venerdì 3 ottobre 2025

I modelli esplicativi dell'antropologia medica

  Estratto dalla GUIDA AL PIANO NAZIONALE DELLA CRONICITA’

Dai fattori di rischio alle polipatologie croniche, una sfida organizzativa, educativa e culturale per l’assistenza primaria 

Disponibile su Amazon in formato cartaceo ed e-book, pag, 198

La dimensione antropologica: una nuova prospettiva sulla diversità dei modelli esplicativi

 L’antropologia medica con il concetto di modello esplicativo (ME) propone una chiave di lettura utile anche per la cronicità. Prima però conviene introdurre una definizione di cultura spendibile nel contesto sanitario per favorire una competenza professionale anche in questo settore, che non si riduca all’incontro con culture “esotiche”, di cui sono portatori le popolazioni immigrate. 

Con il termine cultura non si deve intendere solo la produzione di opere letterarie, poetiche, saggistiche, filosofiche, scientifiche, musicali, artistiche di carattere accademico “alto”.

 La cultura può riguardare tanto ciò che diamo per scontato e non sottoponiamo a giudizio critico – cioè che presumiamo sia universale – quanto ciò che comprendiamo della diversità sociale. Pertanto proponiamo la seguente definizione di cultura: l’insieme delle conoscenze condivise, implicite ed esplicite, che vanno a costituire convenzioni e pratiche, ma anche le idee, i simboli e gli artefatti concreti che sostengono tali convenzioni e pratiche, rendendole significative.[1]


 Secondo l’antropologo americano Arthur Kleinman i ME in campo medico-sanitario indicano

 l’insieme delle nozioni impiegate dai vari soggetti coinvolti nel processo terapeutico per riscostruire le cause e il significato di un episodio di malattia ed elaborare il sapere utile per una possibile azione terapeutica.[2]

 In medicina si verifica l’incontro/scontro tra ME, reso nella lingua inglese dai tre termini che designano e connotano altrettante dimensioni della malattia:

  •     disease, ovvero la descrizione oggettiva della patologia secondo i canoni del pensiero medico che definisce ed interpreta i fenomeni secondo le categorie ezio-fisio-patologiche d’organo e di apparato, da indagare con adeguati strumenti diagnostici e correggere con la terapia appropriata;
  •          illness, vale a dire la componente soggettiva dell’esperienza di malattia, fatta di conoscenze informali e personali, basate su percezioni corporee, sintomi, disturbi, dolore fisico con il correlato vissuto di preoccupazione e condivisione nella dimensione familiare;
  •        sickness, indica i risvolti sociali e relazionali della condizione patologica, nel senso del processo di socializzazione della malattia e del significato dell’esperienza individuale mediata dalle relazioni sociali e dal contesto culturale in cui è “immerso” il paziente.

 L’influenza della cultura è data per scontata per il suo carattere implicito e tacito, che oltrepassa la riflessione critica e l’auto-percezione cosciente, con un effetto di sfondo inversamente proporzionale alla nostra consapevolezza.

 È raro che le persone considerino i loro punti di vista morali come relativi, e la consapevolezza di quanto culturalmente connotati siano i loro valori si manifesta solo quando tali valori sono divergenti o in conflitto rispetto ad altri valori[3].

Tant’è che gli antropologi, a proposito della difficoltà di riconoscere la cultura in cui si è immersi, parlano di “paradosso antropologico”.

Da un lato, crediamo che nessuno ci conosca meglio di noi stessi. Dall’altro, ci rendiamo conto che la cosa più difficile da arrivare a conoscere è la nostra cultura, ossia riuscire a giudicare criticamente e obiettivamente la natura soggettiva delle nostre pratiche. Questa difficoltà dà ragione del perché la cultura, per molti, rimanga un concetto vago[4].

