La recente legge sulla responsabilità professionale (vedi il post precedente) ha fatto propria la concezione del risk management, che definisce l'errore medico il "fallimento nella pianificazione e/o nell'esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato". Ma è sempre così?
Per rispondere è opportuno introdurre la distinzione tra sbaglio ed errore, come suggerisce la filosofia della scienza: dove per sbaglio si intende un difetto nell'applicazione di alcune regole formali, come quelle richieste per portare a termine un compito scolastico. È il caso dello studente che sbaglia, per disattenzione o ignoranza, nello svolgimento di un esercizio che presuppone l’applicazione di regole algebriche, ad esempio le "espressioni" matematiche dei compiti a casa; al termine dello svolgimento per effetto degli sbagli il risultato finale dell'esercizio si discosterà dalla soluzione corretta, nota a priori.
Non si tratta, quindi, di risolvere un problema nuovo e inedito, ma semplicemente di applicare in modo automatico alcune regole. A tale concezione si ricollega l’idea che si possa prevenire l'errore grazie alla rigorosa applicazione di precetti metodologici o protocolli comportamentali prestabiliti, garanti del buon esito finale. Sono sbagli in medicina i ritardi diagnostici per la mancata acquisizione di un dato clinico/anamnestico rilevante, previsto dalle buone pratiche (ad esempio un esame obiettivo incompleto). Contromisure utili sono la puntuale tenuta della cartella clinica, l'esame obiettivo sistematico e il non rinviare la prescrizione di accertamenti nei casi dubbi.
La legge sulla responsabilità professionale, nel momento in cui pone le linee guida come riferimento per la valutazione delle decisioni, tanto da mettere al riparo dall'accusa di imperizia, sembra aderire al concetto di "sbaglio" sopra descritto. Questa impostazione è valida nel campo della terapia ma in fase diagnostica le cose sono più sfaccettate e sfumate, prima di tutto perchè la diagnosi è un processo prettamente mentale e non una sequenza pianificata di atti. Nel lessico del risk management si parla di knowledge based-behavior quando al clinico è richiesto il maggior impegno di conoscenze e di elaborazione delle informazione, finalizzate all'attuazione del piano per la soluzione del problema.
L’errore di tipo cognitivo è, in sostanza, una fallacia nella risoluzione di un problema che non presenta una soluzione lineare e necessaria a priori. Al knowledge based-behavior corrisponde l'errore del giudizio o mistake, ovvero un deficit nei processi inferenziali coinvolti nell'analisi del problema, nella selezione di un obiettivo, nella esplicitazione dei mezzi per raggiungerlo, nella scelta di regole errate o basate su conoscenze inadeguate.
A differenza dello sbaglio, la soluzione di un caso clinico è un processo di indagine e di scoperta a tappe, di tipo indiziario e ipotetico-selettivo, che utilizza il metodo trial and error e non la mera applicazione di un algoritmo in una sequenza pianificata di azioni predeterminate. Nella forma più comune la diagnosi è il riconoscimento di un quadro clinico (pattern recognition) che esita nella categorizzazione del singolo paziente in una classe nosografica generale. Sebbene il processo diagnostico possa essere modellizzato secondo regole inferenziali generali (induzione, deduzione, abduzione, selezione, euristiche etc..), non esiste il metodo infallibile ed un albero decisionale valido in ogni circostanza e per ogni specifico sintomo o problema.
Per di più nella pratica non si incontrano solo casi tipici, pazienti "medi", descrizioni da manuale; la diagnosi emerge dall'elaborazione intrapsichica delle informazioni e dalla rappresentazione/categorizzazione della realtà. Se tutti i portatori di una stessa condizione clinica fossero identici, ovvero se la malattia presentasse un esordio e un decorso standard, probabilmente basterebbe applicare un algoritmo a partire da poche informazioni per portare a termine con successo il riconoscimento diagnostico.
Insomma il ragionamento diagnostico non è completamente "lineaguidabile". A questi problemi metodologici sembra alludere l'ultima frase dell'art. 6 della legge Gelli, che introduce una sorta di clausola di salvaguardia: "...sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto". Un esempio paradigmatico di inadeguatezza delle Linee Guida rispetto alla pratica è quello dei cosiddetti MUS (Medically Unexplaned Symptoms), ovvero dei disturbi aspecifici e atipici, orfani di una spiegazione nosografica, che restano "in-diagnosticati" anche dopo numerosi accertamenti clinici e ripetute consulenze specialistiche.
Nella pratica medicina prevale la variabilità delle presentazioni e dell’evoluzione delle condizioni morbose, senza considerare le frequenti associazioni patologiche, le malattie rare, sintomi e segni di incerta interpretazione. La complessità delle patologie e l’unicità di ogni malato fanno sì che il processo diagnostico non si possa ridurre ad un'applicazione "automatica" di algoritmi o routine pre-definite; anzi i problemi più impegnativi sono quelli che sfuggono alle schematizzazioni in quanto si manifestano con sintomi enigmatici, rompicapo clinici, disturbi atipici o anomali che possono mettere in difficoltà ed "ingannare" anche il professionista navigato.
Come ribadisce il professor Rugarli nel suo ultimo libro "l’esercizio della clinica non è di tipo algoritmico ma ha una natura euristica, per la quale occorrono immaginazione e logica. Una diagnosi non può essere eseguita in maniera puramente meccanica ma richiede l’uso dell’intelligenza del medico per arrivare a formulare un’ipotesi e a comprendere fino in fondo il malato".
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