martedì 27 ottobre 2015

Appropriatezza diagnostica e terapeutica, le differenze contano!

Il dibattito pubblico attorno all’ormai famosa lista di 208 accertamenti sottoposti ai criteri di appropriatezza diagnostica si è subito cristallizzato in due opposte fazioni: da un lato la ministra si prodiga per accreditare la tesi secondo la quale “non si taglia proprio niente” e che tutto resta come prima mentre, mentre dall'altro i suoi oppositori gridano allo scandalo perchè con il pretesto dell'appropriatezza si ridurranno le prestazioni e si costringerà la gente a pagarsi le indagini diagnostiche negate dai medici, facendo un regalo alla sanità privata. 

L’era dell’appropriatezza è iniziata una ventina di anni fa con l’introduzione delle Note CUF sui farmaci, poi ribattezzate Note AIFA per l’appropriatezza terapeutica. Il fenomeno rientra nella più generale tendenza e normare e regolamentare comportamenti che ricadono nella sfera dell’iniziativa pubblica, riducendo i margini di discrezionalità e di autonomia decisionale degli attori professionali, secondo l’idealtipo dell’apparato burocratico di stampo weberiano. Ci sono però voluti ben due decenni perché si affrontasse anche il capitolo della diagnostica, preceduti da alcuni tentativi di introdurre vincoli regolatori sugli esami, non a caso abortiti per le obiettive difficoltà della materia.

Infatti una differenza metodologica di fondo contraddistingue l’iniziativa degli anni novanta sui farmaci da quella odierna sugli accertamenti: la terapia appropriata presuppone un dato certo e una solida base di partenza, ovvero la diagnosi dalla quale discende logicamente la cura, secondo lo schema categoriale se…allora (se un assistito è affetto da diabete di tipo II ed obesità allora la terapia di prima scelta è la metformina); non esiste invece un unico esame appropriato a priori per ogni situazione o sintomo perché i test clinici hanno la funzione di aiutare il medico ad orientarsi rispetto ad una gamma di ipotesi diagnostiche differenziali, tra le quali solo al termine dell’iter clinico emergerà quella corretta, talvolta dopo un processo conoscitivo per “prove ed errori”. 

I test di laboratorio, ad esempio, servono per selezionare le ipotesi generate e quindi è impossibile definire a priori quale sarà quello appropriato, ovvero l’esame che confermerà l’ipotesi diagnostica corretta. Insomma le strategie cognitive, il metodo e le regole del gioco del processo diagnostico non sono le stesse della decisione terapeutica. Inoltre le variabili in gioco nella prescrizione di un’indagine clinica sono più numerose e complesse. Una discussione ponderata e appropriata sull’appropriatezza diagnostica dovrebbe considerare che a monte della prescrizione di un test interagiscono numerosi fattori su diversi piani, ovvero

