mercoledì 17 agosto 2016

Emozioni e razionalità alleate nel procedimento diagnostico

Filosofi della scienza ed epistemologi godono di una fama di logici implacabili, freddi calcolatori e stringenti ragionatori, che lasciano poco spazio alle sfumature, alle sensazioni e alle emozioni.  Niente di più falso, perlomeno per quanto riguarda due esponenti della categogia che, al contrario, prendono le mosse proprio dalle sensazioni e dalle emozioni per sviluppare le loro teorie della conoscenza: sia il pragmatista americano John Dewey che il razionalista critico Karl Popper hanno affrontato i problemi della conoscenza e dell'errore (specie il secondo) partendo dal vissuto soggettivo, pur da diverse angolature.

Ecco alcune considerazioni sull'importanza della sorpresa, e in generale delle reazioni emotive legate all'esperienza nel procedimento clinico; la percezione di una fastidiosa discrepanza (vedi il post precedente) o un di disagio cognitivo possono essere la chiave di volta per riconoscere il quasi-errore e, soprattutto, per prevenire le conseguenze dell'errore franco.

1-John Dewey ad onor del vero non affronta specificatamente il problema dell’errore, ma bensì le situazioni problematiche che per le loro difficoltà possono esitare in un errore e richiedono un approccio critico. L'indagine prende avvio da una sensazione di sorpresa, sconcerto, dubbio ed incertezza di fronte a problemi inattesi che non rientrano nelle consuete modalità routinarie di definizione e soluzione. Dewey postula la coincidenza tra indagine, apprendimento e pensiero riflessivo: “La funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa [.....] determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione in una totalità unificata”. 

Dal vissuto di disagio o sconcerto prende avvio l’indagine deweyana, che prevede il seguente percorso metododologico:
1. La situazione indeterminata come origine del processo di indagine
2. La suggestione e l’intellettualizzazione: la definizione del problema
3. La generazione di ipotesi e il ragionamento deduttivo: se....allora
4. La verifica empirica dell’ipotesi
5. La situazione rischiarata come esito finale dell’indagine

Secondo Dewey la prrocedura logica dell'indagine accomuna il ricercatore, l'educatore e il professionista pratico nel medesimo atteggiamento riflessivo a partire dall'esperienza problematica.  E' agevole intravedere in fligrana nell'idagine deweyana, da un lato, il modello generale del problem solving  e, dall’altro, quella particolare forma di indagine che è procedimento diagnostico, che inizia con la raccolta delle informazioni anamnestiche, prosegue con la definizione del sintomo chiave/problema, esita nella generazione delle ipotesi e nella loro verifica, tramite ulteriori informazioni ricavate dall'esame obiettivo e/o dalle indagini cliniche, preludio alla terapia razionale.

2-Karl Popper, dal canto suo, individua nella sorpresa, intesa come gap tra fatti ed aspettativa che le cose vadano in un certo modo, il motore del cambiamento teorico: Popper fa l'esempio pratico della discesa dalle scale e della sorpresa che si sperimenta quando si ritiene di essere arrivati in fondo, ma in realtà c'e' ancora un gradino che inconsciamente non era previsto. Afferma Popper: "La nostra conoscenza inconsapevole assume spesso il carattere di aspettative inconsce, e talora ci rendiamo conto di aver avuto un’aspettativa di questo genere solo quando essa si rivela infondata [....]. Ciò mi indusse a questa formulazione: quando un evento ci sorprende, la sorpresa è di solito dovuta all’aspettativa inconscia che debba succedere qualcosa di diverso".

