domenica 29 aprile 2018

Primari ospedalieri lombardi alle presa con la Presa in Carico

La lettera dei primari ospedalieri all’assessore lombardo Gallera ha fatto emergere alcune criticità della Presa in carico della Cronicità (da ora PiC) a livello nosocomiale, sul versante organizzativo, culturale ed epistemologico, che fino ad ora erano rimaste sotto-traccia (http://www.snamimilano.org/wp-content/uploads/2018/04/ANPO-su-cronicità.pdf). I rilievi del documento si appuntano sui problemi organizzativi/gestionali e formativi, sulle incertezze del Clinical Manager (CM) nella redazione del PAI e sulla discrasia tra pratiche ospedaliere e territoriali. Il punto di partenza per ogni riflessione resta la distinzione “fenomenologica” tra acuzie e cronicità, codificata ormai 30 anni fa dal ginevrino Prof. Assal (si veda il PS).

Nella malattia acuta è relativamente possibile isolare il problema "biologico" dalle altre dimensioni dell'esistenza, ad esempio con una "soluzione chirurgica", radicale e definitiva. Grazie alla separazione del paziente dal contesto di vita e alle risorse tecnologiche l’ospedale adempie la funzione di presa in carico dell’acuzie e porta a termine efficacemente la sua mission in virtù della concentrazione spazio-temporale delle competenze professionali, della differenziazione tecno-specialistica e dell’organizzazione gerarchica.

Non è così per la cronicità. La disgiunzione dall'ambiente e la delimitazione specialistica non sono la regola: le patologie si sovrappongono e si influenzano reciprocamente, violando i confini disciplinari e la distinzione delle competenze, e sono a loro volta influenzate dalle condizioni socioeconomiche, ambientali e familiari, dagli stili di vita e dalle relazioni con i servizi sanitari e socio-assistenziali, specie in caso di invalidità, handicapp, fragilità e disabilità. Proprio per questa differenza qualitativa la gestione della cronicità esige una "Rivoluzione Culturale" che coinvolge in prima persona tutti gli attori, assistiti, familiari, professionisti ed organizzazione sanitaria.

L’alterità del profilo “fenomenologico” della cronicità, rispetto all’acuzie, reclama un cambio di paradigma à la Morin, nel senso della complessità contrapposta al paradigma di semplificazione. In modo assai schematico la sfida della cronicità ai sistemi sanitari attiene all’evoluzione da un approccio lineare, deterministico e riduzionistico - tipico dell’intervento tecnologico in acuto, sul modello fordista - ad una complessità sistemica e multidimensionale, caratteristica delle cure primarie.

Tale sfida implica l’interazione tra sfera clinica, socio-assistenziale, educativa etc.. che si realizza nella dimensione orizzontale, aperta e non gerarchica dell'organizzazione a rete, dove i nodi sono i MMG sul territorio - ma anche le abitazioni dei pazienti cronici in ADP/ADI e le strutture distrettuali - e i fili che li connettono le relazioni tra i diversi attori che si alternano alla cura nel lungo decorso delle patologie.

Come afferma il Piano Nazionale per la Cronicità “l’assistenza primaria rappresenta il punto centrale (hub) dei processi assistenziali con forti collegamenti con il resto del sistema, con un ruolo cardine svolto dal distretto” cherappresenta l’ambito ove si valuta il fabbisogno e la domanda di salute della popolazione di riferimento rilevata dai professionisti, e riveste un ruolo di tutela e programmazione”. In questo disegno a rete è cruciale il ruolo dei distretti, elettive “sedi fisiche di prossimità sul territorio per l’accesso e l’erogazione dei servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali rivolti alla popolazione di pazienti cronici”. Va da sé che l’ospedale per acuti resta il logico riferimento ogni volta che la condizione cronica va incontro ad una riacutizzazione, ad uno scompenso multiorgano, ad una complicazione, ad un peggioramento funzionale etc. non più gestibili con le risorse disponibili sul territorio.