  • Il giudizio del medico, che sconta margini di rischio/incertezza decisionale più o meno ampi, insiti in ogni processo clinico (falsi positivi, falsi negativi, valore predittivo etc..);
  • Una certa sopravvalutazione delle potenzialità della tecnologia diagnostica nel ridurre tale incertezza, in particolare riguardo all’ipotesi di una patologia rara (prevalenza, probabilità pre e post-test etc..);
  • l’induzione della prescrizione da parte dell’assistito, specie se esente e/o eccessivamente preoccupato per il proprio stato di salute, alimentate dall’ipertrofia delle attese verso le tecnologia biomedica;
  • la diffusione di linee guida, protocolli, percorsi diagnostico-terapeutici etc.. e di ogni altro documento di supporto informativo e di aiuto alla decisione appropriata;
  • il suggerimento dell’esame da parte di uno specialista in regime libero-professionale, non tenuto rispettare i criteri di appropriatezza vigenti in ambito pubblico e quindi propenso ad abbondare in test clinici;
  • il livello di offerta e di disponibilità della tecnologia medica, che di per sé induce la propria domanda;
  • il rischio medico-legale e l’atteggiamento difensivo verso ipotetiche denunce e contenziosi giudiziari;
  • una certo clima sociale di allarme, alimentato da un’informazione a due facce: da un parte l’esaltazione acritica delle novità tecnologiche e dall’altra la caccia a notizie di presunta malapratica;
  • l’indeterminatezza del concetto di appropriatezza, che oscilla tra la dimensione regolatoria collettiva e la relazione clinica individuale,  e la rigidità dei criteri prescritti che non tengono della varietà, unicità e complessità degli assistiti in carne ed ossa della pratica clinica.
Appiattire questa complessità con criteri schematici e soprattutto con il condizionamento delle sanzioni economiche non è la strada più appropriata per risolvere il problema, che va affrontato prioritariamente sul piano culturale e, se mai, adottando logiche incentivanti piuttosto che punitive, ed interventi generalizzati a monte della singola richiesta di indagini diagnostiche. Con l’entrata in vigore dei criteri di appropriatezza la situazione si complicherà sul piano cognitivo per tutti i decisori, con inediti problemi di interpretazione e di applicazione pratica ai casi concreti, ma non solo; la spada di Damocle delle sanzioni economiche previste dalla legge accentuerà la diffidenza degli assistiti verso i medici e avrà un impatto negativo anche sulle relazioni tra i professionisti, per il rischio di generare un deleterio rimpallo della responsabilità della prescrizione tra i professionisti che si alternano alla gestione dei casi, come accaduto per anni con le Note CUF sui farmaci.

Un’ informazione corretta sul decreto appropriatezza dovrebbe contrastare il luogo comune in base al quale si farebbero “pesare i tagli sui malati che si dovranno pagare gli esami", come affermano in TV alcuni commentatori. Il rischio esiste ma perlomeno per gli esami di laboratorio di uso comune appare poco probabile, a parte le limitazioni e i vincoli temporali per l’analisi dei lipidi, ed i medici potranno continuere a prescrivere gli esami appropriati per le patologie ad alta prevalenza, specie quelle croniche. Due sono le categorie individuate per classificare i 208 accertamenti inseriti nella lista ministriale: condizioni di erogabilità o indicazioni di appropriatezza. La maggioranza dei 143 esami di laboratorio, ad esmpio, rientra nella prima categoria mentre solo in 8 casi il test è soggetto a generiche indicazioni di appropriatezza (alfa amilasi, le 3 fosfatasi, lipasi, potassio, proteine, sodio).

I criteri prescrittivi dei più comuni test clinici, previsti dalla bozza ministeriale, sono a dir poco scontati e generici: transaminasi in caso di sospetta patologia epatica, amilasi nella diagnostica delle ghiandole salivari e pancreatiche, ferro per la diagnosi e il monitoraggio delle patologie da carenza o accumulo marziale, urea in pazienti con alterazioni sospette o dimostrate della funzione renale, idratazione o catabolismo, CPK per mialigie e nel monitoraggio delle statine etc… Le superflue condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza degli esami di laboratorio sono la dimostrazione delle insormontabili difficoltà metodologiche incontrate dai consulenti ministeriali per definire a priori criteri non banali e validi per ogni situazione, a cui si è fatto cenno all’inizio.

D’altra parte esistono dati statistici che attestano livelli di richieste di indagini diagnostiche eccedenti rispetto alle medie degli altri paesi, specie le richieste di esami di imaging (TAC e soprattutto RMN). Nel caso della diagnostica per immagini invece prevalgono condizioni di eragabilità più dettagliate, “intrusive” e di applicazione problematica alla gamma di casi concreti bisognosi di approfondimento diagnostico. Un esempio per tutti, la RMN della colonna, prescrivibile in caso di "dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno 4 settimane, traumi recenti e fratture da compressione".