 La cultura può riguardare sia ciò che diamo per scontato e non sottoponiamo a giudizio critico – in quanto riteniamo universale e “naturale” – sia la diversità antropologica che emerge dal confronto con culture “altre”; a partire da questa premessa secondo Kleinman

 l’esperienza di malattia [illness] è il modo in cui il malato, la sua famiglia e la rete sociale percepiscono, definiscono, spiegano, valutano la patologia [disease] e vi reagiscono.[5]

 Il procedimento clinico, diagnostico e le decisioni terapeutiche dei medici fanno riferimento agli schemi esplicativi delle scienze biomediche (disease) mentre bisogni, idee, attese e valutazioni del paziente sono influenzate dall’illness e dalla sickness, pur senza contrapposizione tra le tre sfere ma in una cornice di interazione dialettica. Per un altro antropologo della medicina

 le relazioni sociali di malattia nella società occidentale assumono un aspetto per cui la stessa sickness porta a differenti illness [esperienza di malattia] e a differenti cure a seconda della particolare posizione economica e sociale del malato.[6]

 Kleinman[7] introduce il concetto di “guarigione culturale” inteso come 

 “il risultato di spiegazioni adeguate della malattia e della cura, e di analisi appropriate delle tensioni sociali e dei principi culturali ad esse connesse“, in base ad “un accordo tra aspettative, credenze, comportamento e valutazioni sul risultato”.

 Al contrario i conflitti circa l’interpretazione del vissuto e la valutazione del risultato terapeutico

 “si moltiplicano col crescere della differenziazione (specializzazione delle conoscenze e del ruolo sociale)” e “creano sistematicamente problemi per le cure cliniche”.

Nella pratica la competenza culturale si concretizza nel colloquio anamnestico focalizzato sui ME spesso taciti, sulle percezioni di malessere e sull’idea di benessere, sia dei pazienti sia di chi fornisce assistenza, per colmare le eventuali distanze culturali come primo passo al fine di stabilire un terreno comune, non solo con i pazienti provenienti da altri contesti antropologici ma anche con gli “autoctoni”.

 La competenza sociale è importante anche quando i pazienti e i loro dottori condividono tacitamente le conoscenze: quando medici e pazienti condividono un linguaggio comune per la descrizione del malessere e della malattia, i pazienti possono finire per avere una più scarsa comprensione dei loro disturbi, perché gli attori possono dare erroneamente per scontato di essersi intesi[8].

Nel dialogo anamnestico quotidiano la competenza culturale viene arricchita della dimensione narrativa della relazione e dell’analisi dei ME, intesa come

 lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura[9].

 La componente soggettiva non attiene solo al vissuto di malattia ma ha analogo rilievo nella valutazione dello stato di salute che, a seguito della definizione dell’OMS del 1948, è evoluta da un modello in negativo (salute come assenza di malattia) ad una concezione positiva (salute come stato di completo benessere psichico, fisico e sociale). 

La competenza culturale[10]

 L’approccio incentrato sull’analisi dei modelli esplicativi è stato ampiamente riconosciuto come significativo e adottato come cornice per una pratica culturalmente   competente, che suggerisce agli attori dell’assistenza di porre i seguenti quesiti:

  • Che nome dà al suo problema?
  • Quale ritiene sia la sua causa?
  • Quale decorso pensa che avrà il suo problema? Quanto pensa sia grave?
  • Cosa pensa che tale problema provochi all’interno del suo corpo?
  • Che effetto pensa che esso possa avere sul suo corpo e la sua mente?
  • Cosa la preoccupa maggiormente in relazione al suo problema?
  • Cosa la preoccupa maggiormente in relazione alla terapia?

 La salute così definita ha un carattere culturale, in termini di costruzione sociale di significato e di valori. Inoltre l’aver fissato come punto di riferimento ideale la salute positiva, intesa come benessere totale, ha avuto ricadute sulla percezione e valutazione delle condizioni psicofisiche e di conseguenza sulle aspettative di efficacia verso la medicina, i medici e il sistema sanitario formale.

Il disallineamento dei modelli esplicativi è il nodo problematico di matrice culturale[14] che caratterizza la cronicità e spiega le difficoltà che incontrano medici e pazienti nel percorso di cura, in particolare per due problemi: le attese di efficacia dei pazienti che fanno riferimento al modello della malattia acuta e la compliance alle terapie e alle indicazioni comportamentali. 