Il processo di elaborazione della riforma lombarda sulla PiC ed ora la sua attuazione pratica sconta un’impostazione top down, che ha ignorato esperienze di approccio alla cronicità “dal basso”, a Km zero, in modo reticolare ed orizzontale. Il compito elettivo del MMG in questo approccio alla cronicità è quello di armonizzare ed integrare il contributo degli altri professionisti sanitari, garantendo quella indispensabile continuità e coerenza dell’assistenza sul lungo periodo. La PiC ha invece privilegiato la soluzione accentratrice e ospedalo-centripeta, perlomeno per i pazienti che sceglieranno di affidarsi ad un Gestore diverso dalla cooperativa di MMG. Tale impostazione ha indotto i primari ospedalieri a scendere in campo, sottolineando le difficoltà incontrate nella sua implementazione pratica.

Emblematiche di queste criticità sono la redazione del “fantasmagorico” PAI - compito elettivo di un CM con competenze “tuttologiche” - e i problemi organizzativi e gestionali dovuti alla mancanza di adeguate strutture poliambulatoriali sul territorio. Analizziamo prioritariamente questi ultimi. La teorica affluenza di un numero considerevole di malati cronici in poche strutture ospedaliere, perlomeno laddove l’adesione dei MMG alla PiC è stata minoritaria come nella città di Milano, comporta un sovraccarico di lavoro che grava sulle già scarse risorse umane e si acuisce per le farraginose incombenze informatiche della PiC, con inevitabile allungamento dei tempi per espletare le procedure previste (Patto di cura, PAI, consensi vari etc..). 

Il cahier de doleances dell'ANPO arriva all'indomani del 15 aprile, data in cui gli ospedali milanesi avevano preso in carico meno dell'1% dei 431000 potenziali malati cronici, a fronte di un 70% di assistiti potenzialmente afferenti ai Gestori ospedalieri. Se invece gli aderenti alla PiC fossero stati distribuiti nei PREST e nei POT - previsti dalla riforma ma rimasti sulla carta - e nel reticolo di prossimità delle cure primarie - ovvero tra i vari nodi della rete territoriale - il loro impatto sarebbe stato ben diverso e la gestione della PiC più agevole.

La redazione del PAI ha contribuito a complicare l’implementazione ospedaliera della PiC, nel senso che il CM a cui è stato affidato sconta un ruolo vago e privo di una chiara “definizione di procedure ufficiali” a garanzia di tale figura professionale, mentre “la sua job description non è normata e lasciata al libero arbitrio dei gestori”. Ma soprattutto il PAI del cronico polipatologico comporta un'elevata incertezza cognitiva in quanto impone il superamento dei confini disciplinari che sono la regola non scritta dell’organizzazione super-specialistica; con la sola eccezione della medicina interna, peraltro minoritaria e quasi “residuale” sia per posti letto che personale medico ed infermieristico, per giunta impegnato a fronteggiare proprio i degenti multipatologici a ranghi ridotti, oberati da turni e obblighi di performance regionali (limitazione della durata delle degenze). 

Da qui il paradosso sottolineato dal documento, ovvero di ospedali sempre più dedicati all'acuzie, con ricoveri di pazienti gravi e/o con necessità di assistenza tecnologica intensiva, che devono farsi carico di problematiche e funzioni tipiche delle strutture distrettuali e delle Cure Primarie, che “poco han da spartire con la mission ospedaliera”, per giunta senza risorse aggiuntive di tempo e di personale dedicato e formato. In buona sostanza l'ANPO ricusa attività "originariamente destinate ad altra categoria professionale" - i medici di MG - in contrasto con il proprio mandato di specificità clinica, vale a dire le competenze "tuttologiche" di un indistinto CM.

Anche in questo caso la rete territoriale della MG poteva farsi carico in modo meno problematico della redazione del PAI, rispetto ad un CM che si trova di fonte per la prima volta pazienti multipatologici, complessi, spesso seguiti da diverse strutture specialistiche; per la redazione del Piano Individuale, non conoscendo il paziente, egli dovrà consultare altri specialisti, con ulteriore frammentazione dei processi assistenziali. Un esito che si annuncia controintuitivo rispetto agli obiettivi di una migliore continuità ed integrazione assistenziale, che era la mission/vocazione della PiC.

Le competenze "tuttologiche" rivendicate a buon diritto dalla Medicina Generale non sono quelle caricaturali tratteggiate nel documento dei Primari ospedalieri ma quelle che consentono di farsi carico di TUTTA la persona affetta da patologie croniche, a prescindere dalle codifiche specialistiche, ed accettando l'incertezza insita nella complessità. 