La materia "appropriatezza diagnostica" è particolarmente delicata perché ha a che fare con la gestione dell’ incertezza e non si può irrigidire in criteri e schemi predefiniti che si scontrano inevitabilmente con il carattere interattivo e variabile del processo diagnostico differenziale. I consulenti ministeriali non hanno affrontato il compito loro affidato nel modo più appropriato; ora il ministero paga il fio di una manovra impopolare e probabilmente inefficace sul piano economico, che invece piace a chi preferisce imbastire una campagna propagandistica ed ideologica a prescindere dal merito di complesse questioni metodologiche e pratiche.
 

lunedì 26 ottobre 2015

Una modesta proposta per razionalizzare le liste d'attesa e migliorare l'appropriatezza temporale

E’ di pochi giorni fa la notizia che il 40% circa dei pensionati a, causa delle lunghe liste d’attesa e delle ristrettezze economiche per visite ed esami ed esami “privati”, rinuncia a curarsi. Uno degli obiettivi della lista ministeriale di esami sottoposti a criteri di appropriatezza è il contenimento della medicina difensiva e quindi indirettamente anche delle liste d’attesa. Infine in un recente convegno specialistico un collega si lamentava del fatto che il proprio servizio aveva in questi giorni inaugurato l’agenda degli appuntamenti del 2017! Da un decennio si moltiplicano le iniziative per contenere il fenomeno, ormai divenuto patologico, di liste d’attesa per visite specialistiche ed esami divenute insostenibili per gli assistiti e per l’immagine del SSN.

Uno dei primi tentativi fù l’introduzione del cosiddetto “bollino verde”, nato una quindicina di anni fa in Lombardia, per instradare in una corsia preferenziale le cosiddette “urgenze differibili”. Ben presto però anche il bollino verde è stato utilizzato per scopi non previsti dagli amministratori della sanità pubblica. In origine l’obiettivo della regione era di offrire un’alternativa agli accessi impropri al PS, onde contenere il sovraccarico delle strutture di emergenza/urgenza:  grazie all’apposizione del fatidico adesivo verde da parte del medico di MG la prestazione diagnostica o specialistica poteva essere deviata sulle strutture ambulatoriali ordinarie, che erano tenute a soddisfarla entro 72 ore dalla prenotazione. 

Con il passare del tempo uno strumento indirizzato a migliorare l’appropriatezza clinico-organizzativa e si è trasformato in un grimmaldello per aggirare le liste d'attesa infinite, in situazioni che nulla hanno di urgente dal punto di vista clinico. Il fenomeno era già emerso dai dati di una piccola ricerca in MG pubblicata dalla rivista Occhio Clinico una decina di anni fa, che aveva dimostrato come la decisione di utilizzare il bollino verde fosse in molti casi indotta dagli assistiti - e non decisa autonomamente dal Medico per motivazioni cliniche - per by-passare liste d’attesa esorbitanti, talvolta anche su  “suggerimento” dal personale amministrativo addetto alla prenotazione.

La vicenda del “bollino verde” è un esempio paradigmatico di effetto collaterale e delle conseguenze inintenzionali  di una deliberazioni finalizzata originariamente a raggiungere bel altro obiettivo pratico. Con il passare degli anni la situazione è diventata ingestibile per molte strutture, tant’è che in alcuni casi in i CUP non procedono alla prenotazione delle “urgenze differibili” per eccesso di richieste ed anche i tempi di erogazione di queste prestazioni sono ormai fuori controllo.

Come rimediare agli effetti “perversi” del bollino verde e ridurre lo squilibrio tra domanda ed offerta di prestazioni ambulatoriali? Una sorta di legge “ferrea” del pensiero sistemico indica la strada per una regolazione razionale dei rapporti tra un sistema, come quello sanitario, e il suo ambiente, nel segno della ricomposizione tra la domanda di prestazioni e l’offerta organizzativa: la legge della varietà necessaria o indispensabile (o legge di Ashby, risalente agli anni cinquanta).

Nulla di astruso: la legge della varietà necessaria dice che un buon sistema di regolazione deve possedere un repertorio di parametri che sia quanto più possibile vario e funzionale alla corrispondente varietà dei possibili stati dell’ambiente a cui si rapporta. Ad esempio per mantenere un microclima stabile e costante in un appartamento è necessario di un sistema di regolazione della temperatura, umidità, polveri, inquinanti etc… che vari in relazione alle continue modificazioni del clima dell’ambiente esterno in ogni stagione, giorno per giorno, ora per ora ed anche stanza per stanza. 

