lunedì 26 dicembre 2016

Pro e contro le vaccinazioni, ovvero l'importanza del fattore tempo

I focolai di meningite registrati nella valle dell'Arno in Toscana nell'ultimo biennio (31 casi nel 2015 e 26 nel 2016) hanno convinto le autorità sanitarie della regione ad una campagna straordinaria di vaccinazioni di massa dei soggetti a rischio, che si concluderà nella primavera del 2017. La proposta di vaccinazione volontaria anti-meningococco C è stata favorevolmente accolta dalla popolazione, che ha aderito prontamente agli inviti delle ASL rivolti in particolare: alle persone di età tra 20 e 45 anni, alle persone che hanno avuto contatti di un caso di meningococco C, alle persone che hanno frequentato la stessa comunità in cui si è verificato  un caso  di sepsi/meningite da meningococco, agli studenti fuori sede delle Università presenti sul territorio toscano.

Il successo della campagna di vaccinazioni in Toscana contrasta con una certa diffidenza verso le pratiche di immunizzazione di massa che serpeggia nella società ormai da qualche anno e che alimenta polemiche e dibattiti sui media. La madri preoccupate per il rischio delle vaccinazioni, che si rifiutano di sottoporre i loro "piccoli" alle pratiche vaccinali, sono spesso tacciate di "irrazionalità", in quanto la loro scelta prescinde da una corretta valutazione del rischio; tuttavia se si considera attentamente la quastione emerge che le mamme "ansiose" non hanno tutti i torti, anche da un punto di vista "razionale".

Nella prospettiva della scelta razionale la decisione viene rappresentata come un bivio attuale, come un'alternativa al tempo presente destinata ad avere effetti verificabili e tangibili a breve distanza dalla scelta. Esempi di decisione medica basata sul giudizio probabilistico sono l'alternativa tra una terapia medica ed una chirurgica, o tra due tecniche chirurgiche con diversi profili di benefico/rischio, oppure ancora tra radioterapia e chirurgia, come in caso di tumore prostatico.

Tuttavia ciò che fa la differenza e influenza maggiormente la scelta pro o contro le vaccinazioni non è la probabilità assoluta dei due eventi ma lo scarto temporale tra la vaccinazione e la malattia. Nella decisione se sottoporre o meno un bambino ad una vaccinazione facoltativa si confrontano due rischi, ovvero la probabilità di incorrere in una grave complicazione a seguito del contagio di un'infezione -ad esempio morbillo o meningite - versus i possibili effetti avversi della vaccinazione contro la medesima malattia. Per scegliere in modo razionale basta confrontare il "peso" dei due rischi e propendere per quello minore e il gioco è fatto.

Il confronto tra il beneficio/rischio della vaccinazione e quello della malattia è  cronologicamente asimmetrico e quindi il fattore tempo interferisce sul giudizio probabilistico "razionale", come invece non accade nella scelta tra due trattamenti medici di immediata attuazione/efficacia. Lo sfasamento tra benefici/effetti avversi di una vaccinazione e quelli dell'eventuale contagio della malattia, con le ipotetiche conseguenze negative future, influenza in modo decisivo il rifiuto della vaccinazione.

Insomma nella valutazione "irrazionale" delle mamme "ansiose" digiune di statistica entra prepotentemente in gioco il fattore tempo, ovvero il confronto tra un atto deciso deliberatamente qui ed ora (la vaccinazione con i suoi rischi immediati) e un'evenienza aleatoria ed ipotetica proiettata in un tempo indeterminato e incerto (nel senso che non è affatto detto che si verifichi il contagio, specie se la popolazione vaccinata è ampia).

Infatti non è possibile quantificare il rischio di un futuro contagio nè, tanto meno, il momento esatto in cui verrà sviluppata l'infezione e conseguentemente con quale probabilità alla malattia segua una complicazione grave. In sostanza si deve confrontare una concatenazione di probabilità imprecisate, in un arco temporale indefinito, con un evento puntiforme qui ed ora. La riprova di questa sorta di incommensurabilità cronologica/probabilistica sta nella diversa percezione del rischio, e quindi della propensione alla vaccinazione, nel caso di un'epidemia in corso come quella di meningite od annunciata, come quella influenzale.

Mi riferisco ai casi toscani di meningite dell'ultimo anno, che tanto clamore ed allarme hanno destato nella popolazione. In presenza di un rischio attuale e reale di contrarre una grave infezione, seppure presente in forma sporadica, l'adesione alla vaccinazione volontaria anti-meningococco C è stata massiccia (oltre 1 milione di vaccinati,  con percentuali del 90% tra 0 e 10 anni e del 60% tra 11 e 20 anni) e non condizionata da valutazioni "soggettive" del rischio-vaccino, come quelle che accompagnano ad esempio altre immunizzazioni di massa. Nell'adesione di massa alla vaccinazione volontaria ha giocato un ruolo rilevante la cosiddetta euristica della disponibilità, sia per l'attualità dell' "epidemia" che per la gravità dell'infezione.

Insomma che piaccia o meno c'è della "razionalità" anche nella scelta di non vaccinare se nei criteri della scelta si comprende anche la variabile temporale, sconosciuta nel modello della scelta razionale, che rafforza l'influenza della componente emotiva sulla decisione (il rammarico per l'eventuale effetto avverso da vaccino, qui ed ora). E' una constatazione avulsa da giudizi di valore, relativa all'architettura temporale della scelta, influenzata dalla dimensione emozionale e dal contesto socioculturale.

giovedì 8 dicembre 2016

I CReG, primo bilancio dell'esperienza lombarda e prospettive future

In un recente convegno dell'ATS di Brescia, dedicato agli scenari attuali e alle prospettive dell'assistenza primaria in Italia e in Lombardia, il Prof. Longo della Bocconi ha presentato i risultati di uno studio commissionato dalla regione sul data base dei medici aderenti ai CReG negli ultimi 4  anni.  E' stata condotta un'analisi sulla popolazione di medici coinvolti nel progetto e degli oltre 81000 assistiti arruolati nei CReG, focalizzata sui costi, sui consumi e sull'efficacia assistenziale. A detta dell'economista sanitario della Bocconi i CReG rappresentano un modello innovativo di gestione della cronicità sul territorio, nell'ambito della cosiddetta Health Population Management.

Dala data base regionale è emerso il dato di un 37% di prevalenza delle patologie croniche, equamente suddivise tra assistiti portatori di una singola patologia e soggetti pluripatologici. Data la prevalenza di questi ultimi è necessario il superamento dei PDTA monopatologici a favore dei PAI, o Piani Assistenziali Individuali, per la personalizzazione della presa in carico e della previsione dei consumi sanitari.

L'analisi della popolazione degli assistiti arruolati ha preso in esame quattro aree: tipologia degli assistiti presi in carico, profilo professionale dei MMG aderenti al progetto, dati di processo/attività r percorsi di consumo. Degli 81000 cronici lombardi inseriti nei CReG solo 7000 circa (8,1%) non hanno avuto la compilazione del PAI mentre le categorie più reclutate sono state quelle dei diabetici e dei cardiovascolari (asmatici e BPCO, invece, i meno "gettonati").

Riguardo alla scelta degli assistiti i medici non hanno selezionato i meno problematici (cream screening) ma al contrario hanno scelto in prevalenza soggetti di età elevata (70-79 anni) a più elevata complessità e verosimilmente con alta frequenza di contatti ambulatoriali così suddivisi: il 34,6 con una patologia, il 44,2 con due patologie e i restanti con 3 o più.

Il profilo del MMG aderente al progetto è quello di un medico maschio, ultracinquantenne, massimalista, con elevata percentuale di cronici e con uno studio ben organizzato. L'adesione geografica è stata più elevata ed omogenea nelle ASL dove il referente era una Cooperativa di MMG. Uno dei risultati preliminari più significativo è stata la riduzione prestazioni ripetitive inutili, specie degli accertamenti diagnostici.

Ai Centri servizi dei CReG sono demandati il controlli della compliance degli arruolati riguardo ai controlli periodici (scadenze imminenti) e alla verifica dell'adesione al PAI ex-post: nel complesso sono stati eseguiti meno di 1 contatto annuo per ogni assistito di cui 47,2% per scadenze e 28% di adesioni al PDTA.

Consumi. Gli assisti arruolati hanno registrato consumi lievemente superiori alla tariffa media per ogni categoria mentre la quota ospedaliera è risultata inferiore rispetto ai non arruolati. Inoltre i tassi di crescita per ricoveri a bassa intensità assistenziale dei pazienti in CReG sono risultati più contenuti rispetto ai non arruolati nell'arco temporale dei 4 anni analizzati. Anche il differenziale dei consumi farmaceutici tre arruolati e non tende a diminuire sul medio-lungo periodo.

Nel complesso questi primi dati dimostrano, secondo il docente della Bocconi, la validità dell'architettura di sistema del progetto, che avvicina i medici ai decisori ed offre un'occasione di confronto (benchmarking) tra aziende sanitarie, gruppi di medici, distretti etc.. E' stata registrata una positiva riduzione della variabilità dei consumi ripetitivi, relativa alla popolazione di assisti anziani, a medio-bassa complessità, che contribuisce a rendere visibile e valutabile la pratica professionale dei MMG.

Restano aperte alcune questioni, come la definizione dei target clinici e degli incentivi, le modalità della carente integrazione tra MG e Specialistica, il ruolo del Centro Servizi e il significato della libertà di scelta del cittadino, da interpretare nel senso della presa in carico complessiva superando la logica delle singole prestazioni parcellari.

sabato 19 novembre 2016

Codice di priorità Urgente tra interpretazioni burocratiche e pratica clinica

L'ATS di Brescia, su sollecitazione di alcuni MMG, ha diffuso una nota interpretativa dei codici di priorità della richiesta di prestazioni diagnostiche tramite la ricetta dematerializzata. Il problema era sorto in particolare riguardo al Codice U (urgente) in relazione alla dicitura che compare sul pro-memoria cartaceo della prescrizione, che recita: "Nel più breve tempo possibile o, se differibile, entro 72", lasso temporale che fa riferimento in Lombardia alla tempistica del cosiddetto "bollino verde".