Più prosaicamente si potrebbe fare un'altro esempio di comune riscontro pratico, vale a dire la sorpresa  che si prova quando ci si siede sul water senza accorgersi che in realtà manca la...."ciambella". In entrambi i casi la “teoria” implicita viene invalidata dai fatti, generando la  sorpresa" per la discrepanza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo sperimentato. Ecco quindi le basi interpretative della sorpresa che si prova di fronte ad un esito clinico non messo in conto, ad esempio un esame diagnostico che dimostra la presenza di una patologia rara; in casi simili la reazione emotiva è l'antecedente diretto del quasi errore, il suo "precursore", e il grado di sorpresa è proporzionale alla distanza tra l'ipotesi e la realtà. Nel senso che il dato "oggettivo" rivela la discrepanza tra il problema e sua rappresentazione "soggettiva": l'ipotesi diagnostica che ha motiva la richiesta dell'accertamento clinico, per quanto vaga e nebulosa, si rivela infondata e viene bruscamente scalzata da un riscontro inaspettato e perciò sorprendente (vedasi il post precedente sul mismatch cognitivo, che è l'altra faccia della sorpresa).

In termini pratici capita che l'esito di un accertamento diagnostico conduca ad una diagnosi che mai si era immaginata, in quanto estranea alle aspettative routinarie, ovvero alla "teoria" implicita del caso. Il quasi-errore consiste proprio nella mancanza di questa sorpresa, perlomeno nelle prime fasi del procedimento o fino a quando, magari nel follow-uo, emerge un nuovo dato. Quello che appariva un caso come tanti si trasforma quando una nuova informazione cambia la rappresentazione della vicenda, fino alla reazione di disappunto per l'inattesa sorpresa: "perchè non ci avevo pensato prima (alla diagnosi corretta), cosa mi ha impedito di porre l'ipotesi diagnostica giusta?".

Insomma le sfumature emotive contano, che si presentino alla coscienza come tenui variazioni cromatiche di dubbio o generico disturbo/disagio, piuttosto che improvvisi cambiamenti di colore, come un'inattesa sorpresa.

BIBLIOGRAFIA
AA VV, I grandi filosofi: Dewey, vita, pensiero, opere scelte. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
Popper K.R., Verso una teoria evoluzionisticaa della conoscenza, Armando, Roma, 1999
Striano M., Per una teoria educativa dell'indagine, Pensa Multimedia, 2016