P.S. La malattia acuta si presenta tipicamente con
  • sintomi evidenti e improvvisi, segno di una crisi e di grande pericolo, anche per la vita che richiedono una diagnosi rapida e certa
  • richiede l’individuazione della causa, per iniziare il trattamento razionale
  • tale approccio è il modello di riferimento della formazione universitaria
  • che influenza l’identità professionale, allineando l’esperienza individuale del paziente alle modalità di intervento medico-sanitario
 La malattia cronica è agli antipodi in quanto:
  • è asintomatica al di fuori delle crisi, delle riacutizzazioni o delle fasi di scompenso d’organo
  • manca una causa specifica e di un nesso tra sensazioni corporee e variabili biologiche
  • spesso è impossibile guarire e può avere un’evoluzione incerta e variabile
  • può dipendere da fattori di rischio ed essere influenzata da abitudini voluttuarie, variabili ambientali e stili di vita


martedì 17 aprile 2018

"L’unico peccato imperdonabile è nascondere un errore”

Il secondo caso, a differenza di quello oggetto del precedente post, è arrivato al termine dell’iter giudiziario con il pronunciamento di condanna da parte della Corte di cassazione. Si tratta della vicenda di una donna che si era rivolta a un famoso neurologo per continui svenimenti. Il professionista dopo aver prescritto alla paziente un 'Tilt test', risultato negativo, aveva rassicurato la signora considerandola 'sana come un pesce'. 

Tuttavia a dispetto dell’esito dell’esame la signora aveva continuato ad accusare svenimenti fino al tragico epilogo della vicenda, conclusasi con il decesso della donna per problemi cardiaci. Secondo la suprema corte l'errore del medico era stato di non aver ipotizzato un'origine cardiaca del disturbo e quindi di non aver prescritto alla paziente ad un ECG (http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato60306.pdf ).

Già i giudici in primo grado avevano giudicato irrilevante la giustificazione addotta dalla difesa, ovvero che la paziente aveva eseguito l’esame in una struttura diversa da quella indicata dal professionista. Infine la Cassazione, escludendo la colpa lieve ipotizzata dai difensori, ha respinto il ricorso per violazione del dovere di diligenza, in quanto la limitazione della responsabilità secondo la legge Gelli si configura solo nel caso in cui il medico abbia agito seguendo le buone pratiche cliniche, in assenza di un errore diagnostico per negligenza o imprudenza.

Al di là degli aspetti tecnici giudiziari il caso può essere analizzato anche con la chiave di lettura della psicologia cognitiva, secondo il filone culturale delle euristiche e bias. Il principio cardine del processo diagnostico è la generazione delle ipotesi, a partire da quelle più probabili, e prendendo in considerazione anche quelle che non ricadono nella propria area di competenza. Guai se ci si limitasse (in modo autoreferenziale) a focalizzare il disturbo solo in rapporto alla propria sfera specialistica. Come si suol dire, bisogna esercitare l'immaginazione clinica a 360 gradi.

Nelle fasi iniziali del processo diagnostico si deve prendere in considerazione un ventaglio di "macro" ipotesi fisiopatologiche, per poi arrivare via via alla diagnosi corretta, per esclusione/selezione delle ipotesi meno adatte o probabili. Questo basilare principio vale per tutti i sintomi che sottendono diversi meccanismi fisiopatologici: nel caso della sincope l’origine neurologica non è certo la più frequente (il 10-15% dei casi) mentre l'eziologia cardiaca e vaso-vagale sono statisticamente equivalenti. Quante persone portano un PM cardiaco dopo aver accusato disturbi di questo genere, rilevati con un semplice ECG!

Il metodo clinico vale per tutti indifferentemente. Qualsiasi medico, specialista o generalista, se i conti non tornano deve andare oltre la sua specifica competenza, per allargare il più possibile il ventaglio delle ipotesi, a prescindere dalle sentenze della magistratura. Se la storia e i dati raccolti confutano l’ipotesi "favorita", se ne devono esplorare altre, anche se riguardano branche specialistiche diverse dalla propria. 