La discrasia tra ME “profani” e quelli elaborati dal sapere medico ufficiale risulta evidente quando ci si confronta con concezioni culturali “altre”, come quelle delle popolazioni migranti che approdano in Europa con il proprio bagaglio di presupposti culturali impliciti su salute/malattia - come la concezione animistica, religiosa, magica o popolare – che si contamina con la cultura locale e il modello biomedico[15]; viceversa quando si incontrano medico e assistito accomunati dalla stessa cultura la dissonanza resta tacita e sotto traccia, ma può essere rilevante. Come sottolinea Kleinman

 alcuni ostacoli all’efficacia terapeutica, come le principali discrepanze tra obiettivi terapeutici dei medici e dei pazienti sono legati a meccanismi di funzionamento dei sistemi culturali.[16]


  • [1] AAVV, The Lancet Commissions: cultura e salute (versione italiana). Edizione originale: “Culture and Health” (The Lancet Commissions). The Lancet. Volume 384, November 1, 2014: 1607-1639.
  • [2]Kleinman in Quaranta  I. (a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005
  • [3] AAVV, The Lancet Commissions: cultura e salute (versione italiana) p. 4. Edizione originale: “Culture and Health”. The Lancet. Volume 384, November 1, 2014: 1607-1639.
  •  [4] AAVV, The Lancet Commissions: cultura e salute (versione italiana) p. 4. Edizione originale: “Culture and Health”. The Lancet. Volume 384, November 1, 2014: 1607-1639.
  • [5] Kleinman in Quaranta I. (a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005 , p.15
  • [6] Young in Quaranta I. (a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p.125.
  • [7] Kleinman in Quaranta I. (a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p. 12-13.
  • [8] AAVV, The Lancet Commissions: cultura e salute (versione italiana), pag. 9. (Edizione originale: The Lancet. Volume 384, November 1, 2014).
  • [9] Istituto Superiore di Sanità (2014) Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico assistenziale; consultabile al sito: https://www.medicinanarrativa.network/wp-content/uploads/2021/03/Quaderno_n._7_02_CONSENSUS-CONF-FINALE_compressed.pdf
  • [10] AAVV, The Lancet Commissions: cultura e salute (versione italiana), pag. 9. (Edizione originale: The Lancet. Volume 384, November 1, 2014: 1607-1639).
  • [11]  Corbellini G. (2014) Storia e teorie della salute e della malattia, Carocci Editore, Roma, p. 195
  • [12] Astori P. e coll (2003) Vorrei fare tutti gli esami, Ricerca & Pratica, n.114/2003
  • [13] Shorter E. (1986) La tormentata storia del rapporto medico-paziente, Feltrinelli, Milano
  • [14] Pizza G. (2005) Antropologia medica, Carocci, Roma
  • [15]L’antropologo Kleinman riferisce il seguente aneddoto. “Un pediatra californiano chiede a un antropologo medico di fornire una consulenza per la cura di un uomo messicano sieropositivo. La moglie   dell'uomo è morta di AIDS un anno fa. L'uomo ha un figlio di quattro anni sieropositivo, ma non lo porta regolarmente in clinica per le cure. La spiegazione fornita dai medici presupponeva che il problema dipendesse da una comprensione culturale radicalmente diversa. Ciò che l'antropologo ha scoperto, tuttavia, è stato il contrario. Quest'uomo aveva una comprensione quasi completa dell'HIV/AIDS e del suo trattamento, in gran parte grazie al supporto di un'organizzazione no-profit locale volta a supportare i pazienti messicano-americani affetti da HIV. Tuttavia, era un autista di autobus con uno stipendio molto basso, che lavorava spesso a turni notturni, e non aveva tempo di portare suo figlio in clinica per ricevere le cure con la regolarità richiesta dai medici. La sua mancata presenza non era dovuta a differenze culturali, ma piuttosto alla sua situazione socioeconomica pratica. Parlare con lui e tenere conto del suo "mondo locale" è stato più utile che postulare convinzioni sanitarie messicane radicalmente diverse. (Kleinman A, Benson PA, Anthropology in the Clinic: The Problem of Cultural Competency and How to Fix It, PLoS Med - 2006 Oct 24).
  • [16] Kleinman in Quaranta I. (a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p. 13.

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