martedì 23 maggio 2017

L'equivoco della Aggregazioni Funzionali Territoriali

Sono passati quasi 5 anni dal varo della riforma Balduzzi e le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), inserite dalla legge promossa dall’ex ministro ministro del governo Monti, sono rimaste in gran parte sulla carta, principalmente per il decennale mancato rinnovo degli Accordi Collettivi nazionali e locali. Come talvolta accade da noi una buona legge resta per anni inapplicata ma in compenso si avanzano proposte di attuazione che presuppongono una forzatura della normativa.

E' il caso del segretario FIMMG che, al pari del suo predecessore, propone nuovamente di trasformare le AFT in una sorta di ambulatori H24 dotati di tecnologie per intercettare una parte dei codici bianco/verdi che affollano le strutture di emergenza/urgenza (http://tinyurl.com/m4tv4x5). Questa proposta ha un sapore paradossale per i medici Lombardi, alle prese con la "rivoluzione" della delibera Regionale sulla presa in carico dei malati cronici, che assorbirà non poche energie nei prossimi anni e rappresenta la mission e la vocazione organizzativa delle cure primarie. Non si capisce come si possa puntare allo "sviluppo delle aggregazioni della medicina generale sulla diagnostica, spirometrie ed ecografie" per ridurre gli accessi impropri al PS; in realtà gli stessi strumenti diagnostici potrebbero essere validamente utilizzati proprio nella presa in carico e nel monitoraggio della cronicità.

Le AFT hanno ben poco a che fare con le pseudo-urgenze, essendo “forme organizzative monoprofessionali…. che condividono in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi”. La Legge non prevede attività assistenziale “esterna” al gruppo, ovvero rivolta alla popolazione di assistiti, perchè privilegia compiti "interni" alle aggregazioni, di tipo formativo e auto-valutativo. Nelle AFT sarà possibile attuare una maggiore integrazione tra medici delle cure primarie e di continuità assistenziale, tramite collegamenti telematici per la condivisione delle informazioni, ma non certo per promuovere una sorta di ambulatori H24 alternativi ai PS.

Se le AFT hanno obiettivi culturali e di auto-valutazione dell'attività professionale è l'altra forma organizzativa prevista dalla legge, ovvero le Unità Complesse delle Cure Primarie o UCCP, a svolgere compiti assistenziali verso la popolazione: infatti secondo la Balduzzi le UCCP multiprofessionali  “erogano prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’inetgrazione dei medici, delle altre professionalità convenzionate con il Servizo sanitario nazionale, degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria". Questo modello organizzativo è il presupposto per un'offerta di prestazioni in parallelo al PS, mediante "la costituzione di reti di poliambulatoriatori territoriali dotati di strumentazione di base, aperti al pubblico per tutto l’arco della giornata, nonchè nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione”. Ma non certo le AFT!

Quindi le Aggregazioni Territoriali, lungi dall'inserirsi in modo organico nel sistema di offerta sul territorio, rappresentano l'occasione per riunire i MMG dispersi, favorire il confronto tra pari superando il tradizionale isolamento della categoria; a partire dalle AFT è quindi possibile costruire quella comunità di pratica e di formazione continua delle cure primarie che costituisce il principale gap della MG italiana rispetto al resto del continente.

Secondo il pedagogista Etienne Wenger, principale esponente del filone di studi in questo settore, la comunità di pratica (CdP) è un sistema auto-organizzato, che aggrega gruppi omogenei di lavoratori, sia a scopo di apprendimento continuo che di sviluppo professionale. La CdP può aver sede in un luogo fisico, ad esempio una divisione ospedaliera, ma può essere anche virtuale, nel qual caso sono le comunicazioni tra i suoi membri che mantengono la coesione e l’identità del gruppo. Le AFT possono diventare la palestra sociale per coltivare la CdP dei medici del territorio, sia con momenti periodici di interazione in presenza (audit, formazione sul campo etc..) sia utilizzando strumenti di comunicazione come le reti professionali, mailing list, gruppi Facebook etc. Ciò che conta è la chiarezza programmatica circa i compiti e le funzioni per aggregare i MMG e sviluppare queste nuove forme organizzative. Che fino ad ora purtroppo manca...

mercoledì 17 maggio 2017

L'educazione terapeutica può migliorare la cura e la qualità di vita dei malati cronici

Il professore ginevrino Philippe Assal da decenni si occupa in modo pionieristico di malati e condizioni croniche, in particolare diabetici. Il suo modello culturale e gestionale è un riferimento per tutti gli operatori sanitari ed è stato fatto proprio dall’OMS.