La principale regola per evitare problemi legali è fare la diagnosi corretta, prescrivendo tutte le indagini necessarie a confermare o smentire le varie congetture generate nel corso dell’iter diagnostico; la correttezza metodologica dell'indagine nulla ha a che fare con la medicina difensiva, ma attiene solo alla buona pratica clinica. Su questo principio, a ben vedere, convergono sia le motivazioni strettamente giuridiche della Cassazione sia l'analisi della vicenda secondo la griglia concettuale della psicologia cognitiva.

La proliferazione delle ipotesi è regola aurea di fronte a casi incerti, atipici, complessi, poco inquadrabili in schemi rigidamente disciplinari o di fronte a sintomi “sfumati” o enigmatici. Il caso illustra in modo esemplare come sia possibile incorrere in diversi bias quando ci si affeziona ad una sola ipotesi e non si percepisce l’“errore”, ovverosia che non basta un test negativo per confermare lo stato di buona salute, specie in caso di sintomi recidivanti. Ecco uno schematico elenco dei bias in cui è incorso il protagonista della vicenda giudiziaria, oltre al deficit di proliferazione delle ipotesi e di percezione dell'errore:
  • euristica della tipicità o rappresentatività: considerare solo i tratti tipici e “paradigmatici” di una certa malattia o più frequenti nella propria casistica, trascurando la gamma delle forme atipiche;
  • euristica della disponibilità: tendenza valutare la probabilità diagnostica sulla base di malattie più frequenti che vengono facilmente alla mente;
  • chiusura anticipata e ricerca soddisfatta: non approfondire il caso, considerandolo definitivamente risolto, a seguito del risultato negativo di un test;
  • tendenza alla conferma: trascurare gli elementi che confutano le proprie convinzioni a vantaggio della ricerca di dati che le confermano;
  • mancata considerazione per le probabilità statistiche: tendenza a ignorare i tassi di prevalenza delle malattie e cercare di porre diagnosi di patologie rare prima di quelle più frequenti.
Per commentare la vicenda non resta che citare ancora una volata l’opinione del filosofo della scienza Karl Popper: Facciamo progressi perché (e soltanto se) siamo disposti a imparare dai nostri sbagli, ossia a riconoscere i nostri errori e, invece d’insistere in essi dogmaticamente, a utilizzarli con giudizio critico. Il punto fondamentale è riconoscere gli errori e correggerli al più presto possibile, prima che facciano troppo danno. Di conseguenza, l’unico peccato imperdonabile è nascondere un errore”.

giovedì 12 aprile 2018

"Dissimulare gli sbagli è il più grave peccato intellettuale”

Gli episodi di presunta malasanità sono sempre oggetto di attenzione spasmodica da parte della stampa. Due sono i casi che quasi contemporaneamente sono finiti sotto i riflettori dei media, seppure per vicende non omogenee. Nel primo caso si è trattato del tragico decesso di una bambina di 4 anni per le probabili complicanze cerebrali di un’otite, ancora da chiarire da parte della magistratura ( https://goo.gl/i5kqLr ), mentre nel secondo la suprema corte di Cassazione ha emesso una sentenza definitiva di colpevolezza per il mancato riconoscimento diagnostico di un disturbo cardiologico da parte di un neurologo, rivelatosi fatale per l’interessato ( https://goo.gl/cMvsoz ).

Le reazioni a caldo di fronte a vicende drammatiche, come quella della bimba bresciana, rischiano quasi inevitabilmente di dividere la pubblica opinione in fazioni contrapposte di colpevolisti ed innocentisti. A causa di un una sorta di duplice riflesso condizionato, innescato da speculari reazioni emotive, si contrappongono due "fazioni": da un lato prevale l’invettiva e la colpevolizzazione a priori per trovare un facile capro espiatorio a cui corrisponde, dall’altro, un arroccamento difensivo che sfuma in una speculare e aprioristica negazione.

Si tratta di valutazioni e giudizi dettati dall'emotività, umanamente comprensibili, ma che finiscono per inibire in modo convergente un’analisi spassionata ed oggettiva degli eventi, come vorrebbe un “normale” approccio scientifico. Risultato finale: l’aura giudiziaria finisce per soffocare la razionalità! E’ possibile sfuggire a questa sorta di copione collettivo già scritto? Purtroppo sembrerebbe un compito impossibile!