Ashby in estrema sintesi sostiene che una certa quantità di varietà è necessaria se un sistema vuole adattarsi ai cambiamenti e, nel caso dell’organizzazione, alle richieste o alle “perturbazioni” del proprio ambiente.  Non è difficile applicare questo intuitivo principio alle dinamiche della domanda/offerta di prestazioni specialistiche in sanità. Ad esempio le richieste di visite specialistiche possono essere classificate due grandi categorie: la prima visita con vari gradi di celerità (urgente, urgente differibili entro alcuni giorni, o alcune settimane/mesi) e le visite di controllo (da eseguire dopo un ricovero o una prima visita, nell’arco di settimane o mesi fino 12-18). 

Ebbene per risolvere parzialmente il problema dell’uso improprio del bollino verde e migliorare nel contempo l’appropriatezza temporale delle prestazioni servirebbe, nello spirito della legge della varietà necessaria, almeno tre distinti canali di prenotazione:
  • il bollino “verde” vigente, con tempi inferiori degli attuali ad esempio  48 ore, da riservare esclusivamente situazioni cliniche effettivamente urgenti differibili e non per by-passare una lunga lista d’attesa;
  • un bollino di altro colore (azzurro?) di carattere clinico-organizzativo, specie per le prime visite e per tutte le situazioni in cui una lunga attesa sia giudicata inappropriata, che garantisca l’espletazione della prestazione entro 10-15 giorni lavorativi;
  • la tradizionale lista d’attesa con tempi lunghi e variabili, riservata ai controlli clinico-strumentali di medio-lungo periodo (4-12 mesi) in funzione della tipologia della prestazione e dell’offerta della struttura.
In tal modo una parte degli attuali codici bianchi/verdi del PS potrebbe essere soddisfatta dal bolino verde, mentre buona parte dei bollini verdi impropriamente utilizzati potrebbe finire nella seconda lista d’attesa, favorendo una razionalizzazione complessiva dei tempi di esecuzione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali.

domenica 25 ottobre 2015

Sul decreto appropriatezza prescrittiva, farmaci generici ed errori cognitivi

In due precedenti post estivi ho analizzato i problemi metodologici, relazionali e il probabile impatto sociale e professionale della legge che ha introdotto i cosiddetti criteri di appropriatezza. Ora con la diffusione della bozza di decreto ministeriale, contenente l’elenco delle 208 prestazioni soggette alle limitazioni prescrittive previste dalla legge, si può entrare nel merito dei suoi contenuti pratici, in particolare riguardo agli esami ematici.

Dei 143 test compresi nell'elenco delle prestazioni di laboratorio dell’elenco ministeriale la maggioranza è sottoposta a condizioni di erogabilità mentre per 8 si prevedono solo criteri di approppriatezza più soft:
  • il dosaggio dei lipidi è soggetto a limitazioni temporali che riguardano solo soggetti asintomatici a scopo preventivo e non valgono invece per pazienti affetti da patologie cardiovascolari (colesterolo totale, HDL, LDL e trigliceridi da "eseguire come screening dopo i 40 anni e ripetere ogni 5, in assenza di valori elevati, modificazioni dello stile di vita o interventi terapeutici");
  • una quarantina circa sono esami di prescrizione comune per patologie frequenti e non hanno alcuna limitazione temporale (transaminasi, FA, elettroliti, urato, urea, ferro, clearance della creatinina, PT, PTT, alcuni markers epatitici, emogruppo, IgE specifiche, ricerca campylobacter, chlamydie, salmonelle, shigelle, alcuni auto-anticorpi etc..). Per 8 di questi il decreto si limita ad indicare generici criteri di appropriatezza (alfa amilasi, fosfatasi, potassio, sodio, lipasi e proteine) e per gli altri specifiche condizioni di erogabilità a cui è subordinata la prescrizione: peraltro va da se che un medico richiederà lipasi o amilasi solo in presenza di sintomi suggestivi per pancreatite, oppure le CPK in caso di mialgie o in corso di terapia con statine, l'uricemia nella patologia gottosa, nelle nefropatie o nel monitoraggio delle terapie iperuricemizzanti e così via. Restano senza vincoli prescrittivi emocromo, glicemia e glicata, creatinina, VES, Pcr, Bilirubina, GammaGT, ferritina e transferrina, funzionalità tiroidea, surrenalica e riproduttiva, immunoglobuline, test reumatici compresi gli auto-anticorpi, SOF, Esami urine e colturali, test sierologici per rosolia, CMV, lue, HIV, toxoplasmosi etc..
  • un centinaio circa attiene a condizioni cliniche rare la cui prescrizione è del tutto specifica e/o di pertinenza prevalentemente specialistica - come i markers tumorali o i test genetici, - che viene semplicemente ribadita dal documento ministeriale: peraltro a nessun medico verrebbe mai in mente di richiedere il dosaggio dell’acido idrossi-indolacetico, se non nel sospetto di un carcinoide, oppure l’ormone androstenediolo in pazienti che non presentino irsutismo. In questo senso le indicazioni presenti nel documento ministeriale sono scontate, banali e pleonastiche.
Qualche sera fa la ministra intervistata in TV sull'elenco delle prestazioni soggette ai criteri di appropriatezza ha affermato, più o meno testualmente, che un cittadino non va dal medico a chiedere un esame ma è il medico che decide in proposito, dopo aver valutato i disturbi riferiti e la situazione generale. Questa considerazione può valere per l’assistito che lamenta un certo disturbo, ma esiste anche la vasta categoria dei sani ed asintomatici che richiedono esami a scopo rassicurativo e per una sorta di “check-up” periodico, come si diceva un tempo.