mercoledì 10 agosto 2016

Mismatch cognitivo e quasi errore diagnostico

La teoria della decisione è dominata da due diverse impostazioni: i modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta razionale), e quelli descrittivi, che all’ opposto si limitano ad osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai soggetti, in contesti sperimentali o naturali. Nel campo dell’errore medico prevalgono gli approcci normativi: i modelli bayesiani e il cosiddetto risck management (RM). Entrambi suggeriscono il modo migliore per decidere ma, ciononostante, la gente resta inesorabilmente affetta da fallibilità e quindi serve a poco indicare la retta via se poi ogni tanto nella vita reale si imbocca quella sbagliata.
Secondo il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata formula elaborata del reverendo inglese per correggere le probabilità di un evento alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale, freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo possesso, ma non è affatto facile trovare nella realtà fattuale un soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali sufficienti e i dati per applicare la fatidica formula.
Secondo il RM invece per evitare sbagli basta seguire procedure predefinite che sono una sorta di garanzia di “infallibilità”. Il RM si concentra sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. garanti dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore, inteso come “fallimento nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo desiderato". Ma se in un certo settore mancano LLGG o ve ne sono più di una, tra loro dissonanti? Entrambi i modelli condividono la stessa impostazione istruttiva, il medesimo presupposto implicito in base al quale per evitare l’errore basta applicare regole, procedure, formule, linee guide etc., predefinite da ricercatori e “tecnici”, da implementare nella pratica clinica.
I decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile “razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti naturali: oggi si direbbe, in modo scherzoso, che le persone utilizzano le formule in modo spannometrico. Servirebbe invece una sorta di navigatore che avverta per tempo il decisore che, il più delle volte inconsapevolmente, ha scelto un tragitto sbagliato, onde evitare che dal quasi errore cada nell'errore. Perchè mentre si sta sbagliando non ci si accorge dell'errore, che richiede uno scarto temporale per emergere dall'inconscio cognitivo alla consapevolezza. 
La chiave di volta stà in un un aforisma del filosofo Cartesio che recita: l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra tale. Se lo sbaglio sfugge alla percezione e alla consapevolezza, in quanto inapparente e subdolo, il primo obiettivo pratico è quello di percepire quanto prima l'errore stesso, il che non è agevole proprio per il suo carattere sfuggente e sub-liminale. Nel momento in cui si compie non ci si avvede dell’errore per una sorta di anosognosia cognitiva, simile a quella che colpisce alcuni soggetti affetti da un deficit neurologico motorio, che però disconoscono come tale, comportandosi come se nulla fosse e come se potessero contare sull’integrità del sistema motorio. Serve quindi una tecnica, una procedura affidabile che smascheri l'anosognosia cognitiva e riveli l’errore all’errante inconsapevole, quanto più precocemente per poter rimediare e correggere il percorso. Discrepanza temporale e mismatch cognitivo sono le due facce della stessa medaglia.
Alcuni psicologi (Rizzo et al 1996) hanno proposto un modello a più stadi, per descrivere il processo di "svelamento" dell'errore, così articolato:
1. il primo passo consiste nell’ emergere di una discrepanza percettivo-valutativa (mismatch) spesso in modo vago ed “epidermico”, a pelle
2. a cui segue la scoperta (consapevolezza) che è stato commesso un errore
3. l'identificazione (individuazione) dell'origine e della natura della discrepanza
4. il superamento della discrepanza tra obiettivo prefissato e il risultato conseguito (strategie per eliminarla, capirla e rimuovere le cause).
La mismatch è frutto della mancata corrispondenza tra informazioni ed aspettative (ipotesi, previsioni etc..) e dati empirici, oppure al fatto che queste non sono corrette o non sono state aggiornate. Gli autori si riferisco più che altro ad azioni finalizzate e procedure pratiche; nel campo della diagnosi medica significa che serve una certa sensibilità per percepire i segnali di mismatch o ricercare attivamente i feed-back che testimoniano la discrepanza tra realtà e la sua rappresentazione mentale, che è il punto nodale per riconoscere quanto più precocemente il quasi-errore diagnostico, affinché non si traduca in errore vero e proprio dalle conseguenze pratiche.
A volte la discrepanza parte da una sensazione sgradevole di insoddisfazione, da uno stato d'animo di perplessità, di fastidioso dubbio o sfasatura; in altri casi invece si presenta come un'improvvisa "sorpresa", rivelazione o illuminazione sulla differenza tra rappresentazione e realtà dei fatti. Il disagio cognitivo indotto dal mismatch è radicato nel vissuto e può essere superato con un atteggiamento di riflessione sull'esperienza, dai connotati meta-cognitivi chiaramente distanti se non antitetici rispetto all'impostazione istruttiva del RM. 

domenica 7 agosto 2016

Decisioni pratiche situate, opinioni degli esperti e metanalisi

Una delle caratteristiche della competenza professionale è quella di sapersi adattare alla specificità del contesto professionale, epidemiologico, organizzativo etc.. e quindi di “accomodare” le indicazioni generali di buona pratica clinica alle particolari condizioni dei singoli assistiti. Abilità che derivano dall'esperienza pratica sul campo, più che dal bagaglio di nozioni teoriche. Non esiste una competenza astratta, decontestualizzata, irrelata rispetto alle pratiche situate e alle condizioni locali; tuttavia permane una certa diffidenza nei confronti del medico pratico, spesso non a suo agio con statistiche e formule matematiche, senza le quali tuttavia prende innumerevoli decisioni di fronte ai singoli pazienti.