Per riportare il confronto su un piano meno pregiudizialmente schierato pro o contro bisognerebbe porsi alcune scomode domande, al fine di appurare se vi è stato effettivamente un errore diagnostico: la vicenda doveva necessariamente andare in quel modo? Era, in altri termini, inevitabile quell'esito tragico? oppure gli eventi potevano prendere una diversa piega? si poteva fare qualche cosa per evitare il peggio? Per quale ragione, ad esempio, a distanza di poche ore operatori sanitari si sono comportati in modo difforme?

L’esperienza pratica e i dati degli accessi in PS dicono che simili "mancati riconoscimenti" non sono infrequenti quando si ha a che fare disturbi atipici, inusuali, sfumati, esordio di patologie rare o con presentazioni anomale etc..; per fortuna però il più delle volte si corregge il tiro per tempo e si rimedia subito alla "svista". Il guaio è che, tuttavia, proprio perchè le cose alla fine sono andate per il verso giusto si tende a non riflettere sui casi “strani”, a sorvolare sui quasi-errori quotidiani perchè la spada di Damocle della denuncia e lo spettro del tribunale, anche se restano sullo sfondo, inibiscono l'approccio oggettivo e non emotivo all'errore cognitivo e diagnostico.

Come ha osservato il filosofo Karl Popper dobbiamo mutare la nostra posizione nei confronti degli errori. Da qui deve iniziare la nostra riforma pratica ed etica. Perchè la vecchia posizione dell'etica professionale conduce a passare sotto silenzio i nostri errori, a nasconderli e a dimenticarli il più velocemente possibile [mentre] per apprendere ad evitare gli errori il più possibile dobbiamo imparare proprio dai nostri errori. Dissimulare gli sbagli è perciò il più grave peccato intellettuale”.

Il fatto è che il procedimento diagnostico non sempre colpisce nel segno di primo acchito e in modo automatico, mentre non di rado procede per tentativi ed errori, che restano però subliminali, sotto traccia ma per fortuna senza conseguenze pratiche negative; alla guida quando ci si trova in una città sconosciuta la condizione per trovare la strada giusta è di accorgersi per tempo di averne imboccata una sbagliata. Quando per una serie fortuita di eventi si verifica un tragico “incidente” è come se il quasi-errore d’ogni giorno venisse posto impietosamente sotto una lente d’ingrandimento pubblica ed amplificato a dismisura dalle reazioni della gente.

E’ un’impresa smuovere il macigno emotivo che cala su chi affronta questi temi, provocando una reazione difensiva e di chiusura. Tuttavia proprio in queste difficili circostanze non si deve rinunciare a riflettere razionalmente, lasciando spazio al solo approccio accusatorio e giudiziario. Sarebbe una tragica resa prima di tutto etica, come ammoniva Karl Popper, perchè si tratta di un obbligo deontologico imparare, se ve ne sono stati, dagli errori per evitarne altri in futuro. Può l’ordine professionale contribuire ad invertire questa deleteria china?


  P.S. Art. 14 del Codice di deontologia Medica del 2017. Prevenzione e gestione di eventi avversi      e sicurezza delle cure. Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza           del paziente e degli operatori coinvolti, promuovendo a tale scopo l’adeguamento dell’organizzazione delle attività e dei comportamenti professionali e contribuendo   alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico attraverso:
  • l’adesione alle buone pratiche cliniche;
  • l’attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso, nonché alla comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause;
  • lo sviluppo continuo di attività formative e valutative sulle procedure di sicurezza delle cure;
  • la rilevazione, la segnalazione e la valutazione di eventi sentinella, errori, “quasi-errori” ed eventi avversi valutando le cause e garantendo la natura riservata e confidenziale delle informazioni raccolte

sabato 7 aprile 2018

Proposta di revisione della Presa in Carico della Cronicità

Negli ultimi anni si sono sviluppati in parallelo, sia in Lombardia che in altre regioni, diversi modelli di Presa in Carico (PiC) e gestione della cronicità, in sintonia con il Libro Bianco della regione Lombardia e con il Piano Nazionale per la Cronicità: il Governo Clinico dell’ASL/ATS di Brescia, a partire dal 2005, i CReG in alcune ASL lombarde dal 2012 e, recentemente, l’accordo ligure sulla PiC. 