Si tratta di una realtà quotidiana: da almeno un ventennio registriamo il fenomeno della cosiddetta domanda indotta dagli assistiti, che non si limitano a riferire i loro sintomi da "pazienti", ma hanno un atteggiamento attivo da "esigenti" e tendono a negoziare prescrizioni, consigli ed azioni con il proprio medico, specie se sani, asintomatici ma desiderosi di fare controlli periodici per “prevenire le malattie”.

Un esempio per tutti: la richiesta di una prescrizione per fare "tutti gli esami del sangue", spesso con periodicità annuale, rappresenta il 20-30% circa di tutte le richieste di esami di laboratorio. Le limitazioni prescrittive e della periodicità dei controlli dei test ematici riguardano in particolare questa tipologia di richieste. Il problema è annoso e mancano sicuri riferimenti EBM: se pensiamo che vi è una carenza di studi che dimostrino, ad esempio negli ipertesi in trattamento, l'utilità della ripetizione periodica dell'ECG o degli esami ematici ogni 1, 2 o 3 anni, a maggior ragione mancano chiare e provate indicazioni sulla prescrizione e la periodicità degli esami di screening nelle persone sane.

Il caso del colesterolo è emblematico; la scadenza quinquennale prevista dalla bozza di decreto appare eccessivamente rigida rispetto alla gamma delle situazioni reali, in cui il controllo deve essere correlato alla valutazione complessiva dei fattori di rischio e a modificazioni fisiopatologiche correlate al ciclo vitale, che potrebbero consigliare esami più frequenti: basta pensare alle variazioni del peso corporeo, alle abitudini alimentari, alla menopausa etc... Insomma ci vuole flessibilità sia nei criteri di valutazione dei singoli casi sia nei parametri temporali per alcuni esami, tipo 3-5 anni invece del periodicità quinquennale.

Chi ha stabilito quel lustro di distanza tra un controllo e l'altro dei lipidi ha espresso un'opinione non suffragata da dati scientifici probanti; in quanto tale ha scarso valore EBM e vale perlomeno quanto quella del medico curante, che dispone di molte più informazioni sul singolo assistito, alcune delle quali potrebbero consigliare un controllo più ravvicinato.
Insomma servirebbe maggiore flessibilità e discrezionalità per favorire l'adattamento di alcune limitazioni prescrittive rispetto alla varietà delle situazioni pratiche e del profilo individuale di ogni assistito.

P.S. Ad agosto la regione Lombardia ha emanato nuove regole che escludono la prescrizione dei markers tumorali a scopo diagnostico, entrando in palese contrasto con le indicazioni nazionali, che invece ne consentono esplicitamente la prescrizione anche per la diagnosi (sic!). Ecco il testo.