Pesa ancora la squalifica implicita nella gerarchia EBM delle evidenze, quella piramide che vede al vertice revisioni sistematiche e metanalisi mentre alla base stanno, appunto, le opinioni degli esperti. Probabilmente si tratta di una squalifica involontaria della medicina pratica, ma di fatto quella piramide ha finito per svalutare e ridurre l'auto-stima di chi lavora sul campo, ovvero si sporca le mani con la relazione medico-paziente, invece che con inferenze e formule statistiche, facendo affidamento sulle proprie opinioni e valutazioni estemporanee nel momento della decisione (per giunta da generalista e non certo da specialista). Certo, le opinioni degli esperti della piramide EBM non riguardano micro scelte diagnostiche o terapeutiche ma considerazioni generali ed evidenze statisticamente “oggettive”.

L'equivoco nasce da qui: dal punto di vista delle prove di popolazione, astratte rispetto al contesto e relative ad ideal-tipi nosografici impersonali - come i soggetti arruolati nei trial randomizzati in base di criteri di esclusione - valgono certamente più le conclusioni delle metanalisi che non le opinioni di un clinico pratico. Ma di fronte a malati in carne ed ossa, nei contesti decisionali e nelle situazioni pratiche, specie alle prese con casi caratterizzati da varietà, unicità e complessità polipatologica - come la stragrande maggioranza dei malati comorbidi - forse le opinioni del medico al letto del malato non sono meno importanti dei risultati dell'ultima revisione sistematica. Proviamo ad immaginare uno scambio di ruoli: cosa succederebbe se un “pratico” lavorasse per una settimana in un centro epidemiologico, ad elaborare metanalisi, a fronte della presenza di un epidemiologo in un ambulatorio di MG sul territorio? Di sicuro il generalista rischierebbe di combinare un bel po' di disastri con formule matematiche e statistiche mediche. Forse è arrivato il tempo di sdoganare l'approccio del “pratico” e le sue opinioni di esperto situato.

Il presupposto della superiore validità delle metanalisi, rispetto alle opinioni degli esperti, sta nell'idea che le elaborazioni statistiche sui grandi numeri sono più aderenti alla realtà rispetto alle conclusioni di esperti, ricavate dall'esperienza individuale, su casistiche limitate e non selezionate. A questo proposito, nelle ultime settimane ho avuto modo di seguire tre casi clinici della stessa patologia cronica e, riflettendo sulle tre vicende parallele, mi sono reso conto della grande varietà dei decorsi e delle configurazioni patologiche. Praticamente nessuno dei tre era affetto da una forma “pura” ma tutti erano invece portatori di diverse comorbilità, le più variegate sia nel percorso diagnostico-terapeutico che nella "narrazione"; a dimostrazione che nella pratica ambulatoriale le forme pure ed isolate, cioè le diagnosi prototipiche da manuale, sono praticamente inesistenti (a differenza degli studi clinici che arruolano solo candidati filtrati da rigorosi criteri di esclusione, ovvero selezionando popolazioni minoritarie rispetto alla routine delle comorbilità, specie geriatriche).

Per non parlare dell'area grigia di incertezza prevalente in MG, popolata da disturbi orfani di diagnosi, sindromi sotto-soglia, stati al confine tra salute e malattia, soma e psiche, disturbi auto-limitanti e transitori etc., condizioni poco o per nulla “ebiemmizzabili”, per usare il colorito neologismo coniato da Giorgio Bert. In sostanza l'approccio del pratico è orientato da studi clinici ed elaborazioni statistiche artificiali ed eccentriche rispetto alla realtà fattuale; ciononostante continuano ad agire e prendere decisioni con quel tipo di "faro", che illumina solo una porzione della realtà, ma di necessità integrata dalle opinioni maturate in situ e nelle condizioni cliniche date.

La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.

Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio. 

martedì 2 agosto 2016

I nuovi codici di priorità, questi sconosciuti!