Ogni modello ha messo in luce aspetti positivi e negativi. E’ quindi possibile tentare di fondere le parti migliori, trascurando gli aspetti critici, in un tentativo di sintesi virtuosa, secondo i principi generali del Piano Nazionale della Cronicità (https://curprim.blogspot.it/2018/02/contenuti-della-bozza-di-rinnovo-dellacn.html). Ecco in sintesi i cardini operativi di un modello organizzativo funzionale ed appropriato alla PiC della cronicità:
  1. adottare una logica qualitativa e funzionale nella valutazione dei bisogni, dell’offerta sanitaria ed assistenziale, invece che puramente quantitativa (come la sommatoria delle patologie prevista nella stratificazione dei pazienti della PiC);
  2. graduare gli interventi medici e l’organizzazione in funzione dell’intensità assistenziale (il paziente monopatologico può avere un profilo di intensità superiore a quello multipatologico);
  3. ancorare il modello alle pratiche cliniche, organizzative, informatiche e alle relazioni del contesto ecologico-sociale delle cure primarie (come nel Governo Clinico dell'ATS di Brescia: https://goo.gl/Zx6SAh ), intese come punto centrale (hub) dei processi assistenziali in ottemperanza alle indicazioni del Piano Nazionale per la Cronicità (https://goo.gl/61jt2Z);
  4. tenere distinta la dimensione clinica affidata al MMG in un’ottica di prossimità - salvo casi di formale passaggio in cura alle strutture specialistiche - da quella organizzativa, delegata ad un Gestore solo per gli assistiti con elevata intensità clinico-assistenziale e/o con patologie a bassa prevalenza;
  5. distribuire nel corso di alcuni anni l'arruolamento dei pazienti cronici, iniziando dalle patologie di maggiore impatto epidemiologico ed organizzativo, ad esempio diabete mellito ed ipertensione arteriosa, come nell'esperienza del Governo Clinico dell'ATS di Brescia e in sintonia con l'accordo ligure sulla cronicità ( http://curprim.blogspot.it/2017/07/il-testo-dellaccordo-ligure-sulla.html );
  6. abbinare l'implementazione dei PDTA e la stesura dei PAI ad un'intensa attività di formazione dal basso a livello di AFT o Distretti, laddove esistono.
La strada maestra per integrare le esperienze passate e presenti, in coerenza con il Piano Nazionale della Cronicità e in sintonia con gli ACN/AIR, è la stratificazione degli interventi in funzione dell’intensità e complessità clinico-organizzativa e socio-assistenziale, affidati via via a diversi attori. 

Tale compito non può essere svolto in modo automatico e standardizzato utilizzando informazioni amministrative tratte dalle infrastrutture informatiche regionali, ma può essere assolto efficacemente solo “dal basso”, ovvero con una valutazione sistemica dei bisogni e delle necessità assistenziali, multidimensionale e ad personam, da parte degli operatori sul campo, per assegnare i pazienti ad una delle tipologie di intervento a complessità crescente, abbozzate di seguito.

1-Prevenzione: Monitoraggio clinico ed "educativo" dei soggetti portatori di condizioni predisponenti a fattori di rischio e patologie croniche: familiarità per diabete e/o ipertensione o aterosclerosi/dislipidemia, alterata glicemia a digiuno e sovrappeso/obesità, ipertensione arteriosa borde-line, sedentarietà ed alimentazione scorretta, fumo di sigarette ed abuso alcoolico etc.. Si tratta della parte sommersa dei fattori di rischio non intercettati dai sistemi informativi regionali ma noti ai MMG, su cui si potrebbero concentrare gli interventi di prevenzione primaria, specie con la promozione degli stili di vita "salutogenici". 

2-PDTA/PAI clinico. In una logica qualitativa e funzionale il PAI per i pazienti ad intensità medio-bassa (ipertesi e/o diabetici tipo II e/o dislipidemici, complianti alle cure, non complicati e senza danno d’organo,  vale a dire il 70% circa dei cronici) coincide con il PDTA, a condizione che venga applicato in modo flessibile e personalizzato. La gestione clinica resta quindi un compito esclusivo del MMG, con follow-up periodici, prescrizioni di farmaci ed accertamenti, educazione sanitaria e terapeutica, promozione di stili di vita sani etc. (report del GC con indicatori di processo/esito, abitudini di vita etc..).