"In generale i marcatori tumorali devono essere prescritti unicamente solo per follow-up secondo linee guida nazionali e internazionali e quindi devono essere correlati alla diagnosi.
In particolare i seguenti marcatori:
CA19.9: è richiedibile solo per neoplasie del pancreas e vie biliari già diagnosticate o in fase di
accertamento diagnostico differenziale in pazienti con imaging sospetto;
- CA15.3: è richiedibile nelle donne o negli uomini con neoplasia della mammella già diagnosticata;
- CA125: è richiedibile solo per neoplasie epiteliali dell’ovaio e dell’endometrio già diagnosticate o in fase di accertamento diagnostico differenziale in pazienti con imaging sospetto".

Generici tra percezione e realtà

Post n°83 pubblicato il 27 Settembre 2015 

Tra la realtà, in sé e per sé direbbero i filosofi, e la rappresentazione individuale o collettiva che ne danno gli uomini esiste un gap più o meno ampio, tant’è che si parla ormai comunemente in molti ambiti di realtà percepita a fronte di quelle effettiva ed “oggettiva”. La valutazione soggettiva di un rischio è il terreno in cui spesso si registra la divaricazione più eclatante tra la “cosa in sé” e la sua rappresentazione mentale e/o sociale, a cui contribuiscono in modo determinante i vari media.

L’antidoto per evitare che la scissione tra percepito e reale sia troppo ampia e quindi “patologica” è la misurazione, la quantificazione statistica del rischio, che ad esempio dimostra quanto sia più probabile un incidente automobilistico rispetto al disastro aereo, a fronte della convinzione opposta della gente.Per stimare la propensione dei cittadini di una nazione a farsi idee che non collimano con i fatti è stato elaborato dagli inglesi l'Index of ignorance - http://www.huffingtonpost.it/2014/11/02/italia-prima-indice-ignoranza-ispos-mori_n_6089298.html - che vede il nostro paese al top planetario nella non commendevole classifica degli "ignoranti".

Attorno ai farmaci generici si è realizzato negli ultimi anni un caso di studio relativo a queste dinamiche cognitive, individuali e sociali. La letteratura scientifica in proposito è concorde: da un decennio a questa parte sono stati condotti numerosi studi clinici a livello internazionale che hanno dimostrato in modo concorde la pari efficacia dei generici rispetto ai farmaci originali, i cosiddetti “griffati”.

Ebbene, proprio a proposito dell’efficacia dei generici, la "percezione" della gente e di una parte consistente dei medici è di segno opposto, ovvero di scarso "beneficio" del farmaco generico rispetto a quello griffato. E’ ben vero che la componente soggettiva ed “affettiva” ha un ruolo piuttosto importante nella valutazione di efficacia, specie per i farmaci destinati a curare sintomi come dolore, ansia, insonnia etc.. Tuttavia talvolta sono stati segnalati problemi anche nel controllo di parametri clinici oggettivi, come pressione arteriosa, ritmo cardiaco etc.. che per loro natura possono essere verificati anche dal medico curante, al di la delle impressioni soggettive degli assistiti.

Insomma sull’efficacia dei generici c’è in giro non poco scetticismo e diffidenza, nonostante la corposa dimostrazione oggettiva di pari efficacia, che allargano il fossato tra la percezione della gente e la realtà effettiva. Ora proprio recentemente è stata diffusa la clamorosa notizia del ritiro di ben 700 farmaci generici, disposta dall'EMEA, proprio per la presunta manipolazione delle prove cliniche a favore dei farmaci equivalenti, che evidentemente non erano poi così equivalenti (http://www.legalcorner.it/sentenze/%7BA5D4D3B0-3432-11E5-81B0-393038343031%7D).

Una volta tanto quindi sono i fatti oggettivi che si incaricano di colmare la divaricazione rispetto alla percezione elaborata da una parte dei medici e degli assistiti, a dimostrazione che quel gap non era poi così soggettivo e campato in aria, come si poteva pensare sulla base di altre evidenze, evidentemente poco affidabili. Volkswagen docet!