La sua tesi di fondo è semplice e chiara: l'approccio alla malattia cronica rappresenta per tutti gli operatori sanitari una sfida epocale che obbliga a venire in contatto e ad interessarsi di vari sistemi di pensiero e di azione, oltre a quello biomedico tradizionale, vale a dire la sfera educativa e psicosociale per un nuovo approccio organizzativo alle cure. Nell’arco di pochi decenni, grazie alla scoperta e all’uso clinico dell’insulina negli anni trenta del 900, il destino di questi malati è cambiato quasi “miracolosamente”: da una vita segnata da stenti e non di rado dall’exitus in giovane età, ad una lunga sopravvivenza in buone condizioni, seppur a prezzo di cure e controlli assidui e con il rischio di complicazioni tardive.

Il punto di partenza del modello di educazione terapeutica di Assal è la differenza tra condizione acuta e cronicità. Infatti nella malattia acuta
°segni e sintomi sono evidenti e si manifestano in modo più o meno repentino;
°bisogna formulare urgentemente una diagnosi rapida e dare inizio al trattamento terapeutico 
°la crisi costituisce un momento critico, talvolta a rischio della vita, e si conclude con la restitutio ad integrum
°l’approccio è di tipo riduzionista, si presta attenzione solo all’essenziale
°il processo diagnostico-terapeutico è il modello di riferimento della formazione medica
°rappresenta meno del 10% dell’insieme delle visite del medico.

Nella malattia cronica invece
  • la guarigione e/o la restitutio ad integrum di regola non è possibile
  • mancano sintomi evidenti e spesso il decorso resta silente per anni al di fuori delle riacutizzazioni o delle crisi
  • se sono presenti dolori, questi tendono a persistere o a recidivare
  • spesso non vi è correlazione tra sintomi soggettivi e parametri biologici
  • l’evoluzione clinica resta incerta sul lungo periodo
  • può dipendere ed essere influenzata dallo stile di vita
Queste differenze hanno importanti conseguenze sull’identità professionale dei medici, sulle aspettative dei pazienti, sulle concezioni e sulle valutazioni di entrambi circa la natura della malattia, la qualità dell’assistenza e gli obiettivi delle cure. Oggi grazie a nuovi modelli di formazione degli operatori e all'educazione dei pazienti l’arsenale terapeutico si è arricchito di un nuovo approccio che consente di migliorare il compenso metabolico, ridurre l’incidenza delle complicanze acute e croniche più gravi del diabete. Tuttavia per raggiungere questi risultati è necessario un coinvolgimento e un elevato grado di interazione tra medico e assistito (ad esempio i contatti telefonici sono frequenti) in un contesto organizzativo-gestionale di tipo quasi militare.

Secondo Assal il cambiamento necessario per seguire i malati cronici è cruciale e comporta una nuova attenzione, da parte degli operatori sanitari, per la persona, le sue idee, la famiglia e l'ambiente sociale. Ognuno di questi livelli sistemici, oltre a quello biologico vero e proprio, ha influenza sul decorso della malattia cronica e deve essere preso in attenta considerazione. Occorre un salto di qualità culturale per passare dal mondo biologico (i processi metabolici implicati nella malattia diabetica) a quello psicosociale (il malato nella sua interezza “ecologica”).

In tutti i paesi e nelle diverse realtà culturali i malati cronici hanno in comune il senso di solitudine per la loro malattia.  I bisogni dei pazienti affetti da una patologia cronica sono ormai noti:
ü  ricevere cure di qualità
ü  avere la possibilità di manifestare attese e timori
ü  confidare che i curanti tengano conto delle opinioni e delle credenze della gente
ü  essere aiutati nel processo di adattamento alla malattia
ü  acquisire un saper fare per gestire la malattia in modo da
ü  conservare l’autonomia potendo nel contempo collaborare con i curanti.

