pratica dell’ “auto-cura”