L'errore cognitivo in medicina tra formule e protocolli

Post n°82 pubblicato il 19 Settembre 2015 

La teoria della decisione è dominata da due diverse ed opposte impostazioni: i modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta razionale), e quelli descrittivi, che all’opposto si limitano ad osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai soggetti nei contesti naturali. Anche nel campo dell’errore medico si confrontano questi due atteggiamenti. Due però sono i modelli normativi a confronto, collocati agli estremi di un continuum, quasi come due opposti estremismi: da un lato abbiamo i modelli bayesiani e dall’altro il cosiddetto risck management (RM).

Secondo il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata formula elaborata del reverendo inglese, che nel 700 codificò in modo statistico come devono essere riviste le probabilità alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale, freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo possesso, fino a raggiungere la probabilità finale corretta per poi passare all’azione.

Inutile dire che non è facile trovare nella realtà fattuale un soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali sufficienti e dei dati statistici necessari per applicare in modo impeccabile la fatidica formula. I decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile “razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti naturali: oggi si direbbe, in modo prosaico e scherzoso, che le persone utilizzano un metodo spannometrico.

Sul versante opposto abbiamo il modello del RM in cui spariscono calcoli, formule matematiche e pensiero formale per lasciare spazio a semplici atti in una ben precisa sequenza, stabilita a priori e codificata in protocolli altrettanto rigorosi. Il RM si concentra solo sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. predefiniti e, in quanto tali, garanti dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore, inteso come “fallimento nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo desiderato".
 
Ma oltre alle sequenze preordinate di atti protocollari, in situazioni rischiose e quindi prevedibili, esistono purtroppo anche condizioni e circostanze imprevedibili, che interessano in particolare la fase diagnostica e che implicano processi cognitivi e comunicativi, ovverosia: raccolta ed elaborazione delle informazioni, valutazione probabilistica, interpretazione di sintomi e test clinici, rappresentazioni mentali, formulazione e verifica di ipotesi e degli effetti delle decisioni adottate etc... Insomma c’è di mezzo la mente, il pensiero e la cognizione umane, in tutta la loro misteriosa complessità, compresiva di bias cognitivi, limiti computazionali, euristiche, errori interpretatvi etc… Vale a dire quell'imprevedibile combinazione di circostanze e fatti che portano fuori strada e viene scartata a priori dal RM. 

Questo è il nodo cruciale e il limite ("errore"?) epistemico del RM! Il disinteresse per la mente da parte del RM è un retaggio del comportamentismo, che ha dominato per decenni la psicologia, fino all'avvento della cibernetica e poi del cognitivismo: vale a dire quell’impostazione metodologica che negava la rilevanza dei processi mentali all’interno della “scatola nera”, per dedicarsi solo alla registrazione degli effetti comportamentali (output) osservabili dopo opportuni stimoli esterni (input), sul modello dei riflessi condizionati scoperti da Pavlov. La prospettiva cognitiva è la via di mezzo tra le due opposte visioni, la razionalità assoluta bayesiana da un lato e l’impostazione comportamentista del RM dall'altro.

Diciamo che per evitare o prevenire l'errore diagnostico/cognitivo possono essere utili protocolli operativi (ad esempio check list) ma soprattutto servono processi mentali meta-cognitivi e riflessivi, al fine di smascherare e stanare bias cognitivi, illusioni percettive, euristiche semplificate e automatismi mentali insiti nel pensiero etc. Quasi tutti i gravi errori medici, che comportano un evento avverso con pesanti conseguenze per i pazienti, sono dovuti al concorso, non sempre prevedibile, di concause organizzative, comunicative, operative e cognitive.