Pertanto la redazione del PAI per gli assistiti con rischio cardio-cerebro-vascolare medio-basso appare superflua, dispendiosa di risorse professionali ed organizzative, specie la sua compilazione attraverso l'infrastruttura informatica regionale come quella dalla PiC. Anche perché il monitoraggio dei fattori di rischio implicati (PA, assetto gluco-metabolico, lipidico e della funzione renale) si limita all’esecuzione di semplici esami bioumorali 1-2 volte l’anno e di alcuni accertamenti periodici (ECG e FO a cadenza annuale o biennale), mentre centrale è l’intervento su stili e abitudini di vita per il controllo dei fattori di rischio e per la prevenzione dei danni d’organo.

Per una efficace risposta organizzativa a questi bisogni può essere sufficiente un potenziamento delle aggregazioni di MMG sul territorio (medicine di gruppo e Unità Complesse) che possono fungere da “centro servici” a condizione che sia incentivato il personale di studio, segretariale e infermieristico per svolgere i più semplici compiti organizzativi (prenotazione degli accertamenti e delle visite specialistiche, reminder e verifica degli appuntamenti, prescrizioni periodiche, educazione sanitaria e terapeutica, registrazione degli esiti e richiami per follow-up etc..). 

Per quanto riguarda la gestione informatica del monitoraggio delle patologie bastano i software dei MMG, a condizione che vengano registrati in modo condiviso e regolare gli indicatori epidemiologici, clinici, di processo/esito previsti dai PDTA; il set di indicatori verrà periodicamente estratto dalle cartelle informatizzate per l’elaborazione dei relativi report, previo invio al centro di elaborazione dell’ATS (vedasi l’esperienza decennale del Governo Clinico dell’ATS di Brescia). 

3-PAI clinico ed organizzativo, Diverso invece è il caso dei pazienti con elevata intensità clinico-assistenziale, vale a dire le stesse categorie sopra elencate ma con alto rischio CV per la presenza di una o più complicazioni o danno d’organo: iniziale scompenso cardiaco e/o FA, coronaropatia, nefropatia, arteriopatia carotidea o periferica, ischemia cerebrale, polineuropatia, retinopatia  etc.. Oltre ai polipatologici rientrano in questa categoria i pazienti monopatologici in stadio clinico evoluto già in carico a servizi specialisti ambulatoriali: scompenso cardiaco in classe NYHA III-IV, BPCO stadio III-IV, IRC pre-dialitica, diabete mellito tipo I, demenza di Alzheimer e malattie neurodegenerative etc..

Per costoro il semplice e schematico PDTA non è proponibile, a causa della complessità e multimorbilità, e si rende quindi necessario un PAI di sintesi tra i vari Percorsi, i cui risvolti organizzativi sono preminenti, come nell’esperienza dei CReG (centro servizi) e fatta salva la competenza del MMG per la prescrizione farmaceutica e il monitoraggio clinico, con periodici follow-up specialistiche, day-hospital o formali passaggi in cura (dializzati, scompensati, diabetici tipo I in fase di instabilità, BPCO in O2 etc..). Il PAI per questa tipologia di pazienti sarà elaborato e condiviso dal MMG con lo specialista di riferimento, che segue già l’assistito la condizione clinica principale, mantenendo la distinzione di ruoli tra gestore clinico, il MMG, e gestore organizzativo, la struttura prescelta dall’assistito.

La risposta organizzativa a bisogni clinico-assistenziali di medio-alta intensità sarà delegata al Gestore che avrà il compito di attuare il PAI, al fine di garantire l'esecuzione delle prestazioni necessarie al monitoraggio delle polipatologie ivi contemplate, tramite il call center e senza bisogno di Manager Clinici alternativi al MMG; saranno invece necessarie specifiche consulenze specialistiche, l’intervento del Case/Care Manager in casi particolari e un’integrazione informativa tra strutture e cure primarie.

Per questa tipologia di Presa in Carico, essendo coinvolti gestori organizzativi, ai SW gestionali dei MMG si affiancherà l’infrastruttura informatica regionale per l’integrazione informativa dei diversi attori e setting assistenziali, degli esami di laboratorio in automatico nelle cartelle informatizzate, per il monitoraggio dei percorsi organizzativi e dei processi erogativi da parte delle strutture stesse.

