martedì 17 aprile 2018

"L’unico peccato imperdonabile è nascondere un errore”

Il secondo caso, a differenza di quello oggetto del precedente post, è arrivato al termine dell’iter giudiziario con il pronunciamento di condanna da parte della Corte di cassazione. Si tratta della vicenda di una donna che si era rivolta a un famoso neurologo per continui svenimenti. Il professionista dopo aver prescritto alla paziente un 'Tilt test', risultato negativo, aveva rassicurato la signora considerandola 'sana come un pesce'. 

Tuttavia a dispetto dell’esito dell’esame la signora aveva continuato ad accusare svenimenti fino al tragico epilogo della vicenda, conclusasi con il decesso della donna per problemi cardiaci. Secondo la suprema corte l'errore del medico era stato di non aver ipotizzato un'origine cardiaca del disturbo e quindi di non aver prescritto alla paziente ad un ECG (http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato60306.pdf ).

Già i giudici in primo grado avevano giudicato irrilevante la giustificazione addotta dalla difesa, ovvero che la paziente aveva eseguito l’esame in una struttura diversa da quella indicata dal professionista. Infine la Cassazione, escludendo la colpa lieve ipotizzata dai difensori, ha respinto il ricorso per violazione del dovere di diligenza, in quanto la limitazione della responsabilità secondo la legge Gelli si configura solo nel caso in cui il medico abbia agito seguendo le buone pratiche cliniche, in assenza di un errore diagnostico per negligenza o imprudenza.

Al di là degli aspetti tecnici giudiziari il caso può essere analizzato anche con la chiave di lettura della psicologia cognitiva, secondo il filone culturale delle euristiche e bias. Il principio cardine del processo diagnostico è la generazione delle ipotesi, a partire da quelle più probabili, e prendendo in considerazione anche quelle che non ricadono nella propria area di competenza. Guai se ci si limitasse (in modo autoreferenziale) a focalizzare il disturbo solo in rapporto alla propria sfera specialistica. Come si suol dire, bisogna esercitare l'immaginazione clinica a 360 gradi.

Nelle fasi iniziali del processo diagnostico si deve prendere in considerazione un ventaglio di "macro" ipotesi fisiopatologiche, per poi arrivare via via alla diagnosi corretta, per esclusione/selezione delle ipotesi meno adatte o probabili. Questo basilare principio vale per tutti i sintomi che sottendono diversi meccanismi fisiopatologici: nel caso della sincope l’origine neurologica non è certo la più frequente (il 10-15% dei casi) mentre l'eziologia cardiaca e vaso-vagale sono statisticamente equivalenti. Quante persone portano un PM cardiaco dopo aver accusato disturbi di questo genere, rilevati con un semplice ECG!

Il metodo clinico vale per tutti indifferentemente. Qualsiasi medico, specialista o generalista, se i conti non tornano deve andare oltre la sua specifica competenza, per allargare il più possibile il ventaglio delle ipotesi, a prescindere dalle sentenze della magistratura. Se la storia e i dati raccolti confutano l’ipotesi "favorita", se ne devono esplorare altre, anche se riguardano branche specialistiche diverse dalla propria. 

La principale regola per evitare problemi legali è fare la diagnosi corretta, prescrivendo tutte le indagini necessarie a confermare o smentire le varie congetture generate nel corso dell’iter diagnostico; la correttezza metodologica dell'indagine nulla ha a che fare con la medicina difensiva, ma attiene solo alla buona pratica clinica. Su questo principio, a ben vedere, convergono sia le motivazioni strettamente giuridiche della Cassazione sia l'analisi della vicenda secondo la griglia concettuale della psicologia cognitiva.

La proliferazione delle ipotesi è regola aurea di fronte a casi incerti, atipici, complessi, poco inquadrabili in schemi rigidamente disciplinari o di fronte a sintomi “sfumati” o enigmatici. Il caso illustra in modo esemplare come sia possibile incorrere in diversi bias quando ci si affeziona ad una sola ipotesi e non si percepisce l’“errore”, ovverosia che non basta un test negativo per confermare lo stato di buona salute, specie in caso di sintomi recidivanti. Ecco uno schematico elenco dei bias in cui è incorso il protagonista della vicenda giudiziaria, oltre al deficit di proliferazione delle ipotesi e di percezione dell'errore:
  • euristica della tipicità o rappresentatività: considerare solo i tratti tipici e “paradigmatici” di una certa malattia o più frequenti nella propria casistica, trascurando la gamma delle forme atipiche;
  • euristica della disponibilità: tendenza valutare la probabilità diagnostica sulla base di malattie più frequenti che vengono facilmente alla mente;
  • chiusura anticipata e ricerca soddisfatta: non approfondire il caso, considerandolo definitivamente risolto, a seguito del risultato negativo di un test;
  • tendenza alla conferma: trascurare gli elementi che confutano le proprie convinzioni a vantaggio della ricerca di dati che le confermano;
  • mancata considerazione per le probabilità statistiche: tendenza a ignorare i tassi di prevalenza delle malattie e cercare di porre diagnosi di patologie rare prima di quelle più frequenti.
Per commentare la vicenda non resta che citare ancora una volata l’opinione del filosofo della scienza Karl Popper: Facciamo progressi perché (e soltanto se) siamo disposti a imparare dai nostri sbagli, ossia a riconoscere i nostri errori e, invece d’insistere in essi dogmaticamente, a utilizzarli con giudizio critico. Il punto fondamentale è riconoscere gli errori e correggerli al più presto possibile, prima che facciano troppo danno. Di conseguenza, l’unico peccato imperdonabile è nascondere un errore”.

Nessun commento:

Posta un commento