mercoledì 17 maggio 2017

L'educazione terapeutica può migliorare la cura e la qualità di vita dei malati cronici

Il professore ginevrino Philippe Assal da decenni si occupa in modo pionieristico di malati e condizioni croniche, in particolare diabetici. Il suo modello culturale e gestionale è un riferimento per tutti gli operatori sanitari ed è stato fatto proprio dall’OMS.

La sua tesi di fondo è semplice e chiara: l'approccio alla malattia cronica rappresenta per tutti gli operatori sanitari una sfida epocale che obbliga a venire in contatto e ad interessarsi di vari sistemi di pensiero e di azione, oltre a quello biomedico tradizionale, vale a dire la sfera educativa e psicosociale per un nuovo approccio organizzativo alle cure. Nell’arco di pochi decenni, grazie alla scoperta e all’uso clinico dell’insulina negli anni trenta del 900, il destino di questi malati è cambiato quasi “miracolosamente”: da una vita segnata da stenti e non di rado dall’exitus in giovane età, ad una lunga sopravvivenza in buone condizioni, seppur a prezzo di cure e controlli assidui e con il rischio di complicazioni tardive.

Il punto di partenza del modello di educazione terapeutica di Assal è la differenza tra condizione acuta e cronicità. Infatti nella malattia acuta
°segni e sintomi sono evidenti e si manifestano in modo più o meno repentino;
°bisogna formulare urgentemente una diagnosi rapida e dare inizio al trattamento terapeutico 
°la crisi costituisce un momento critico, talvolta a rischio della vita, e si conclude con la restitutio ad integrum
°l’approccio è di tipo riduzionista, si presta attenzione solo all’essenziale
°il processo diagnostico-terapeutico è il modello di riferimento della formazione medica
°rappresenta meno del 10% dell’insieme delle visite del medico.

Nella malattia cronica invece
  • la guarigione e/o la restitutio ad integrum di regola non è possibile
  • mancano sintomi evidenti e spesso il decorso resta silente per anni al di fuori delle riacutizzazioni o delle crisi
  • se sono presenti dolori, questi tendono a persistere o a recidivare
  • spesso non vi è correlazione tra sintomi soggettivi e parametri biologici
  • l’evoluzione clinica resta incerta sul lungo periodo
  • può dipendere ed essere influenzata dallo stile di vita
Queste differenze hanno importanti conseguenze sull’identità professionale dei medici, sulle aspettative dei pazienti, sulle concezioni e sulle valutazioni di entrambi circa la natura della malattia, la qualità dell’assistenza e gli obiettivi delle cure. Oggi grazie a nuovi modelli di formazione degli operatori e all'educazione dei pazienti l’arsenale terapeutico si è arricchito di un nuovo approccio che consente di migliorare il compenso metabolico, ridurre l’incidenza delle complicanze acute e croniche più gravi del diabete. Tuttavia per raggiungere questi risultati è necessario un coinvolgimento e un elevato grado di interazione tra medico e assistito (ad esempio i contatti telefonici sono frequenti) in un contesto organizzativo-gestionale di tipo quasi militare.

Secondo Assal il cambiamento necessario per seguire i malati cronici è cruciale e comporta una nuova attenzione, da parte degli operatori sanitari, per la persona, le sue idee, la famiglia e l'ambiente sociale. Ognuno di questi livelli sistemici, oltre a quello biologico vero e proprio, ha influenza sul decorso della malattia cronica e deve essere preso in attenta considerazione. Occorre un salto di qualità culturale per passare dal mondo biologico (i processi metabolici implicati nella malattia diabetica) a quello psicosociale (il malato nella sua interezza “ecologica”).

In tutti i paesi e nelle diverse realtà culturali i malati cronici hanno in comune il senso di solitudine per la loro malattia.  I bisogni dei pazienti affetti da una patologia cronica sono ormai noti:
ü  ricevere cure di qualità
ü  avere la possibilità di manifestare attese e timori
ü  confidare che i curanti tengano conto delle opinioni e delle credenze della gente
ü  essere aiutati nel processo di adattamento alla malattia
ü  acquisire un saper fare per gestire la malattia in modo da
ü  conservare l’autonomia potendo nel contempo collaborare con i curanti.

Di conseguenza la relazione tra medico e assistito deve evolvere verso nuove forme che contemplino
ü  la condivisione del sapere e del potere in un modello di rapporto in cui l'operatore accetti di essere "guidato" dal paziente
ü  il superamento del riferimento teorico-pratico alle cure intensive che evoca un medico attivo e un paziente passivo recettore delle prescrizioni
ü  un accordo-compromesso tra logica biomedica e credenze-logiche dell'assistito
ü  una nuova sensibilità per i problemi psicosociale e per il mondo della vita dei malati.

Strategie e tecniche di apprendimento, messe in atto nel corso del processo di educazione terapeutica, sono ispirate a queste stessi principi programmatiche. Ad esempio il medico deve assecondare i desideri del diabetico, anche se non si può rinunciare all’obiettivo pedagogico per eccellenza, ovvero l’evoluzione delle idee preconcette sulla malattia e il tentativo di integrare le nuove conoscenze con le abitudini di vita.

Assal ha sottolinea che le abilità pratiche acquisite dai pz sono il prodotto di turbamenti personali che richiedono l’elaborazione di nuovi significati. A livello personale ogni malato è uno scienziato che sperimenta la validità dei consigli e delle prescrizioni del medico, ad esempio sospendendo il farmaco per verificarne l'efficacia. Così in certi casi la non-compliance è un processo quasi scientifico di validazione delle cure. La reazione del medico a questi esperimenti deve prendere in considerazione un franco confronto tra credenze del pz. e sapere medico ufficiale.

Per facilitare l'apprendimento è necessaria empatia, un'atmosfera positiva e talvolta un pizzico di spirito umoristico non guasta. E’ dimostrato che l'educazione terapeutica riduce le complicanze acute e croniche, le ospedalizzazioni, i costi diretti e indiretti e migliora la qualità di vita della gente. Per raggiungere questi obiettivi si richiede una formazione terapeutica sistematica che superi la frammentarietà di una gestione orientata ad affrontare solo gli aspetti particolari ed episodici della malattia.

Purtroppo però nell’attuale organizzazione sanitaria gli specialistici che interagiscono con il diabetico non sono in grado di comunicare tra loro. L’approccio biomedico trascura una dimensione molto importante dell’esperienza di malattia: le idee, le credenze, le attese e i pregiudizi del malato che deve essere aiutato ad esprimere le sue preoccupazioni nascoste. E’ quindi prioritaria una formazione continua che abitui gli operatori sanitari a considerare non solo l’equilibrio metabolico ma anche quello psicosociale e a prestare attenzione alle rappresentazioni mentali del malato.

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