C'era una volta il “bollino verde”, introdotto all’ inizio del secolo in Lombardia, per instradare in una corsia preferenziale le cosiddette “urgenze differibili”. L’obiettivo era di offrire un’alternativa all’ utilizzo improprio al PS, onde contenere il sovraccarico delle strutture di emergenza/urgenza: grazie all’ apposizione del fatidico adesivo verde da parte del medico di MG la prestazione diagnostica o specialistica poteva essere deviata sulle strutture ambulatoriali ordinarie, che erano tenute a soddisfarla entro 72 ore dalla prenotazione.
Ben presto però il bollino verde è stato utilizzato per scopi non previsti dagli amministratori regionali e, invece di migliorare l’appropriatezza organizzativa e temporale dell'offerta, e si è trasformato in un grimmaldello per aggirare le lunghe liste d'attesa, in situazioni che nulla hanno di urgente: per giunta in molti casi l'utilizzo dell'urgenza differibile avviene su pressione dagli assistiti, per by-passare liste d’attesa, o su “suggerimento” dal personale amministrativo addetto alla prenotazione.
La vicenda del “bollino verde” è un esempio delle conseguenze inintenzionali e impreviste di una deliberazioni finalizzata a raggiungere bel altro obiettivo, tantè che in alcuni casi in i CUP non procedono alla prenotazione delle “urgenze differibili” per eccesso di richieste e con tempi di esecuzione della prestazione ormai fuori controllo.
Come rimediare agli effetti “perversi” del bollino verde, migliorare l’appropriatezza organizzativa riducendo lo squilibrio tra domanda ed offerta di prestazioni ambulatoriali? La soluzione, caldeggiata da tempo dalla MG ( http://curprim.blogspot.it/2015/10/una-modesta-proposta-per-razionalizzare_26.html ), è arrivata all'inizio del 2016 anche in Lombardia, dopo essere stata sperimentata in altre regioni: una diversificazione dei criteri di priorità temporale delle prestazioni ambulatoriali, in modo che la varietà dell’offerta organizzativa possa venire incontro alla varietà delle richieste provenienti dal territorio.
Così dal 2016 sono entrate in vigore nuove classi di priorità, nell'ambito dell'introduzione della dematerializzazione delle prescrizioni di diagnostica ambulatoriale (Ricetta Elettronica) e come previsto dal Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa 2010-2012, così articolate:
  • U= urgente (nel più breve tempo possibile o, se differibile, entro 72 ore)
  • B= entro 10 gg
  • D= entro 30 gg (visite) entro 60 gg (prestazioni strumentali)
  • P= programmabile
In teoria a pieno regime i nuovi “filtri” dell’accesso alle strutture d’offerta e il conseguente riassetto organizzativo dovrebbero produrre un significativo miglioramento dell'appropriatezza temporale ed organizzativa delle prestazioni diagnostiche, conseguendo alcuni obiettivi attesi da tutti gli attori:
  • riduzione del numero di bollini verdi inappropriati, grazie alla deviazioni delle prestazioni verso le priorità B e D;
  • percorsi diagnostici più adatti alle esigenze cliniche dei singoli casi e razionalizzazione organizzativa delle prestazioni ambulatoriali;
  • maggiore soddisfazione degli utenti, per una risposta più pronta ed efficace, in relazione ai bisogni soggettivi, e con minore ricorso alle prestazioni libero-professionali in alternativa all'offerta del SSR.
Purtroppo però, a più sei mesi dall'entrata in vigore dei nuovi codici di priorità, l'applicazione pratica delle nuove norme è ancora incompleta e, come si suol dire, a macchia di Leopardo. Le strutture erogatrici infatti stentano ad adattare la gestione delle agende di prenotazione e i sistemi informatici ai nuovi standard e capita, non di rado, che la priorità venga del tutto ignorata al momento della prenotazione dell'esame o della visita ambulatoriale. Rispetto all’auspicata appropriatezza temporo-organizzativa, garantita dai nuovi criteri di priorità, prevale una puntigliosa richiesta di adattamento burocratico del MMG alle regole amministrative delle strutture, a base di ripetizioni e correzioni delle richieste quando queste non collimano con le esigenze economico-finanziarie, a prescindere da quelle cliniche.