Ecco l'interpretazione dell'ATS, le precisazioni sulla prescrizione, nonchè gli errori più comuni nella richieste di prestazioni urgenti:

Urgenza differibile, ovvero “il bollino verde”: entro 72 ore dal momento della prenotazione, che deve essere fatta entro 48 ore dalla prescrizione del curante. Le modalità operative previste sono:
1. Sulla ricetta rossa (redatta a mano oppure con il SISS) va apposto il bollino verde e barrata la classe di priorità “U”;
2. Sulla ricetta dematerializzata va barrata unicamente la classe di priorità “U” e non va apposto il bollino verde;
3. Sulla prescrizione dello Specialista non può essere apposto il bollino verde o barrato il codice “U” da parte del MMG, deve essere emessa una nuova prescrizione;
4. Qualora si verifichi la riacutizzazione di una patologia cronica che richieda una visita con classe di priorità “U”, va redatta la prescrizione di Prima visita;
5. Qualora si tratti di prestazioni afferenti alla branca di laboratorio non deve essere apposto il bollino verde in quanto ad accesso diretto senza prenotazione.

La medesima nota elenca le prestazioni ritenute potenzialmente inappropriate in urgenza e i più comuni errori di compilazione:
esami strumentali considerati di secondo livello (ecg-dinamico – ecodoppler cardiaco a riposo e dopo prova fisica, test da sforzo con cicloergometro, monitoraggio 24H dell PA, ECG, potenziali evocati, OCT, campo visivo, patch test);
prestazioni terapeutiche (prestazioni riabilitative, iniezioni intra-vitreali, iniezioni intra-articolari,etc.) o che necessitano di preparazione all’esecuzione dell’esame superiore alle 72 ore previste (es. Colonscopia);
indagini radiografiche semplici (RX torace, RX arti, RX colonna, etc.), di norma erogate in accesso diretto (senza prenotazione).
assenza di quesito diagnostico;
quesito diagnostico inappropriato/generico dal quale non è evincibile il carattere d’urgenza;
biffatura di classi di priorità incongrue con l’urgenza (classe P) e chiesta Urgente con esenzione per patologia (follow up);
diciture “sostitutive” del bollino verde o della classe di priorità quali “urgente”, “con cortese sollecitudine”, etc.

Come si può notare le precisazioni dell'ATS non risolvono la dicotomia del codice di priorità Urgente e non forniscono una interpretazione pratica della prima parte della formula, che compare sul pro-memoria della ricetta dematerializzata: l'espressione "Nel più breve tempo possibile" infatti connota chiaramente una richieste di prestazione da erogare nelle strutture di emergenza/urgenza, in alternativa all'urgenza differibile, che viene invece instradata nelle strutture ambulatoriali "ordinarie", generalmente con prenotazione allo sportello o tramite telefonata al CUP.

Chiunque abbia una minima esperienza di medicina del territorio sa che esiste una sostanziale differenza tra le due formulazioni della priorità Urgente - non solo in termini burocratico-amministrativi ed organizzativi - che attiene elettivamente ad una valutazione clinica del singolo caso (l'esempio paradigmatico è il dolore precordiale tipico, che necessita di una gamma di accertamenti clinico-specialistici nel più breve tempo possibile in PS e non certo di un semplice ECG, per giunta differito di 24-72 ore in un poliambulatorio periferico!).

Come ovviare quindi a tale incongruenza che espone l'assistito al rischio di posticipare una accertamento diagnostico "salva-vita" e il medico prescrittore al rischio della denuncia per malapratica.  Ancora una volta è la pratica a suggerire le modalità per connotare correttamente, in relazione alle condizioni cliniche, la prescrizione di accertamenti o visite specialistiche Urgenti. Ecco le alternative possibili:

Richiedere una Visita in PS Urgente, sia cartacea che dematerializzata,  ad esempio per sospetta sindrome coronarica, ischemia cerebrale o addome acuto, sindrome meningea etc.
Richiedere una Visita con Urgenza su ricetta rossa (nel senso del "Nel più breve tempo possibile") compilata a penna e non con il PC (evenienza comune al domicilio del paziente)
Richiedere una valutazione Urgente in Pronto Soccorso utilizzando il ricettario personale
Richiedere una visita con priorità Urgente utilizzando la ricetta dematerializzata ma evidenziando "nel più breve tempo possibile" ed inserendo questa stessa dicitura nello spazio del quesito diagnostico (Nel più breve tempo possibile in PS, per sospetta sindrome coronarica acuta, ischemia cerebrale, colecistite/pielonefrite acuta etc..)

Va da se che questi suggerimenti sono prioritariamente rivolti alla tutela etica e deontologica della salute degli assistiti  e, nel contempo, alla prevenzione del rischio medico-legale per il medico curante.

mercoledì 9 novembre 2016

Contro l'uso improprio delle medie di spesa farmaceutica per valutare l'appropriatezza prescrittiva

Periodicamente le cronache locali informano di interventi della ASL contro MMG accusati di iperprescrizione inappropriaata di farmaci, a base di convocazioni individuali per fornire chiarimenti in rapporto allo scostamento della spesa farmaceutica individuale rispetto alle medie di ASL e/o regione. L'ultimo caso finito nella cronica giudiziaria è quello del medico che è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire circa 15000 Euro per prescrizioni inappropriate, in quanto le "dosi dei farmaci erano superiori a quelle assumibili dall’assistito nel periodo di tempo considerato, tenuto conto delle indicazioni fornite dal produttore e approvate dal Ministero della salute" (http://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=44223&fr=n)

Al di la del caso specifico, iniziative del genere si basano implicitamente su una sorta di budget finanziario per tetto di spesa individuale, in riferimento alle medie di spesa farmaceutica dell'ASL o della regione, prive di valore sia scientifico-statistico che epidemiologico ed economico-sanitario. Le medie di spesa in astratto e irrelate rispetto ai comportamenti clinici (indicatori di processo ed esito descritti dai vari PDTA) e all'epidemiologia del singolo medico (composizione anagrafica e prevalenza delle patologie croniche) non hanno significato. Inoltre esiste anche il problema speculare, non meno rilevante ma spesso trascurato o addirittura misconosciuto, ovvero quello degli ipo-prescrittori, che non sono affatto e automaticamente medici “virtuosi”, ma possono all’opposto essere accusati di scadente qualità assistenziale (ogni forma di valutazione risente dai parametri e dagli indicatori utilizzati per considerare l'appropriatezza clinico-prescrittiva, che nulla ha a che fare con il rispetto astratto e ragionieristico delle medie di spesa).

Bisogna spostare il baricentro della valutazione dal versante finanziario a quello scientifico e culturale, ovvero sui comportamenti prescrittivi a fronte della tipologia dei pazienti in carico, degli obiettivi/risultati clinici attesi e in relazione alle buone pratiche delle linee guida e dei PDTA, da documentare con dati estratti dai propri data-base. Se mancano queste condizioni si finisce per subire passivamente i diktat finanziari di funzionari che non sempre hanno un'adeguata preparazione scientifica per poter valutare l'operato del MMG sotto il profilo clinico-prescrittivo e degli indicatori di processo ed esito.

A fronte dell'accusa di inappropriatezza la linea da adottare per replicare alla contestazione prevede il ricorso a tre diverse fonti di dati statistici, estratti in dal proprio SW professionale, in una sequenza gerarchica che va dal generale al particolare:

1-La composizione anagrafica degli assistiti: se un MMG dimostra di avere in carico un numeropì di over65, grandi anziani, invalidi civili e con accompagnamento superiori alla media dell'ASL è già sulla buona strada, poichè i consumi sono correlati con queste variabili di per sè, cioè indipendentemente da altri parametri per via della progressione delle malattie croniche correlata alll'aumento dell'età media della popolazione assistita.

2-La prevalenza delle patologie croniche o rare: se un MMG ha ad esempio una prevalenza del 10% di diabetici - vale a dire un 30% circa in più rispetto alla prevalenza media dell'ASL - già questo semplice dato, peraltro correlato al precedente, giustifica uno sfondamento proporzionale delle prescrizioni di farmaci rispetto alla media ASL. Idem per quanto riguarda le più frequenti complicanze CV come by-pass, PTCA, insufficienza renale ed alcune patologie a bassa prevalenza (dializzati, emofilici, assistiti con malattie rare, immunodeficit, disabili, trapiantati, malati terminati, polipatologie invalidanti, epatiti croniche etc..). Va da sè che le medie individuali di spesa si distribuiscono statisticamente in modo gaussiano in relazione al case mix epidemiologico individuale e ai comportamenti prescrittivi.

3-La prescrizione di farmaci con nota o/o suggeriti. Questo è il terzo fronte difensivo, quello più specifico: se un MMG utilizza in modo puntuale l'origine spesa (mi riferisco alla funzione di MilleWin) può dimostrare che la prescrizione di alcuni farmaci costosi è stata indotta dallo specialista. Un esempio paradigmatico è quello dei colliri anti-glaucoma: è evidente che non si puo' imputare un eccesso di spesa al MMG dal momento che non ha alcun ruolo nella diagnosi e nel monitoraggio clinico dell'ipertensione oculare, fattore di rischio gestito in toto e in completa autonomia dall'oculista, ma senza la relativa responsabilità prescrittiva.

La spesa indotta o gestita dalle strutture specialistiche andrebbe detratta dai "conti" del MMG, specie per alcune categorie di assistiti e/o di farmaci ATC, ad esempio tutte le molecole con Piano terapeutico specialistico (interferoni, anticoagulanti di ultima generazione, anti-neoplastici, ormonali, fattori di crescita ematologici e della coagulazione, immunomodulatori, antidiabetici di recente introduzioneetc..) o i farmaciprescritti a pazienti in carico ai centri specialistici (trapiantati renali e dializzati, diabetici tipo I o complicati, in carico ai centri, etc..).