P.S. Per analizzare i Quasi errori in medicina.... è stato creato un gruppo di discussione su FaceBook. Per contatti e iscrizioni: giusbel@teletu.it


Anche la guaritrice apprezza il reverendo

Post n°81 pubblicato il 21 Agosto 2015 

Un tempo nei paesi di campagna la gente si rivolgeva per piccoli acciacchi fisici, in genere di natura ortopedica, alla guaritrce del posto dotata di abilità manuali per rimettere a posto nervi o tendini "accavallati" e quindi restituire il benessere. Molte sono ormai invecchiate e non praticano più, ma alcune sono rimaste in campo ed hanno anche saputo adeguare la loro metodologia all'evoluzione delle prassi mediche.
Ecco ad esempio gli esiti di alcune consultazioni di una guaritrice popolare ben nota in paese, alle prese con alcuni tipici problemi della MG, come riferiti da un collega in una lista di discussione medica.
  • "Doveva venire da me prima, ora faccio ciò che posso, intanto vada dal suo medico e si faccia fare una Risonanza e prenda : Voltaren e Soldesam forte 2 volte al giorno. Lasci un' offerta libera e vedrà che la guarirò! Ah dimenticavo: protegga anche lo stomaco, si faccia ordinare una....pompa, non ricordo come si chiama..!"
  • "Ha mal di testa? Faccia subito, ma subito una TAC e si faccia mettere il bollino verde, il suo medico li ha...". "Non digerisce? Faccia un eco e meglio ancora una gastroscopia, non si sa mai!".
Anche a me è capitato qualche anno fa un caso simile. Di fronte ad una caviglia tumefatta e dolente, la signora che sistema i "tendini", aveva rinviato il paziente al medico per fare una radiografia. In sostanza si era tutelata da un possibile misconoscimento diagnostico, per la sottovalutazione di una lesione ossea scambiata per semplice distorsione. L'episodio segnalava un passo in avanti verso un approccio razionale e critico, per una diagnosi di certezza (relativa, ovviamente) e non solo di presunzione. La "guaritrice" dimostrava di aderire ad un impostazione (proto )fallibilista, che parte dalla differenza tra realtà e rappresentazione, tra mappa e territorio, per andare a verificare la fondatezza dell'ipotesi diagnostica.

Nel caso in oggetto mi pare che la guaritrice nostrana faccia un'altro salto di qualità metodologica, in direzione di un approccio per problemi tipico della MG, che prende in considerazione un ventaglio di ipotesi diagnostiche per arrivare alla conferma di una di queste, dopo aver raccolto alcune informazioni di base per una valutazione probabilistica delle ipotesi stesse, seppur spannometrica. Gli esami che suggerisce segnalano un'ulteriore evoluzione metodologica: lo fa però in modo un po' rozzo applicando, in modo meccanico, lo schema se...allora (lombalgia=RMN della colonna, cefalea=TAC encefalo). Ma non c'e' da disperare, prima o poi anche l'approccio bayesiano fara' breccia nel suo (ancora) primitivo processo diagnostico.

Anzi, a ben vedere la guaritrice nostrana ha già adottato uno sguardo proto-bayesiano, perlomeno nel caso di dispepsia, funzionale alla sua strategia di approccio al problema. Grazie all'esperienza ha capito che il suo target ideale, i probabili responder alle sue tacniche curative, sono quei pazienti che hanno gia' provato di tutto, sia sul piano diagnostico che terapeutico. Sono i cosiddetti MUS (Medically Unenxplaned Symptom), ovvero gli sfortunati affetti da disturbi inspiegabili con gli accertamenti diagnostici usuali e ancor più difficili da trattare con l'armamentario farmacologico a disposizione del MMG.

Per cui di fronte ad un problema come la dispepsia si guarda bene dall'intervenire subito ed imposta un iter diagnostico differenziale tra le due ipotesi più probabili, ovvero dispepsia di origine epato-biliare piuttosto che gastroduedenale. Solo dopo aver escluso la natura organica del disturbo, da curare in modo specifico da parte del medico, avrà una sufficiente probabilità a priori di aver a che fare con un caso di MUS e potrà quindi sfoderare le sue armi terapeutiche con discreto successo, grazie al suo primo alleato ovvero l'effetto placebo.

E' proprio vero quello che annotava lo stagirita: "tutti gli uomini per loro natura tendono alla conoscenza". A quanto pare accede pure alle guaritrici nostrane e questa è una buona notizia! C'e' speranza se cio' accade anche nella bassa padana, per parafrasare un'altro motto celebre della pedagogia lombarda!