Di conseguenza la relazione tra medico e assistito deve evolvere verso nuove forme che contemplino
ü  la condivisione del sapere e del potere in un modello di rapporto in cui l'operatore accetti di essere "guidato" dal paziente
ü  il superamento del riferimento teorico-pratico alle cure intensive che evoca un medico attivo e un paziente passivo recettore delle prescrizioni
ü  un accordo-compromesso tra logica biomedica e credenze-logiche dell'assistito
ü  una nuova sensibilità per i problemi psicosociale e per il mondo della vita dei malati.

Strategie e tecniche di apprendimento, messe in atto nel corso del processo di educazione terapeutica, sono ispirate a queste stessi principi programmatiche. Ad esempio il medico deve assecondare i desideri del diabetico, anche se non si può rinunciare all’obiettivo pedagogico per eccellenza, ovvero l’evoluzione delle idee preconcette sulla malattia e il tentativo di integrare le nuove conoscenze con le abitudini di vita.

Assal ha sottolinea che le abilità pratiche acquisite dai pz sono il prodotto di turbamenti personali che richiedono l’elaborazione di nuovi significati. A livello personale ogni malato è uno scienziato che sperimenta la validità dei consigli e delle prescrizioni del medico, ad esempio sospendendo il farmaco per verificarne l'efficacia. Così in certi casi la non-compliance è un processo quasi scientifico di validazione delle cure. La reazione del medico a questi esperimenti deve prendere in considerazione un franco confronto tra credenze del pz. e sapere medico ufficiale.

Per facilitare l'apprendimento è necessaria empatia, un'atmosfera positiva e talvolta un pizzico di spirito umoristico non guasta. E’ dimostrato che l'educazione terapeutica riduce le complicanze acute e croniche, le ospedalizzazioni, i costi diretti e indiretti e migliora la qualità di vita della gente. Per raggiungere questi obiettivi si richiede una formazione terapeutica sistematica che superi la frammentarietà di una gestione orientata ad affrontare solo gli aspetti particolari ed episodici della malattia.

Purtroppo però nell’attuale organizzazione sanitaria gli specialistici che interagiscono con il diabetico non sono in grado di comunicare tra loro. L’approccio biomedico trascura una dimensione molto importante dell’esperienza di malattia: le idee, le credenze, le attese e i pregiudizi del malato che deve essere aiutato ad esprimere le sue preoccupazioni nascoste. E’ quindi prioritaria una formazione continua che abitui gli operatori sanitari a considerare non solo l’equilibrio metabolico ma anche quello psicosociale e a prestare attenzione alle rappresentazioni mentali del malato.

sabato 6 maggio 2017

Delibera sulle modalità di presa in carico dei pazienti fragili e cronici

Al link la delibera della regione Lombardia sulle "Modalità di presa in carico dei pazienti fragili e cronici", che completa la Delibera 6164 del gennaio 2017.

Di seguito le principali novità per il MMG (par. 2.4), che può aderire alla presa in carico in tre modi.

1-Il Medico di Medicina Generale come soggetto gestore

Per assumere il ruolo di gestore del paziente cronico, il MMG può presentare la propria manifestazione di interesse all’ATS, esclusivamente per i propri assistiti classificati ai sensi della DGR n. X/6164/2017. Per candidarsi come gestore il MMG non può presentarsi singolarmente, ma deve organizzarsi in forme associative quali società di servizio, quali le cooperative, previste dalla normativa vigente e comunque aggregazioni di MMG dotate di personalità giuridica possibilmente in coerenza con gli ambiti distrettuali per il rispetto del principio di prossimità territoriale. Il medico di medicina generale gestore, è sempre il responsabile del percorso di presa in carico, mentre l’aggregazione di MMG (società di servizi, anche cooperativa) è soggetto titolare della presa in carico [.....]

L’ATS, una volta riconosciuta idonea alla presa in carico l’aggregazione di MMG, definisce l’elenco dei Medici di Medicina Generale, presente sul proprio sito istituzionale, con l’indicazione del riconoscimento di idoneità dell’aggregazione dei MMG, in modo da rendere fruibile il dato a tutti gli assistiti interessati.
Ogni MMG facente parte dell’aggregazione redige il PAI e il patto di cura per i propri assistiti e per questa funzione si prevede una specifica quota non superiore ai 10 euro all’interno della quota fissa prevista per la funzione di accompagnamento alla presa in carico di cui all’allegato n. 4.