Per finire qualche esempio pratico per dimostrare che non conta tanto il confronto astratto tra parametri finanziari ma tra questi e i comportamenti prescrittivi, a fronte delle prevalenze delle principali patologie croniche e delle buone pratiche cliniche suggerite da Linee Guida e PDTA locali. Un medico potrebbe risultare ipo-prescrittore perchè ha una bassa prevalenza di diabetici e/o ipertesi nella propria popolazione, oppure perchè ha una prevalenza elevata ma utilizza in misura superiore alla media farmaci generici. Entrambi sono da considerare ipo- ma per motivi antitetici: il primo forse perché non fa diagnosi mentre il secondo al contrario è in linea con le prevalenze attese nella popolazione generale, ma privilegia alcune categorie ATC rispetto ad altre.

All’opposto un iper-prescrittore potrebbe essere "accusato" di ingiustificato eccesso di spesa per farmaci anti-diabetici. Un medico potrebbe avere dalla sue delle ottime ragioni: prima di tutto la prevalenza di diabetici potrebbe superiore alla media, per via dell'anzianità della sua popolazione, e per giunta la supposta iper-prescrizione potrebbe essere giustificata in quanto alcuni assistiti potrebbero essere seguiti da centro specialistico con tendenza a prescrivere farmaci “costosi” di ultima generazione con piano terapeutico. In sostanza medico averbbe una media di spesa iper- per motivazioni più che valide, sia personali che collegate al contesto professionale.

giovedì 27 ottobre 2016

Prescrizioni con priorità Urgente: differibili o nel più breve tempo possibile?

Con l'avvio della dematerializzazione delle richieste di prestazioni ambulatoriali l'indicazione del codice di priorità compare per esteso sul promemoria cartaceo ed è fonte di problemi interpretativi della norma in vigore dall'estate del 2015. In caso di priorità Urgente la dizione presente sul promemoria è duplice ("nel più breve tempo possibile o, se differibile, entro 72 ore") in quanto riflette la pratica corrente:
   l'applicazione del "bollino verde" sulla ricetta cartacea indica che la prestazione può tranquillamente essere eseguita entro le 72 ore mentre
   viceversa senza il bollino la prescrizione è connotata dall'Urgenza nel senso dell'esecuzione entro il più breve tempo possibile, in genere tramite il PS.

A mio parere non si tratta di una questione puramente lessicale o di punteggiatura, ma il riflesso di due diverse valutazioni CLINICHE con le conseguenti decisioni PRATICHE. Questa distinzione temporale non è casuale o cavillosa in quanto corrisponde a due interpretazioni dell'Urgenza, abituali al tempo della "ricetta rossa" ma ora non distinguibili con la prescrizione su ricetta dematerializzata, dal momento che la priorità Urgente viene assimilata dalle Aziende Sanitarie alla sola forma differibile.

Nella pratica ambulatoriale le due forme di urgenza non sono equivalenti, come dimostrano i seguenti esempi pratici. Di fronte ad una precordialgia "sospetta" chiedo abitualmente una visita urgente in PS e non certo una consulenza con urgenza differibile, che riservo invece a casi più sfumati, tipo una precordialgia atipica con aritmia cardiaca, magari in un assistito asintomatico ma a rischio CV elevato.

Analogamente in caso di sospetta appendicite o colecistite non ricorrerò certo al bollino verde, ma chiederò una consulenza chirurgica urgente in PS, per il rischio di una rapida evoluzione in peritonite della patologia. D'altra parte può anche accedere il contratio, ovvero che lo specialista dopo una visita urgente differibile disponga l'invio dell'assistito in PS per un'urgenza non differibile, decisione giudicata più appropriata rispetto alla situazione contingente.

La riprova che la duplice tipologia della priorità U (quella "nel più breve tempo possibile" e quella "differibile") non sono pratiche equivalenti, ma la descrizione di scelte prescrittive difformi riguardo al tempistica della prestazione, è dimostrata anche dal livello amministrativo:
vi sono due distinti percorsi organizzativi (accesso in PS versus prenotazione tramite iCUP o sportello amministrativo, in caso di bollino verde) per le due tipologie di urgenza e dal fatto
che in PS il bollino verde non viene preso in considerazione ed anzi criticato, in quanto usato impropriamente per accedere alle strutture di emergenza/urgenza.

Questa interpretazione è avvalorata anche dalla normativa sul "bollino verde", che fa riferimento ad una prestazione da eseguire "entro 72 ore", senza citare la formula "nel più breve tempo possibile". Non è un caso, perchè l'urgenza differibile è stata introdotta, ormai 15 anni or sono, proprio con l'intento di ridurre l'accesso improprio al PS, deviando le urgenze inappropriate sul "bollino verde", cioè verso le strutture ambulatoriali ordinarie inadatte a fronteggiare le urgenze vere e proprie.

Inutile sottolineare i delicatissimi risvolti medico-legali delle due diverse tipologia di prescrizioni urgenti, e proprio per questo il parere di un esperto in materia sarebbe quanto mai opportuno.

mercoledì 26 ottobre 2016

Vaccinazioni tra scelta razionale ed emozioni

Le vaccinazioni sono sempre al centro dell'interesse e del dibattito pubblico. Alcuni fatti hanno riacceso i riflettori sul rifiuto delle vaccinazioni per i nuovi nati: da un lato alcune regioni stanno promuovendo normative per rendere obbligatorie le vaccinazioni ai fini dell'iscrizione alla scuola dell'infanzia e dall’atro vengono segnalati casi di provvedimenti disciplinari da parte degli Ordini dei medici di Treviso e Firenze verso camici bianchi anti-vaccini, mentre il presidente Mattarella ha espresso la sua opinione in un recente discorso giudicando pubblicamente "sconsiderato chi critica i vaccini".
Se i genitori decidessero solo in modo distaccato, a mo' di freddi statistici bayesiani, non si porrebbe la questione del calo delle vaccinazioni nei bambini, perchè il beneficio atteso è inequivocabilmente a favore della vaccinazione. A dimostrazione di quanto sia influente l’aspetto emotivo sulle decisioni riguardanti la salute, basta ricordare l'effetto che ebbero nel 2014 le notizie sui presunti decessi attribuiti al vaccino influenzale Fluad, con un calo del 30% circa delle adesioni alla campagna vaccinale. E in quel caso si trattava della salute del diretto interessato e non di decidere per un minore come il proprio figlio, con tutti i risvolti psicologici di tale decisione in termini di responsabilità genitoriale e di rammarico per eventuali conseguenze negative della vaccinazione, seppur rare.
Tra gli addetti ai lavori ci si interroga sulle motivazioni che spesso spingono i genitori a rifiutare di vaccinare i propri piccoli, e sulle dinamiche psicologiche alla base di tale decisione, nonostante siano noti i dati sul rischio di gravi complicanze da morbillo, come la temibile encefalite. Alla base di questa scelta vi è, a mio parere, un'asimmetria temporale del giudizio probabilistico e una distorta percezione degli effetti avversi della vaccinazione, evento “artificiale” attuale, rispetto al fatto "naturale" della futura ipotetica malattia. Dal punto di vista della teoria della scelta razionale, il decisore dovrebbe scegliere di sottoporsi o meno ad una pratica medica seguendo un processo decisionale scandito dalle seguenti tappe:
  • considerare i potenziali corsi d'azione da intraprendere;
  • per ognuno valutare le conseguenze, positive o negative, vantaggi e svantaggi;
  • per ogni esito calcolare la probabilità del suo verificarsi;
  • infine comparare le stime e scegliere l’azione che garantisce la massima resa (la massimizzazione dell’utilità attesa) sia oggettiva che soggettiva.
Nella prospettiva della scelta razionale la decisione si configura come un bivio attuale, come un'opzione alternativa al tempo presente, come un bilancio tra rischi e benefici con esiti immediati o a breve termine. Gli esempi in campo medico riguardano ad esempio la scelta tra una terapia medica ed una chirurgica, oppure tra due tecniche chirurgiche con diversi rapporti tra benefici e rischi, oppure ancora tra una terapia radiante ed una chirurgica, come nel caso della terapia del Ca prostatico. 

Nel caso della vaccinazione invece si deve confrontare, in termini matematico-statistici, un beneficio a lungo termine (prevenzione della malattia e delle eventuali gravi complicanze) con un rischio attuale (effetti collaterali e complicanze del vaccino). In pratica la decisione finale emerge dal raffronto tra i due ipotetici rischi, collocati su piani temporali sfasati, grazie ad un freddo ragionamento probabilistico, astratto e un po' astruso; purtroppo il computo razionale dei rischi non è proprio accessibile a tutti, ma anzi è a rischio (mi si passi il gioco di parole) di generare incertezze e dubbi. Per di più sul piatto della bilancia decisionale ha un peso determinante il beneficio sociale sovraindividuale (l'immunità di gregge) rispetto alle considerazioni utilitaristiche individuali. Tant'è che proprio le motivazioni di "salute pubblica" hanno giustificato l'introduzione dell'obbligo di legge, di chiara matrice paternalistica, a scapito del libero consenso individuale all'atto medico vaccinale precedentemente vigente. 
Aderendo alla proposta di vaccinazione il genitore espone deliberatamente e consapevolmente il proprio figlio ad un concreto rischio qui ed ora, sebbene molto piccolo; al contrario rifiutando la vaccinazione proietta lo speculare probabilità di contrarre la malattia, con l'eventuale complicanza, in un futuro indefinito ed aleatorio, com'è appunto il rischio di contagio in tempo imprecisato. Di contro la probabilità di gravi complicanze della malattia è più elevata degli effetti avversi da vaccino, senza tenere conto della "bufala" dell’autismo; nei confronti delle prime però i genitori non avvertono alcun tipo di responsabilità diretta, che invece peserebbe in caso di effetto collaterale del vaccino deliberatamente accettato, generando un rimpianto per aver esposto ad un rischio il proprio "cucciolo". 
In effetti nella scelta tra effetti preventivi della vaccinazione e rischi della malattia ha un ruolo preminente il fattore tempo che, come abbiamo visto sopra, non rientra nelle normali scelte tra due trattamenti medici di immediata attuazione. Lo scarto temporale tra vaccinazione immediata ed eventuale contagio futuro della malattia, con le ipotetiche conseguenze negative, influenza la valutazione dei rischi/benefici  e la scelta pro immunizzazione.  