4-PAI clinico, organizzativo e socio-assistenziale. Infine per i pazienti polipatologici ad elevata complessità clinica, assistenziale e sociale (invalidi, disabili, fragili, handicappati, non autosufficienti etc..) non istituzionalizzati e in ADP/ADI sarà indispensabile l’integrazione con la famiglia, le badanti, i servizi sociali dei comuni, l’assistenza infermieristica e specialistica domiciliare, il volontariato, le RSA aperte, le farmacie etc.. La valutazione multidimensionale dei bisogni di questa categoria sarà affidata al Care Manager del Gestore, integrato nell’Unità valutativa multiprofessionale, operante sul territorio, ad esempio negli ex distretti sanitari o nella rete dei PRESST, nell’attuale situazione largamente insufficiente. 

Lo strumento normativo di riferimento per attuare questo disegno è l’AIR, in particolare sul modello del recente accordo ligure per la gestione della cronicità, da “importare” ed adattare alla situazione lombarda, nella cornice normativa del rinnovato ACN e in sintonia con principi generali del Piano Nazionale della Cronicità.

Hanno condiviso il presente documento i seguenti Medici di Medicina Generale: Marialuisa Badessi (ATS di Brescia), Giuseppe Belleri (ATS di Brescia), Marina Bosisio (Monza), Fabiola Bottanelli (ATS di Brescia), Vittorio Caimi (Monza), Roberto Cocconcelli (ATS di Brescia), Bianca Fossati (Monza), Giorgio Lazzari (Garbagnate), Adriana Loglio (MMG in pensione, Brescia), Andrea Mangiagalli (Pioltello), Gianfranco Michelini (ATS di Brescia), Simonetta Pagliani (Milano), Luigi Pialorsi (ATS di Brescia), Gianni Piazza (ATS di Brescia), Mara Rozzi (ATS di Brescia), Francesca Samoni (ATS di Brescia), G.Paolo Smillovich (ATS di Brescia), Luca Vezzoni (Vimodrone), Alessandro Zadra (ATS di Brescia).

Al link il testo completo del documento:  https://app.box.com/s/yql53so9fha0yvlidpwmrcusu0p551dd

Sintesi operativa schematica della proposta
  •          Assistiti del primo gruppo, ovvero portatori di uno o più fattori di rischio in particolare cardiovascolari (ipertensione arteriosa e/o diabete di tipo II e/o dislipidemia) senza danno d’organo o complicanze: presa in carico da parte del MMG, sia per gli aspetti clinico-assistenziali che per quelli organizzativi, seguendo le indicazioni del relativo PDTA, senza necessità del PAI. Rendicontazione semestrale o annuale dell’attività, con indicatori di processo/esito del PDTA estratti dal software gestionale ed elaborati dall’ATS in forma di report individuali e di AFT/ATS.
  •          Gli stessi assistiti del gruppo 1 portatori di uno o più danni d’organo o affetti da monopatologia evoluta ad elevata intensità/bisogni clinico-assistenziali e organizzativi (Diabete tipo I°, BPCO, IRC, Scompenso cardiaco, demenza etc..): PAI condiviso dal MMG con lo specialista di riferimento, gestione clinico-assistenziale ambulatoriale e domiciliare (ADP/ADI) affidata al MMG, con follow-up specialistici periodici o passaggio in cura temporaneo, gestione organizzativa delegata al Gestore con eventuale Case Manager (coop di MMG o struttura accreditata). In pratica il paziente con il proprio PAI compilato si potrà rivolgere ad uno dei Gestori accreditati dove verranno erogate le prestazioni specialistiche ambulatoriali previste dal PAI stesso, con l’esclusione del monitoraggio clinico e della terapia farmacologica che resterà a carico del MMG. Rendicontazione dell’attività tramite indicatori di processo/esito del MMG (cartelle cliniche informatizzate) ed amministrativi a cura del Gestore su piattaforma informatica regionale.
  •          Assistiti del terzo gruppo (polipatologici, disabili, invalidi, fragili etc..): valutazione funzionale e multidimensionale con PAI clinico, organizzativo e socio-assistenziale, redatto dal team multi-professionale distrettuale, coordinato da un casa/care manager. Attivazione dell’assistenza domiciliare per i casi più complessi, in ADP/ADI da parte del MMG, infermieri, specialisti, fisioterapisti, assistenti sociali, volontariato etc.