2-Il Medico di Medicina Generale come co-gestore dei pazienti cronici

Il MMG che non intenda svolgere direttamente la funzione di soggetto gestore può partecipare, singolarmente, alla modalità di presa in carico dei propri assistiti cronici con una funzione di co-gestore, ovvero in collaborazione con altri soggetti gestori (ad esclusione di altri MMG in forma aggregata) per garantire una funzione di condivisione della gestione, esclusivamente in relazione a prestazioni non ricomprese in attività istituzionale già remunerata in quota capitaria.
A tal fine comunica formalmente alla ATS la propria disponibilità ad assumere tale ruolo e a collaborare con i soggetti gestori per garantire direttamente alcune prestazioni, tra le quali rientra tipicamente la definizione del PAI. La comunicazione deve essere congiunta con l’altro co-gestore.
  • Per i pazienti cronici del 3° livello il MMG potrà candidarsi come co-gestore e in questo caso redige il PAI e sottoscrive insieme al Gestore il Patto di cura.
  • Per i pazienti cronici del 1° e 2° livello, il MMG può essere co-gestore e redige il PAI. Il Patto di cura è sottoscritto dal MMG e dal Gestore insieme al paziente.
Nel caso in cui il gestore scelto dal paziente non optasse per la soluzione sopra esposta il rispettivo PAI sarà definito dal medico specialista operante presso il gestore che ha l’effettiva responsabilità della presa in carico, come previsto dal Piano Nazionale della Cronicità.[....]

L’ATS definisce l’elenco dei Medici di Medicina Generale, presente sul proprio sito istituzionale, con l’indicazione dell’assunzione del ruolo di co-gestore del singolo MMG, in modo da rendere fruibile il dato ai gestori e a tutti gli assistiti interessati. Per la definizione del PAI si prevede una specifica quota non superiore ai 10 euro da decurtare dalla quota fissa per la funzione di accompagnamento alla presa in carico di cui all’allegato n. 4 assegnata al gestore, che sarà riconosciuta al MMG a seguito della validazione del PAI da parte della ATS. Oltre al PAI, il MMG può concordare con i singoli gestori ulteriori prestazioni da lui direttamente erogabili e la remunerazione delle stesse sarà regolata successivamente secondo indicazioni regionali.

3-Il MMG che non partecipa alla presa in carico

Qualora il MMG non svolga le funzioni di gestione o di collaborazione alla gestione (co-gestore), allo stesso viene trasmesso, per la condivisione informativa, dal soggetto gestore il PAI dei propri pazienti. Entro 15 giorni dalla ricezione del PAI il MMG deve formulare il suo parere, sempre limitatamente alle prestazioni contenute nei set di riferimento. Il parere si intende comunque acquisito trascorsi i 15 giorni.

La responsabilità e la redazione del PAI sono del medico specialista che può, motivando, non recepire le eventuali osservazioni fornite dal MMG. In questo caso il MMG ha facoltà di segnalare all’ATS il disaccordo. Rimangono di sua competenza le prescrizioni relative alle ricette di farmaci e le prestazioni previste dall’ACN non strettamente correlate ai set di riferimento relativi alle patologie croniche.

Responsabilità professionale tra linee guida, sbagli ed errori

La recente legge sulla responsabilità professionale (vedi il post precedente) ha fatto propria la concezione del risk management, che definisce l'errore medico il "fallimento nella pianificazione e/o nell'esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato". Ma è sempre così?

Per rispondere è opportuno introdurre la distinzione tra sbaglio ed errore, come suggerisce la filosofia della scienza: dove per sbaglio si intende un difetto nell'applicazione di alcune regole formali, come quelle richieste per portare a termine un compito scolastico. È il caso dello studente che sbaglia, per disattenzione o ignoranza, nello svolgimento di un esercizio che presuppone l’applicazione di regole algebriche, ad esempio le "espressioni" matematiche dei compiti a casa; al termine dello svolgimento per effetto degli sbagli il risultato finale dell'esercizio si discosterà dalla soluzione corretta, nota a priori.

Non si tratta, quindi, di risolvere un problema nuovo e inedito, ma semplicemente di applicare in modo automatico alcune regole. A tale concezione si ricollega l’idea che si possa prevenire l'errore grazie alla rigorosa applicazione di precetti metodologici o protocolli comportamentali prestabiliti, garanti del buon esito finale. Sono sbagli in medicina i ritardi diagnostici per la mancata acquisizione di un dato clinico/anamnestico rilevante, previsto dalle buone pratiche (ad esempio un esame obiettivo incompleto). Contromisure utili sono la puntuale tenuta della cartella clinica, l'esame obiettivo sistematico e il non rinviare la prescrizione di accertamenti nei casi dubbi.