E' in gioco un bias di valutazione probabilistica condizionato dall'asimmetria temporale dei due differenti rischi: da un lato vi è l’ansia per la messa a repentaglio qui ed ora del benessere del “cucciolo”, per via dei temuti effetti collaterali del vaccino, e dall'altro il rischio di un'ipotetica malattia proiettata in un futuro imprecisato. Ma oltre allo sfasamento temporale tra rischio di effetti collaterali attuali da vaccino e protezione dalle complicanze future della malattia, entra in gioco l'asimmetria cognitiva tra rimpianto per una perdita e vantaggio di un guadagno (quella che gli economisti comportamentali definiscono contabilità mentale). 

Come dimostra la teoria del prospetto il rimpianto per una perdita (ad esempio di denaro per un investimento) ha una valore doppio rispetto alla soddisfazione procurata da una simmetrica "vincita" finanziaria. Questa tendenza viene amplificata dal fattore fattore tempo che tende a svalutare i vantaggi e i benefici collocati in un orizzonte temporale indefinito rispetto a quelli immediati (scelta intertemporale).  Si può facilmente immaginare quanto conti questa asimmetria quando si tratta di decidere se aderire o meno ad una pratica sanitaria rischiosa, qui ed ora, a fronte di un beneficio "negativo" cronologicamente indeterminato!

Come suggerisce la psicologia evoluzionistica di fronte ad emozioni profonde e ancestrali, come la paura, c'è poco spazio per considerazioni e argomentazioni razionali, specie di natura probabilistica come il concetto di rischio, spesso fonte di equivoci e bias valutativi. Sulla bilancia decisionale a favore del rifiuto della vaccinazione pesa l'avversione per il rischio basata su due considerazioni concomitanti:
  • l'anticipazione del rammarico e del rimpianto per i paventati rischi di effetti avversi del vaccino (a parte naturalmente l'autismo mai dimostrato);
  • una sopravvalutazione quali-quantitativa degli effetti collaterali dei vaccini, in genere transitori e reversibili, ma erroneamente assimilati a quelli avversi più gravi e irreversibili, per fortuna rarissimi.
Per aderire con convinzione alla proposta di vaccinazione, ad esempio anti-morbillo, occorre superare l'asimmetria temporale, sopra descritta, che separa la vaccinazione dall'evento malattia, ma anche vincere lo "spettro" del rammarico per l'eventuale effetto avverso immediato del vaccino (l'avversione alle perdite). Se è vero che le mamme non sbagliano mai, parafrasando il titolo del libro del neuropsichiatra Bollea, in questo tipo di scelta le emozioni negative segnalano una differenza tra i due eventi non irrilevante: sui piatti della bilancia decisionale emotiva pesano, da un lato, un evento attuale e certo (la vaccinazione) che comporta un rischio attuale di effetti avversi - potenzialmente gravi, seppur rarissimi - mentre sull'altro piatto troviamo un evento futuro ed incerto (l’eventuale contagio della malattia) che a sua volta espone ad un rischio di complicazioni, ancor più aleatorie e improbabili rispetto al contagio stesso. Il confronto tra le due opzioni è influenzato dalla sinergia tra (i) l’asimmetria probabilistica temporale e (ii) il rammarico per il rischio di una perdita di salute; tale sinergia gioca psicologicamente a sfavore della decisione deliberata di accettare qui ed ora la vaccinazione, a fronte delle ipotetiche complicazioni di una ipotetica malattia lontana nel tempo.
Par superare la discrasia tra l’esposizione al rischio/rammarico per gli effetti avversi della vaccinazione e il futuro beneficio preventivo del vaccino, devono essere valutati gli effetti "ecologici" e sociali dell'immunizzazione, ovvero le cosiddette esternalità positive della vaccinazione di massa (l'immunità di gregge). Grazie alle campagne vaccinali su larga scala alcuni virus sono stati di fatto eradicati, come è accaduto con poliomielite, vaiolo etc.., mentre una bassa copertura vaccinale nella popolazione ne riattiva la diffusione, come invece pare stia avvenendo negli USA e in alcuni paesi europei. In questo senso l'immunizzazione di massa è equiparabile ad un bene comune, mentre nella decisione di non vaccinare prevalgono le motivazioni strettamente individuali ed "egoistiche". A mo’ di esempio contro-fattuale si immagini cosa sarebbe successo negli anni cinquanta se l'anti-polio non fosse stata obbligatoria!

Infine c’è un dato storico e culturale da non sottovalutare: quando le vaccinazioni erano per legge obbligatorie i genitori, specie le mamme, si sentivano deresponsabilizzati in partenza per eventuali effetti avversi, peraltro accettati e quasi fatalmente messi nel conto. La successiva volontarietà della vaccinazione ha enfatizzatola la percezione della responsabilità individuale per l’adesione alla campagna vaccinale e il conseguente rammarico in caso di problemi. A questo proposito si può quasi evocare il rischio di un effetto perverso e controintuitivo del principio di autonomia, del consenso informato e della responsabilizzazione individuale sulle decisioni riguardanti la propria salute.
In medicina hanno poco spazio i giudizi definitivi, irrevocabili e tanto meno una presunta certezza scientifica; contano solo le evidenze empiriche ed i dati di fatto, dai quali è doveroso partire per formulare valutazioni ponderate e razionali. Nessuno pretende di avere verità assolute e indiscutibili e tanto meno si illude e illude la gente che possa esistere il rischio 0, ad esempio di effetti collaterali a fronte di un'efficacia garantita a priori e senza alcun rischio. Forse coloro che contestano i vaccini sono invece convinti che esista una (presunta) scienza assoluta e deterministica, garante di esiti incontrovertibile priva di effetti collaterali, imprevisti e rischi minimi etc..
Tuttavia accanto ai dati di fatto empirici esistono le immagini/rappresentazioni della realtà, frutto di credenze culturali condivise ed influenzate dalle emozioni, ma spesso slegate dai fatti stessi; ad esempio, riguardo alle vaccinazioni, i dati di empirici le accreditano tra le pratiche mediche con il più solido bagaglio di prove di efficacia. Peraltro basta aver seguito un solo assistito affetto da esiti di poliomielite per rendersi conto della portata storica dei vaccini e dei loro spettacolari effetti sulla salute pubblica e sul benessere individuale, specie dei più piccoli. Infine si consideri l'importanza dell'immunizzazione di massa nei cosiddetti paesi in via di sviluppo: se solo in Africa si riuscisse a vaccinare tutta la popolazione infantile, contro le principali malattie infettive, si salverebbero tantissime vite umane!

sabato 22 ottobre 2016

Continua la querelle sul (non)utilizzo del ricettario da parte degli specialisti

Una lettera di garbata protesta al "Quotidiano sanità" ripropone la vaexata questio dell'uso del ricettario del SSR da parte degli specialisti accreditati, siano pubblici che privati (il libero-professionista non solo non ne è tenuto ma è oggetto di un esplicito divieto all'uso del ricettario "pubblico"):
http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=44207

Sia l'estensore della lettera che i colleghi citati nell'episodio, attinente alla titolarità della prescrizione di Rx-grafia e controllo ortopedico dopo una frattura, fanno un po' di confusione tra le diverse normative vigenti, ovvero:

1-l'obbligo per lo specialista, a norma degli ACN nazionali e di delibere regionali ad hoc, di utilizzare il ricettario del SSN, di cui è in possesso, nel caso in cui ritenga necessarie ulteriori indagini diagnostiche per rispondere al quesito clinico posto dal Medico di MG; questo semplice atto semplificherebbe e migliorerebbe la vita dei malati costretti, in caso contrario, a tornare dal proprio medico, fare la fila per avere la prescrizione negata dallo specialista, recarsi nuovamente in ospedale o passare mezze ore al telefono per la prenotazione al CUP;

2-l'obbligo di rispettare i vincoli del Decreto Appropriatezza nel momento in cui decida di prescrivere gli approfondimenti diagnostici di cui sopra. A mio avviso la richiesta della visita di controllo+ Rx grafia dopo una frattura, a distanza di alcune settimane dall'accesso in PS e dal confezionamento dell'apparecchio gessato, compete al medico curante, anche se la normativa non è univoca su questo aspetto. Tuttavia questa specifica incombenza nulla ha a che fare con il Decreto Appropriatezza, che peraltro è stato sospeso, e viene impropriamente evocato per supportare il rifiuto di una prescrizione di routine, a mio avviso dovuta come quella della radiografia, esame per di più non compreso tra le prescrizioni normate dal Decreto Appropriatezza.

3-Un terzo caso è quello dei farmaci. Va da se che la prescrizione dei farmaci in urgenza, ad esempio dopo un accesso in PS, è compito del medico che ha visitato l'assistito, posto la diagnosi e la conseguente indicazione terapeutica, mentre per quanto riguarda quelli cronici è altrettanto logico e di buon senso che sia il medico curante a farsene carico, per due ordini di motivi. Prima di tutto perchè non ha senso obbligare l'assistito a recarsi in ospedale per avere una prescrizione cronica - tranne i rari casi di distribuzione diretta dei farmaci da parte delle strutture - e secondariamente perchè fa parte dei compiti elettivi del MMG il monitoraggio e la sorveglianza della terapia cronica, in relazione alla patologia in atto, per la verifica dell'efficacia, di interazioni, eventuali controindicazioni o reazioni allergiche anamnestiche, effetti collaterali o avversi durante la terapia prolungata.

In buona sostanza le prescrizioni in caso di assistiti "in acuto", sia indagini di approfondimento che terapie, competono al medico specialista mentre le prescrizioni di controllo sul medio periodo restano a carico del MMG, anche se le normative in questo specifico settore non sono chiare.

mercoledì 12 ottobre 2016

In autunno entra in azione Google Trends, il nuovo servizio epidemiologico

Com’è tosta l’influenza quest’anno! Con questa espressione di sorpresa si aprono molte consultazioni negli ambulatori dei medici di MG nei due mesi invernali più "caldi" per via dell’epidemia influenzale. Lo stupore dell’influenzato si ripete puntualmente ogni anno dopo aver fatto esperienza dei sintomi generali che porta con se da sempre il virus, altrettanto puntualmente confuso con la pletora di altri virus responsabili della maggior parte delle infezioni delle prime vie aeree, complice i media che non distinguono gli sporadici focolai di adenovirus, rinovirus, virus respiratoci sinciziali etc.. dalla vera epidemia influenzale, generando una gran confusione quella si "pandemica".

Durante i mesi autunnali e invernali infatti circolano moltissimi virus, responsabili di sintomi come mal di gola, raffreddore con naso chiuso e gocciolamento, tosse secca etc., meno impegnativi del virus targato HN, di breve durata e quasi mai accompagnati da febbre elevata o persistente oltre 2-3 giorni. Nella sua forma tipica invece l’influenza presenta ben altra sintomatologia, soprattutto per l’interessamento sistemico.

Anche quest'anno puntualmente con la stagione autunnale è arrivata la prima ondata di virus respiratori para-influenzali, che hanno trovato terreno fertile negli asili e nelle scuole elementari per poi diffondersi in piccole epidemie familiari. Le virosi respiratorie sporadiche non vengono in genere intercettate dai sistemi di sorveglianza epidemiologica nazionali, come la rete influnet, rivolti alle vere influenze che solitamente iniziano a segnalare i primi casi dalla metà di dicembre, per poi seguire settimanalmente, passo passo, la diffusione dell'epidemia durante le abituali 6 settimane di incremento, più o meno rapido, picco e declino.

Ma da qualche anno a questa parte c'è un'inedito sistema di sorveglianza dell'epidemia influenzale che ha dimostrato, dati alla mano, di avere un'efficacia e un'attendibilità praticamente sovrapponibile a quelli tradizionali, ma praticamente in tempo reale: mi riferisco a Gooogle Trends, il servizio statistico dell'omonimo motore di ricerca che è in grado di fornire i dati dettagliati delle ricerche effettuate dagli utenti in base alle parole chiave immesse nel motore stesso (https://www.google.it/trends/ ) in tutto il globo, in ogni continente o nazione, anno per anno, mese per mese e addirittura ad ogni ora del giorno.

Il servizio prevede anche la possibilità di attivare un avviso di allerta in caso di aumento significativo delle ricerche su parole chiave, come appunto "influenza". Ebbene nelle settimane di passaggio da settembre da ottobre è stato rilevato un incremento del 57% e del 108% di ricerche con il termine "influenza", con un picco l'8 ottobre, che testimonia, appunto, la prima pseudo-epidemia della stagione autunnale. Così la ricerca su internet di uno specifico termine nosografico, usato impropriamente dai naviganti "pseudo-influenzati", permette di ricostruire l'andamento epidemiologico delle virosi respiratorie stagionali, rilevazione epidemiologica improponibile se non impossibile con sistemi di segnalazione più accurati ma più impegnativi, come quelli tradizionali.

domenica 9 ottobre 2016

Anche la guaritrice apprezza il reverendo scozzese!

Un tempo nei paesi di campagna la gente si rivolgeva per piccoli acciacchi fisici, in genere di natura ortopedica, alla guaritrce del posto dotata di abilità manuali per rimettere a posto "i nervi", ovvero tendini "accavallati" o articolazioni lussate o distorte, restituendo il benessere al "paziente". Molte sono ormai invecchiate e non praticano più, ma alcune sono rimaste in campo ed hanno anche saputo adeguare la loro metodologia all'evoluzione delle prassi mediche. Ecco ad esempio gli esiti di due consultazioni di una guaritrice popolare, ben nota nel paese della bassa lombarda, alle prese con alcuni tipici problemi della MG, come riferiti da un collega in una lista di discussione medica.
  • "Doveva venire da me prima, ora faccio ciò che posso, intanto vada dal suo medico e si faccia fare una Risonanza e prenda : Voltaren e Soldesam forte 2 volte al giorno. Lasci un' offerta libera e vedrà che la guarirò! Ah dimenticavo: protegga anche lo stomaco, si faccia ordinare una....pompa, non ricordo come si chiama..!"
  • "Ha mal di testa? Faccia subito, ma subito una TAC e si faccia mettere il bollino verde, il suo medico li ha...". "Non digerisce? Faccia un eco e meglio ancora una gastroscopia, non si sa mai!".
Anche a me è capitato qualche anno fa un caso simile. Di fronte ad una caviglia tumefatta e dolente, la signora che sistema i "nervi accavallati", aveva rinviato il paziente al medico per fare una radiografia. In sostanza si era tutelata da un possibile misconoscimento diagnostico, per la sottovalutazione di una lesione ossea scambiata per semplice distorsione. L'episodio segnalava un passo in avanti verso un approccio razionale e critico, per una diagnosi di certezza (relativa, ovviamente) e non solo di presunzione come quella manuale. La "guaritrice" dimostrava di aderire ad un impostazione (proto)fallibilista, che parte dalla differenza tra realtà e rappresentazione, tra mappa e territorio, per andare a verificare la fondatezza dell'ipotesi diagnostica.

Nei due episodi sopra citati invece mi pare che la guaritrice nostrana faccia un salto di qualità metodologico, in direzione di un approccio più sofisticato: prende in considerazione un ventaglio di ipotesi diagnostiche per arrivare alla conferma di una di queste, dopo aver raccolto alcune informazioni di base per una valutazione probabilistica delle ipotesi stesse. Gli esami che suggerisce segnalano un'ulteriore evoluzione anche se la prescrizione è rozza e applica, in modo meccanico, lo schema se...allora (lombalgia=RMN della colonna, cefalea=TAC encefalo). Ma non c'e' da disperare, prima o poi anche l'approccio bayesiano fara' breccia nel suo (ancora) sommario processo diagnostico.

Anzi, a ben vedere la guaritrice nostrana ha già adottato uno sguardo proto-bayesiano, perlomeno nel caso di probabile dispepsia funzionale. Grazie all'esperienza ha capito che il suo target ideale, i probabili responder alle sue tacniche curative, sono quei pazienti che hanno gia' provato tutti i rimedi dei medici ufficiali. Sono i cosiddetti MUS (Medically Unenxplaned Symptom), ovvero gli sfortunati affetti da disturbi inspiegabili con gli esami usuali e ancor più difficili da trattare con l'armamentario farmacologico a disposizione del MMG, ma in genere sensibili all'effetto placebo delle sua "terapia".

Per cui di fronte ad un problema come la dispepsia si guarda bene dall'intervenire subito ed imposta un iter diagnostico differenziale tra le due ipotesi più probabili, ovvero dispepsia di origine epato-biliare piuttosto che gastroduedenale. Solo dopo aver escluso la natura organica del disturbo, da curare in modo specifico da parte del medico, avrà una sufficiente probabilità a priori di aver a che fare con un caso di MUS e potrà quindi sfoderare le sue armi terapeutiche con discreto successo, grazie al suo primo alleato ovvero l'effetto placebo.

E' proprio vero quello che annotava lo stagirita: "tutti gli uomini per loro natura tendono alla conoscenza". A quanto pare accede pure alle guaritrici nostrane e questa è una buona notizia! C'e' speranza se cio' accade anche nella bassa padana, per parafrasare un'altro motto celebre della pedagogia lombarda!

mercoledì 21 settembre 2016

Confronto tra CReG lombardi e Governo Clinico dell'ATS di Brescia

Attorno alle patologie croniche, da una quindicina di anni, si affollano progetti per affrontare quella sorta di pandemia che ormai interessa non solo le nazioni più ricche e sviluppate del pianeta. L’area delle cure primarie è investita da una varietà di proposte gestionali e modelli organizzativi, contrassegnati da altrettanti strani acronimi: CCR (Cronic Care Model), DM (Disease Management), CReG (Cronic Realted Group), GC (Governo Clinico) etc..

Gli ultimi due riguardano specificatamente la regione Lombardia, in cui si sono sviluppati nell’ultimo decennio: l’uno, il Governo Clinico, a livello provinciale dal 2005 (ASL ora ATS di Brescia: https://reteunire.wordpress.com/info/la-rete-unire-alla-prova-del-governo-clinico/ ) e l’altro invece a dimensione regionale dal 2010, seppur in un primo tempo in forma sperimentale solo in alcune ASL ( http://tinyurl.com/hxk95vp, http://tinyurl.com/gvlo5oz ).

Se si confrontano l'impianto "teorico", il metodo e gli esiti dei CReG con il razionale e i risultati dell'esperienza decennale di GC le differenze appaiono evidenti.  In comune hanno il medesimo oggetto (la gestione delle patologie croniche) ma per il resto le differenze di impostazione, metodo ed obiettivi non mancano. Proviamo a confrontare schematicamente il profilo "diagnostico" differenziale dei due modelli.

   Progetto bottom-up versus top-down e poco condiviso. E' stato osservato che nessuno degli ideatori dei CReG si è preoccupato di consultare i diretti interessati nel momento di progettare l'apparato organizzativo proposto alla Medicina Generale; la normativa è stata calata dall'alto, a prescindere dalle condizioni del contesto e dalle pratiche della medicina del territorio. Esattamente l'opposto del GC, nato dall'esperienza di gestione del diabete mellito, cresciuto elettivamente dal basso, supportato da una formazione continua in piccoli gruppi distrettuali, sottoposto ad aggiustamenti delle procedure sulla base dei risultati, con correzioni e revisioni dei PDTA, l'architrave clinica del progetto etc... Insomma da un lato una gestione concertata e condivisa dal basso, sebbene "alla buona", a fronte di un progetto astratto rispetto al contesto e calato dall'alto senza adeguata condivisione.