La legge sulla responsabilità professionale, nel momento in cui pone le linee guida come riferimento per la valutazione delle decisioni, tanto da mettere al riparo dall'accusa di imperizia, sembra aderire al concetto di "sbaglio" sopra descritto. Questa impostazione  è valida nel campo della terapia ma in fase diagnostica le cose sono più sfaccettate e sfumate, prima di tutto perchè la diagnosi è un processo prettamente mentale e non una sequenza pianificata di atti. Nel lessico del risk management si parla di knowledge based-behavior quando al clinico è richiesto il maggior impegno di conoscenze e di elaborazione delle informazione, finalizzate all'attuazione del piano per la soluzione del problema.

L’errore di tipo cognitivo è, in sostanza, una fallacia nella risoluzione di un problema che non presenta una soluzione lineare e necessaria a priori. Al knowledge based-behavior  corrisponde l'errore del giudizio o mistake, ovvero un deficit nei processi inferenziali coinvolti nell'analisi del problema, nella selezione di un obiettivo, nella esplicitazione dei mezzi per raggiungerlo, nella scelta di regole errate o basate su conoscenze inadeguate.

A differenza dello sbaglio, la soluzione di un caso clinico è un processo di indagine e di scoperta a tappe, di tipo indiziario e ipotetico-selettivo, che utilizza il metodo trial and error e non la mera applicazione di un algoritmo in una sequenza pianificata di azioni predeterminate. Nella forma più comune la diagnosi è il riconoscimento di un quadro clinico (pattern recognition) che esita nella categorizzazione del singolo paziente in una classe nosografica generale. Sebbene il processo diagnostico possa essere modellizzato secondo regole inferenziali generali (induzione, deduzione, abduzione, selezione, euristiche etc..), non esiste il metodo infallibile ed un albero decisionale valido in ogni circostanza e per ogni specifico sintomo o problema.

Per di più nella pratica non si incontrano solo casi tipici, pazienti "medi", descrizioni da manuale; la diagnosi emerge dall'elaborazione intrapsichica delle informazioni e dalla rappresentazione/categorizzazione della realtà. Se tutti i portatori di una stessa condizione clinica fossero identici, ovvero se la malattia presentasse un esordio e un decorso standard, probabilmente basterebbe applicare un algoritmo a partire da poche informazioni per portare a termine con successo il riconoscimento diagnostico.

Insomma il ragionamento diagnostico non è completamente "lineaguidabile". A questi problemi metodologici sembra alludere l'ultima frase dell'art. 6 della legge Gelli, che introduce una sorta di clausola di salvaguardia: "...sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".  Un esempio paradigmatico di inadeguatezza delle Linee Guida rispetto alla pratica è quello dei cosiddetti MUS (Medically Unexplaned Symptoms), ovvero dei disturbi aspecifici e atipici, orfani di una spiegazione  nosografica, che restano "in-diagnosticati" anche dopo numerosi accertamenti clinici e ripetute consulenze specialistiche.

Nella pratica medicina prevale la variabilità delle presentazioni e dell’evoluzione delle condizioni morbose, senza considerare le frequenti associazioni patologiche, le malattie rare, sintomi e segni di incerta interpretazione. La complessità delle patologie e l’unicità di ogni malato fanno sì che il processo diagnostico non si possa ridurre ad un'applicazione "automatica" di algoritmi o routine pre-definite; anzi i problemi più impegnativi sono quelli che sfuggono alle schematizzazioni in quanto si manifestano con sintomi enigmatici, rompicapo clinici, disturbi atipici o anomali che possono mettere in difficoltà ed "ingannare" anche il professionista navigato.

Come ribadisce il professor Rugarli nel suo ultimo libro "l’esercizio della clinica non è di tipo algoritmico ma ha una natura euristica, per la quale occorrono immaginazione e logica. Una diagnosi non può essere eseguita in maniera puramente meccanica ma richiede l’uso dell’intelligenza del medico per arrivare a formulare un’ipotesi e a comprendere fino in fondo il malato".