   Gestione informale versus formale. L'informalità della gestione dei singoli casi e dell'applicazione dei PDTA nel setting della MG è la cifra dell'esperienza del CG, in continuità con il progetto di Disease managment; al contrario i CReG scontano una tendenza alla formalizzazione, un'impostazione contabile e logiche prevalentemente finanziarie, sul modello dei DRG nosocomiali per l'acuzie. Come ho cercato di dimostrare nel post precedente, i DRG per le loro caratteristiche non possono essere meccanicamente trasferiti al territorio e alla cronicità, ma devono per forza adattarsi alle caratteristiche del contesto, in cui prevale l'informalità della relazione fiduciaria e della presa in carico.  
                                                                                                   
   Procedure semplificate versus burocratizzazione. L'apparato burocratico-amministrativo previsto dai CReG è farraginoso e barocco - in stridente contrasto con la retorica della semplificazione delle procedure - specie se confrontato con la semplicità e linearità del GC, rispettoso delle pratiche e adattato al contesto operativo delle cure primarie; con il passare degli anni il GC si mimetizzato nell'attività routinaria, tanto da passare ormai inosservato, ed è diventato patrimonio comunitario ed identitario della MG bresciana (a parte il problema della registrazione degli esami, che resta il punto più critico della gestione informatica).

Per ultimo alcune considerazioni sul PAI, il compito più  impegnativo dei GReG. La definizione a priori del fabbisogno diagnostico-terapeutico dei singoli assistiti risponde ad una logica previsionale, ancora di matrice amministrativa e contabile, a mo' di bilancio preventivo e consuntivo nel singolo caso, non correlato con gli esiti clinici nella popolazione. Nella realtà quotidiana del GC il PAI coincide con il PDTA nel suo complesso, che stabilisce i paletti piuttosto laschi delle buone pratiche da applicare caso per caso e al variare dell’evoluzione del quadro clinico. Il GC in sostanza realizza un adattamento, negoziato e situato, delle indicazioni generali del PDT, sulla base delle esigenze individuali e della variabilità dei casi, che è proprio del contesto delle cure primarie, a fronte della rigida definizione a priori dei PAI.

In conclusione il CG è il prodotto “storico” ed originale di un progetto aperto, situato e adattato al contesto della MG, perché cresciuto dal basso, in armonia con le pratiche clinico-assistenziali, informatiche, organizzative e sociorelazionali del territorio. Sarebbe un peccato disperdere il valore aggiunto di queste esperienza, riconducendola alle mere logiche finanziarie e contabili dei CReG. 

giovedì 15 settembre 2016

La gestione della cronicità tra DRG e CReG

A distanza di quasi vent'anni dall'introduzione dei DRG nella legislazione nazionale la Regione Lombardia, a partire dalla seconda decade del nuovo secolo, ha avviato una sperimentazione per  trasferire il modello dei DRG sul territorio alla gestione delle patologie croniche ad elevata prevalenza, segnatamente cardiovascolari (ipertensione, vasculopatie, scompenso cardiaco) metaboliche (diabete mellito e dislipidemie) e respiratorie (BPCO ed asma bronchiale). Sono stati così varati i CReG, ovvero Cronic Related Group, dapprima in alcune ASL in modo sperimentale e poi via via al resto della regione ( http://tinyurl.com/hxk95vp, http://tinyurl.com/gvlo5oz ).

Vediamo innanzi tutto quali sono le differenze tra DRG ospedaliero e CReG territoriale. Il DRG nasce, per importazione dagli USA, all'inizio degli anni novanta, per superare il precedente pagamento per giornate di degenza; il modello gestionale si è subito adattato al contesto organizzativo ospedaliero, in particolare a tutte le branche chirurgiche che si prestano ad un'organizzazione a tipo catena di montaggio fordista, con un uso intensivo dei posti letto e delle sale chirurgiche (vedi l'imponente offerta chirurgica protesica, cardiovascolare ed ortopedica, del privato accreditato, a ciclo continuo: pre-ricovero, ricovero ed intervento, dimissione precoce e visita di controllo).

In chirurgia infatti è possibile attuare una concentrazione spazio-temporale dei processi organizzativi, delle risoree umane, professionali e tecnologiche e quindi garantire la programmazione del turn-over dei pazienti ed esiti clinici prevedibili, che è alla base della convenienza economica del DRG per l’attore privato. La prevedibilità organizzativa è più aleatoria nei reparti di medicina, dove prevalgono le polipatologie e la complessità clinica, seppur filtrata dalla condizione acuta o di scompenso d'organo; nei reparti medici è meno garantita la prevedibilità dei tempi di ospedalizzazione per la variabilità dell'evoluzione dei quadri sindromici complessi (complicazioni, infezioni nosocomiali, tempi di attesa degli esami, dimissioni protette etc..) e dell'incertezza circa gli esiti clinici della degenza.

Per le patologie croniche sul territorio vale lo stesso discorso, ma con un'ulteriore dose di variabilità e sfaccettatura epidemiologica, per l'ampio ventaglio del casemix ambulatoriale, ma soprattutto perchè alla concentrazione spazio-temporale dei processi clinico-organizzativi nosocomiali si sostituisce una rete assistenziale dispersa, composta da una pluralità di attori, distribuita a vari livelli e "diluita" nello spazio e nel tempo.

Questa differenza infrastrutturale e spazio-temporale si riflette sui processi assistenziali (concentrazione ospedaliera versus dispersione territoriale) e sull'aspetto economico: il rimborso del DRG, in presenza di esiti abbastanza certi come quelli chirurgici di routine (la tariffa prefissata, dall'appendicectomia alla protesi d'anca, senza complicazioni) copre abbastanza bene le risorse impiegate; al contrario la cifra media prevista dal CReG per il diabetico deve essere spalmata su una gamma di casi ampia e differenziata, in termini di intensità clinico-assistenziale e di consumi, che nel diabete spazia dal tipo II ben compensato con dieta ed attività fisica fino a quello in politerapia con complicanze, disabilità, seguito dal centro antidiabetico e/o in ADI infermieristica.

Ergo il budget del diabetico complicato in CReG non può essere addebitato al singolo MMG ma va distribuito nella rete assistenziale nel suo insieme, in quanto le decisioni prescrittive e di spesa per farmaci e/o accertamenti sono riconducibili e a carico dei diversi decisori che si alternano all'assistenza del paziente, specie se complesso (ad esempio, il diabetico in terapia con incretine, prescritte dal diabetologo del centro, e/o seguito dall'oculista per retinopatia, con controlli frequenti di FAG e/o OCT, o in terapia con un NAO per una FA etc..).

Ergo l'apparato statistico, contabile e finanziario – finalizzato alla verifica di quanto è effettivamente costato il diabetico rispetto al budget medio attribuito - è prevalente rispetto alla valutazione economica, nel senso della verifica dei risultati conseguiti in termini di processi ed esiti assistenziali a fronte delle risorse attribuite (previste ed effettivamente impiegate nel singolo caso e soprattutto nella popolazione), che è invece il valore aggiunto e distintivo del del GC rispetto ai CreG, in particolare riguardo aglii esiti nell'intera coorte di diabetici.

Perchè la sfera finanziaria non è equivalente a quella economica, come erroneamente si tende a credere. Questa differenza è rilevante ed attiene alla distinzione tra approccio amministrativo/contabile come nei CReG - bilancio tra entrate e uscite, spesa prevista e realizzata per i consumi di farmaci ed esami - versus l'accountability economica correlata al confronto tra spesa effettuata e esiti di salute dedotti dagli i indicatori di processo/esito a livello di report individuali e soprattutto collettivi. La sfera economica attiene al miglior uso delle risorse disponibili, non su base meramente finanziaria, ma in rapporto agli obiettivi attesi ed ai risultati pratci conseguiti, previa valutazione di obiettivi alternativi (rapporto costo/opportunità).

Insomma, non basta un'accurata lista della spesa per ogni malato cronico, nella logica del budget, ma servono valutazioni ben più complesse e sfaccettate, per salvaguardare e gestire al meglio il budget di salute individuale e di popolazione.

martedì 13 settembre 2016

Competenza professionale tra routine, variabilità ed esperienza pratica

La competenza o expertise è la capacità del professionista di adattarsi alla specificità delle condizioni cliniche, tecnologiche ed organizzative e quindi di “accomodare” le indicazioni generali di buona pratica clinica, di necessità astratte e decontestualizzate, alle caratteristiche dei singoli assistiti nella situazione data.

Lo conferma una ricerca pubblicata dal prestigioso BMJ ( http://www.bmj.com/content/354/bmj.i3571 )
che dimostra come gli esiti migliori in chirurgia sono correlati all'esperienza maturata dal professionista in una specifica patologia, vale a dire alla varietà e numerosità del repertorio di casi osservati e curati, da quelli normali e di routine a quelli più strani ed "eccentrici". La competenza professionale si misura soprattutto sulla capacità di affrontare i casi non routinari, ovvero quelli che richiedono un adattamento alla situazione problematica, fondata su abilità tacite nel trovare soluzioni nuove e non predefinite per far fronte all'irriducibile varietà clinica.

Una delle principali motivazioni che spinge ricercatori e clinici ad elaborare protocolli, linee guida, percorsi, check list, flow-chart etc.. è l'”lotta” alla variabilità patologica nel tentativo di contenerla entro limiti fisiologici. La variabilità comportamentale dei medici pratici viene abitualmente considerata una criticità, un'anomalia da controllare grazie alla diffusione ed implementazione degli strumenti sopra elencati, affinché di fronte alla medesima condizione clinica tutti si comportino in modo omogeneo e standardizzato, tale da garantire il medesimo esito atteso. In teoria quindi qualsiasi chirurgo, previa adeguata formazione e un congruo periodo di apprendistato, è nelle condizioni di applicare la tecnica chirurgica standard e le procedure previste per una determinata patologia, raggiungendo quindi gli stessi risultati di qualsiasi altro collega. Pare che nella realtà fattuale le cose non stiano propriamente così, come dimostra la ricerca del BMJ: l'intercambiabilità dell'operatore non garantisce il raggiungimento di esiti omogenei e definiti a priori.

Il professionista competente invece è quello che sa adattarsi alla varietà, unicità e complessità dei casi che non sono contemplati nella routine delle procedure standardizzate. Grazie all'esperienza riesce ad accumulare numerosi "esemplari" di situazioni non ordinarie, che vanno a costituire un bagaglio di soluzioni pratiche ed originali: solo la varietà degli schemi e dei “trucchi” del mestiere può controllare la gamma delle situazioni problematiche. Per le patologie ad elevata incidenza e bassa complessità qualsiasi chirurgo raggiungerà facilmente quel pool di casi che rappresentano lo zoccolo duro della competenza acquisita. Ben diverso è il caso delle malattie a bassa prevalenza ed elevata complessità tecnica, con indicazioni e tecniche chirurgiche specifiche, che vengono generalmente gestite in centri dedicati ,dove è possibile accumulare un numero sufficiente di casi che consente al professionista di fare un'adeguata esperienza della variabilità dei casi clinici.

I dati del BMJ dimostrano che l'apprendimento è correlato alle pratiche e all'esperienza sul campo e meno all'acquisizione individuale delle specifiche tecniche esplicite, nella sola sfera cognitiva, il che per un'attività come la chirurgia può apparire scontato e banale. Per di più nella chirurgia la componente tacita della competenza è intuitivamente prevalente sulla cognizione astratta e decontestualizzata, perchè impossibile da rendere compiutamente a parole, tramite descrizioni scritte o lezioni, in quanto legata ai gesti, all'uso di strumenti e alle abilità manuali.

La stessa conclusione è un po' meno "triviale" se viene estesa alle discipline mediche, in cui la componente teorica, delle nozioni generali e specifiche sembrerebbe prevalente sulle pratiche, considerate una semplice e meccanica derivazione della teoria, secondo il modello della razionalità tecnica. Ma nella realtà anche la competenza internistica o del MMG si fonda sulle esperienze pratiche intese in senso multidimensionale, ovvero sulle abilità relazionali, comunicative e decisionali, condizionate dal vissuto personale, emotivo e corporeo, dal contesto socio-organizzativo ed epidemiologico dell'attività professionale. Insomma, come sottolineano gli psicologi sociali, apprendimento, conoscenza e competenza professionale sono irriducibilmente "dense", distribuite e mediate da artefatti/strumenti tecnologici, situate nelle pratiche, radicate nell'esperienza corporea e nella riflessione nel corso dell'azione.

Certo, in situazioni particolari come l'emergenza il protocollo è necessariamente rigido e tarato sulle condizioni potenzialmente più gravi ed "estreme". Tuttavia è sempre necessaria una dose di adattamento alla situazione contingente, che spesso evolve in pochi minuti, e quindi richiede provvedimenti specifici e locali; il processo comporta sempre un fase di osservazione, ragionamento, valutazione e la conseguente presa di decisione sul corso d'azione razionale e più adatto, che può non essere pre-definito in ogni dettaglio o previsto a priori dal protocollo. Anche il più minuzioso protocollo o la check list più dettagliata possono avere dei "buchi" rispetto ad una realtà variegata, sfumata e “sorprendente”, che non di rado eccede rispetto alla vagheggiata routinizzazione e standardizzazione delle pratiche, sul modello della catena di montaggio fordista. Proprio nelle situazioni non routinarie emerge la professionalità, che si manifesta nel trovare soluzioni "improvvisate" ed originali, necessariamente situate e non tecnicamente astratte rispetto al contesto. 

mercoledì 17 agosto 2016

Emozioni e razionalità alleate nel procedimento diagnostico

Filosofi della scienza ed epistemologi godono di una fama di logici implacabili, freddi calcolatori e stringenti ragionatori, che lasciano poco spazio alle sfumature, alle sensazioni e alle emozioni.  Niente di più falso, perlomeno per quanto riguarda due esponenti della categogia che, al contrario, prendono le mosse proprio dalle sensazioni e dalle emozioni per sviluppare le loro teorie della conoscenza: sia il pragmatista americano John Dewey che il razionalista critico Karl Popper hanno affrontato i problemi della conoscenza e dell'errore (specie il secondo) partendo dal vissuto soggettivo, pur da diverse angolature.

Ecco alcune considerazioni sull'importanza della sorpresa, e in generale delle reazioni emotive legate all'esperienza nel procedimento clinico; la percezione di una fastidiosa discrepanza (vedi il post precedente) o un di disagio cognitivo possono essere la chiave di volta per riconoscere il quasi-errore e, soprattutto, per prevenire le conseguenze dell'errore franco.

1-John Dewey ad onor del vero non affronta specificatamente il problema dell’errore, ma bensì le situazioni problematiche che per le loro difficoltà possono esitare in un errore e richiedono un approccio critico. L'indagine prende avvio da una sensazione di sorpresa, sconcerto, dubbio ed incertezza di fronte a problemi inattesi che non rientrano nelle consuete modalità routinarie di definizione e soluzione. Dewey postula la coincidenza tra indagine, apprendimento e pensiero riflessivo: “La funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa [.....] determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione in una totalità unificata”. 

Dal vissuto di disagio o sconcerto prende avvio l’indagine deweyana, che prevede il seguente percorso metododologico:
1. La situazione indeterminata come origine del processo di indagine
2. La suggestione e l’intellettualizzazione: la definizione del problema
3. La generazione di ipotesi e il ragionamento deduttivo: se....allora
4. La verifica empirica dell’ipotesi
5. La situazione rischiarata come esito finale dell’indagine

Secondo Dewey la prrocedura logica dell'indagine accomuna il ricercatore, l'educatore e il professionista pratico nel medesimo atteggiamento riflessivo a partire dall'esperienza problematica.  E' agevole intravedere in fligrana nell'idagine deweyana, da un lato, il modello generale del problem solving  e, dall’altro, quella particolare forma di indagine che è procedimento diagnostico, che inizia con la raccolta delle informazioni anamnestiche, prosegue con la definizione del sintomo chiave/problema, esita nella generazione delle ipotesi e nella loro verifica, tramite ulteriori informazioni ricavate dall'esame obiettivo e/o dalle indagini cliniche, preludio alla terapia razionale.

2-Karl Popper, dal canto suo, individua nella sorpresa, intesa come gap tra fatti ed aspettativa che le cose vadano in un certo modo, il motore del cambiamento teorico: Popper fa l'esempio pratico della discesa dalle scale e della sorpresa che si sperimenta quando si ritiene di essere arrivati in fondo, ma in realtà c'e' ancora un gradino che inconsciamente non era previsto. Afferma Popper: "La nostra conoscenza inconsapevole assume spesso il carattere di aspettative inconsce, e talora ci rendiamo conto di aver avuto un’aspettativa di questo genere solo quando essa si rivela infondata [....]. Ciò mi indusse a questa formulazione: quando un evento ci sorprende, la sorpresa è di solito dovuta all’aspettativa inconscia che debba succedere qualcosa di diverso".

Più prosaicamente si potrebbe fare un'altro esempio di comune riscontro pratico, vale a dire la sorpresa  che si prova quando ci si siede sul water senza accorgersi che in realtà manca la...."ciambella". In entrambi i casi la “teoria” implicita viene invalidata dai fatti, generando la  sorpresa" per la discrepanza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo sperimentato. Ecco quindi le basi interpretative della sorpresa che si prova di fronte ad un esito clinico non messo in conto, ad esempio un esame diagnostico che dimostra la presenza di una patologia rara; in casi simili la reazione emotiva è l'antecedente diretto del quasi errore, il suo "precursore", e il grado di sorpresa è proporzionale alla distanza tra l'ipotesi e la realtà. Nel senso che il dato "oggettivo" rivela la discrepanza tra il problema e sua rappresentazione "soggettiva": l'ipotesi diagnostica che ha motiva la richiesta dell'accertamento clinico, per quanto vaga e nebulosa, si rivela infondata e viene bruscamente scalzata da un riscontro inaspettato e perciò sorprendente (vedasi il post precedente sul mismatch cognitivo, che è l'altra faccia della sorpresa).

In termini pratici capita che l'esito di un accertamento diagnostico conduca ad una diagnosi che mai si era immaginata, in quanto estranea alle aspettative routinarie, ovvero alla "teoria" implicita del caso. Il quasi-errore consiste proprio nella mancanza di questa sorpresa, perlomeno nelle prime fasi del procedimento o fino a quando, magari nel follow-uo, emerge un nuovo dato. Quello che appariva un caso come tanti si trasforma quando una nuova informazione cambia la rappresentazione della vicenda, fino alla reazione di disappunto per l'inattesa sorpresa: "perchè non ci avevo pensato prima (alla diagnosi corretta), cosa mi ha impedito di porre l'ipotesi diagnostica giusta?".

Insomma le sfumature emotive contano, che si presentino alla coscienza come tenui variazioni cromatiche di dubbio o generico disturbo/disagio, piuttosto che improvvisi cambiamenti di colore, come un'inattesa sorpresa.

BIBLIOGRAFIA
AA VV, I grandi filosofi: Dewey, vita, pensiero, opere scelte. Il Sole 24 Ore, Milano, 2008
Popper K.R., Verso una teoria evoluzionisticaa della conoscenza, Armando, Roma, 1999
Striano M., Per una teoria educativa dell'indagine, Pensa Multimedia, 2016

mercoledì 10 agosto 2016

Mismatch cognitivo e quasi errore diagnostico

La teoria della decisione è dominata da due diverse impostazioni: i modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta razionale), e quelli descrittivi, che all’ opposto si limitano ad osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai soggetti, in contesti sperimentali o naturali. Nel campo dell’errore medico prevalgono gli approcci normativi: i modelli bayesiani e il cosiddetto risck management (RM). Entrambi suggeriscono il modo migliore per decidere ma, ciononostante, la gente resta inesorabilmente affetta da fallibilità e quindi serve a poco indicare la retta via se poi ogni tanto nella vita reale si imbocca quella sbagliata.
Secondo il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata formula elaborata del reverendo inglese per correggere le probabilità di un evento alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale, freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo possesso, ma non è affatto facile trovare nella realtà fattuale un soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali sufficienti e i dati per applicare la fatidica formula.
Secondo il RM invece per evitare sbagli basta seguire procedure predefinite che sono una sorta di garanzia di “infallibilità”. Il RM si concentra sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. garanti dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore, inteso come “fallimento nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo desiderato". Ma se in un certo settore mancano LLGG o ve ne sono più di una, tra loro dissonanti? Entrambi i modelli condividono la stessa impostazione istruttiva, il medesimo presupposto implicito in base al quale per evitare l’errore basta applicare regole, procedure, formule, linee guide etc., predefinite da ricercatori e “tecnici”, da implementare nella pratica clinica.
I decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile “razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti naturali: oggi si direbbe, in modo scherzoso, che le persone utilizzano le formule in modo spannometrico. Servirebbe invece una sorta di navigatore che avverta per tempo il decisore che, il più delle volte inconsapevolmente, ha scelto un tragitto sbagliato, onde evitare che dal quasi errore cada nell'errore. Perchè mentre si sta sbagliando non ci si accorge dell'errore, che richiede uno scarto temporale per emergere dall'inconscio cognitivo alla consapevolezza. 
La chiave di volta stà in un un aforisma del filosofo Cartesio che recita: l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra tale. Se lo sbaglio sfugge alla percezione e alla consapevolezza, in quanto inapparente e subdolo, il primo obiettivo pratico è quello di percepire quanto prima l'errore stesso, il che non è agevole proprio per il suo carattere sfuggente e sub-liminale. Nel momento in cui si compie non ci si avvede dell’errore per una sorta di anosognosia cognitiva, simile a quella che colpisce alcuni soggetti affetti da un deficit neurologico motorio, che però disconoscono come tale, comportandosi come se nulla fosse e come se potessero contare sull’integrità del sistema motorio. Serve quindi una tecnica, una procedura affidabile che smascheri l'anosognosia cognitiva e riveli l’errore all’errante inconsapevole, quanto più precocemente per poter rimediare e correggere il percorso. Discrepanza temporale e mismatch cognitivo sono le due facce della stessa medaglia.
Alcuni psicologi (Rizzo et al 1996) hanno proposto un modello a più stadi, per descrivere il processo di "svelamento" dell'errore, così articolato:
1. il primo passo consiste nell’ emergere di una discrepanza percettivo-valutativa (mismatch) spesso in modo vago ed “epidermico”, a pelle
2. a cui segue la scoperta (consapevolezza) che è stato commesso un errore
3. l'identificazione (individuazione) dell'origine e della natura della discrepanza
4. il superamento della discrepanza tra obiettivo prefissato e il risultato conseguito (strategie per eliminarla, capirla e rimuovere le cause).
La mismatch è frutto della mancata corrispondenza tra informazioni ed aspettative (ipotesi, previsioni etc..) e dati empirici, oppure al fatto che queste non sono corrette o non sono state aggiornate. Gli autori si riferisco più che altro ad azioni finalizzate e procedure pratiche; nel campo della diagnosi medica significa che serve una certa sensibilità per percepire i segnali di mismatch o ricercare attivamente i feed-back che testimoniano la discrepanza tra realtà e la sua rappresentazione mentale, che è il punto nodale per riconoscere quanto più precocemente il quasi-errore diagnostico, affinché non si traduca in errore vero e proprio dalle conseguenze pratiche.
A volte la discrepanza parte da una sensazione sgradevole di insoddisfazione, da uno stato d'animo di perplessità, di fastidioso dubbio o sfasatura; in altri casi invece si presenta come un'improvvisa "sorpresa", rivelazione o illuminazione sulla differenza tra rappresentazione e realtà dei fatti. Il disagio cognitivo indotto dal mismatch è radicato nel vissuto e può essere superato con un atteggiamento di riflessione sull'esperienza, dai connotati meta-cognitivi chiaramente distanti se non antitetici rispetto all'impostazione istruttiva del RM. 

domenica 7 agosto 2016

Decisioni pratiche situate, opinioni degli esperti e metanalisi

Una delle caratteristiche della competenza professionale è quella di sapersi adattare alla specificità del contesto professionale, epidemiologico, organizzativo etc.. e quindi di “accomodare” le indicazioni generali di buona pratica clinica alle particolari condizioni dei singoli assistiti. Abilità che derivano dall'esperienza pratica sul campo, più che dal bagaglio di nozioni teoriche. Non esiste una competenza astratta, decontestualizzata, irrelata rispetto alle pratiche situate e alle condizioni locali; tuttavia permane una certa diffidenza nei confronti del medico pratico, spesso non a suo agio con statistiche e formule matematiche, senza le quali tuttavia prende innumerevoli decisioni di fronte ai singoli pazienti.

Pesa ancora la squalifica implicita nella gerarchia EBM delle evidenze, quella piramide che vede al vertice revisioni sistematiche e metanalisi mentre alla base stanno, appunto, le opinioni degli esperti. Probabilmente si tratta di una squalifica involontaria della medicina pratica, ma di fatto quella piramide ha finito per svalutare e ridurre l'auto-stima di chi lavora sul campo, ovvero si sporca le mani con la relazione medico-paziente, invece che con inferenze e formule statistiche, facendo affidamento sulle proprie opinioni e valutazioni estemporanee nel momento della decisione (per giunta da generalista e non certo da specialista). Certo, le opinioni degli esperti della piramide EBM non riguardano micro scelte diagnostiche o terapeutiche ma considerazioni generali ed evidenze statisticamente “oggettive”.

L'equivoco nasce da qui: dal punto di vista delle prove di popolazione, astratte rispetto al contesto e relative ad ideal-tipi nosografici impersonali - come i soggetti arruolati nei trial randomizzati in base di criteri di esclusione - valgono certamente più le conclusioni delle metanalisi che non le opinioni di un clinico pratico. Ma di fronte a malati in carne ed ossa, nei contesti decisionali e nelle situazioni pratiche, specie alle prese con casi caratterizzati da varietà, unicità e complessità polipatologica - come la stragrande maggioranza dei malati comorbidi - forse le opinioni del medico al letto del malato non sono meno importanti dei risultati dell'ultima revisione sistematica. Proviamo ad immaginare uno scambio di ruoli: cosa succederebbe se un “pratico” lavorasse per una settimana in un centro epidemiologico, ad elaborare metanalisi, a fronte della presenza di un epidemiologo in un ambulatorio di MG sul territorio? Di sicuro il generalista rischierebbe di combinare un bel po' di disastri con formule matematiche e statistiche mediche. Forse è arrivato il tempo di sdoganare l'approccio del “pratico” e le sue opinioni di esperto situato.

Il presupposto della superiore validità delle metanalisi, rispetto alle opinioni degli esperti, sta nell'idea che le elaborazioni statistiche sui grandi numeri sono più aderenti alla realtà rispetto alle conclusioni di esperti, ricavate dall'esperienza individuale, su casistiche limitate e non selezionate. A questo proposito, nelle ultime settimane ho avuto modo di seguire tre casi clinici della stessa patologia cronica e, riflettendo sulle tre vicende parallele, mi sono reso conto della grande varietà dei decorsi e delle configurazioni patologiche. Praticamente nessuno dei tre era affetto da una forma “pura” ma tutti erano invece portatori di diverse comorbilità, le più variegate sia nel percorso diagnostico-terapeutico che nella "narrazione"; a dimostrazione che nella pratica ambulatoriale le forme pure ed isolate, cioè le diagnosi prototipiche da manuale, sono praticamente inesistenti (a differenza degli studi clinici che arruolano solo candidati filtrati da rigorosi criteri di esclusione, ovvero selezionando popolazioni minoritarie rispetto alla routine delle comorbilità, specie geriatriche).

Per non parlare dell'area grigia di incertezza prevalente in MG, popolata da disturbi orfani di diagnosi, sindromi sotto-soglia, stati al confine tra salute e malattia, soma e psiche, disturbi auto-limitanti e transitori etc., condizioni poco o per nulla “ebiemmizzabili”, per usare il colorito neologismo coniato da Giorgio Bert. In sostanza l'approccio del pratico è orientato da studi clinici ed elaborazioni statistiche artificiali ed eccentriche rispetto alla realtà fattuale; ciononostante continuano ad agire e prendere decisioni con quel tipo di "faro", che illumina solo una porzione della realtà, ma di necessità integrata dalle opinioni maturate in situ e nelle condizioni cliniche date.

La competenza del medico pratico non deve essere tanto teorica o legata all'aggiornamento continuo sulla letteratura EBM, ma va ritagliata sull'esperienza e sul contesto epidemiologico, nel senso della casistica media che può incontrare nell'attività ambulatoriale quotidiana. Quindi grande sensibilità diagnostica a 360 gradi, specie dei sintomi di esordio e della diagnosi differenziale dei disturbi comuni, e soprattutto capacità gestionale delle patologia ad elevata prevalenza, con delega della gestione agli specialisti per quelle a bassa prevalenza o rare, nei confronti delle quali non può farsi quell'ampia esperienza personale, senza la quale rischia di prendere decisioni poco appropriate.

Il bagaglio di conoscenze e la competenza professionale non sono correlate a nozioni astratte, aggiornamenti e abilità decontestualizzate, ma sono situate nel contesto epidemiologico, relazionale, organizzativo, "antropologico" etc..; in questo senso fa la differenza l'esperienza e la condivisione delle pratiche sul campo, che fanno il medico esperto in MG, ovvero quello che ha fatto e fa esperienza della gestione in situ dei casi e dei problemi prevalenti sul territorio.