mercoledì 31 marzo 2021

Primo bilancio della presa in carico della cronicità e fragilità in Lombardia

 Giuseppe Belleri, La presa in carico della cronicità e fragilità in Lombardia: nascita, evoluzione ed esiti di una riforma, FRG editore, Roma, 2021

Prefazione di Antonio Bonaldi (past president di Slow Medicine)

https://www.frgeditore.it/la-presa-in-carico-della-cronicita-e-fragilita-in-lombardia

Presentazione e indice

La riforma lombarda della cronicità ha compiuto tre anni ed è quindi possibile tracciare un primo “bilancio di salute” dell’iniziativa con una sorta di “tagliando” di controllo alla tappa intermedia del percorso. Dopo un biennio di applicazione della Presa in Carico (PiC) della cronicità e fragilità, varata nel 2017 e messa in campo nel 2018, non è però possibile stilare una valutazione esauriente basata su solidi indicatori di processo, esito intermedio e appropriatezza (outcomes) e circa il suo impatto sull’evoluzione clinica delle patologie croniche e sugli esiti di salute. I dati statistici disponibili consentono solo quella che gli esperti definiscono valutazione in itinere (output) circa le adesioni degli attuatori (Cooperative di Medici di Medicina Generale o MMG, Gestori pubblici e privati, Clinical Manager o CM) e soprattutto dei destinatari (oltre 3 milioni pazienti cronici mono o polipatologici) che nella primavera del 2018 hanno ricevuto la proposta di sottoscrivere il Patto di Cura con un Gestori disponibile a farsi cario della loro condizione patologica.

Il volume ripercorre l’iter della riforma utilizzando come framework analitico il ciclo delle politiche pubbliche, per una prima provvisoria valutazione dei suoi esiti. Le decisioni di policy, come quelle che hanno condotto al varo della PiC, hanno a che fare con la soluzione di problemi pubblici percepiti come rilevanti o urgenti tanto da esigere un cambiamento più o meno radicale. Il ciclo di policy inizia con la definizione del problema che presuppone la cosiddetta teoria causale, ovvero la descrizione delle criticità e delle disfunzioni che hanno generato il problema oggetto dell’intervento riformatore. Spetta poi alla fase di attuazione indurre il cambiamento previsto dalla teoria del programma, a livello del comportamento individuale e/o dell’assetto sistemico. Secondo il Prof. Bruno Dente, uno dei massimi esperti in materia, le politiche pubbliche per loro natura devono misurarsi con un’incertezza circa gli esiti, correlata a tre caratteristiche peculiari della sfera pratica:

  • la complessità del progetto, per il coinvolgimento e la partecipazione di una pluralità di attori autonomi ma interdipendenti;
  • la difficoltà nella previsione dei risultati dovuti all’interazione strategica tra promotori, portatori di interessi, attuatori e destinatari della riforma;
  • i potenziali conflitti tra gli attori coinvolti, latori di obiettivi, risorse, logiche e strategie d’azione non sempre convergenti o allineate con gli obiettivi dei promotori.
Per comprendere e valutare gli esiti del primo biennio della riforma è utile una duplice chiave metodologica: quella delle diverse dimensioni implicate nella sfera pubblica (normativa, istituzionale, cognitiva, economica, organizzativa, sociale etc..) e quella dei livelli sistemici che caratterizzano le decisioni nel settore sociosanitario, così articolati:

·         quello macro della politica sanitaria nazionale e regionale, ad esempio la scelta di innestare nella PA elementi di competizione amministrata e di gestione aziendale, nell’ambito del cosiddetto quasi mercato interno promosso dal New Public Management;

·         quello meso delle decisioni degli attori organizzativi coinvolti nella riforma (Gestori, MMG, Clinical Manager e assistiti), ad esempio il dibattito a livello locale tra le organizzazioni professionali e i MMG sui costi/benefici dell’adesione o meno alla riforma;

·         quello micro dell’impatto sulla relazione di cura nel contesto territoriale, ad esempio l’incertezza decisionale dei pazienti per gli effetti pratici, i costi logistici dell’adesione e l’importanza attribuita alla componente relazionale nella migrazione/defezione dal MMG al Gestore..

 

L’analisi delle dinamiche innescate dalla riforma si è focalizzata sui processi decisionali dei destinatari e degli attuatori, posti di fronte alla scelta se prender parte o meno al cambiamento. Il primo esito quantitativo della PiC è stato condizionato da due variabili: in modo diretto del numero di adesioni dei destinatari delle opportunità offerte dal programma e indirettamente dalla partecipazione dei professionisti e dagli effetti della concorrenza tra MMG e CM del Gestore, la novità più rilevante introdotta dalla riforma. In linea generale le preferenze degli attori risentono di diversi criteri circa l’opportunità di accettare formalmente il cambiamento proposto da una policy. L’introduzione metodologica del testo propone la cassetta degli attrezzi concettuali utilizzati per tentare di spiegare ex post le scelte individuali e collettive, in relazione a tre dimensioni

  •        economica: secondo il paradigma della scelta razionale la decisione scaturisce dal bilancio tra costi e benefici attesi dalle opzioni alternative concorrenti, in funzione delle preferenze individuali;
  •          cognitivo-comportamentale: il calcolo razionale dei potenziali vantaggi può risentire dei limiti computazionali e della cosiddetta contabilità mentale, che comporta l’attivazione di euristiche e potenziali biases decisionali;
  •          psicosociale: la preferenza può essere influenzata dal contesto organizzativo e socio-relazionale per la rilevanza della dimensione interpersonale e valoriale nella cura delle patologie croniche sul territorio (continuità assistenziale, scelta/revoca, fiducia, lealtà, defezione ecc.)

I primi quattro capitoli sono focalizzati sull’analisi retrospettiva della riforma e in particolare sui meccanismi, impliciti ed espliciti, che dovevano indurre il cambiamento teorizzato ma realizzato in minima parte: le adesioni complessive sono state inferiori al 10% della popolazione interessata e soprattutto si è verificata un’asimmetria nella sottoscrizione dei Patti di Cura e dei Piani assistenziali tra MG e CM. Infatti solo il 5% dei destinatari della PiC ha optato per un Gestore ospedaliero a fronte del 95% che si è rivolta al medico curante. Perché i cronici lombardi non hanno colto i vantaggi offerti dal programma snobbando i Clinical Manager ospedalieri, proposti in alternativa al MMG per compensarne carenze organizzative e professionali? Per quali motivi l’introduzione della concorrenza verticale, ovvero tra cure primarie e specialistiche, ha avuto un così scarso apprezzamento tra i cittadini lombardi? 

Nel tentativo di dare una risposta si è fatto ricorso alla cornice teorico-pratica delle politiche pubbliche, che integra le dimensioni esplicative sopra menzionate; in particolare un programma efficace dovrebbe far leva su specifici meccanismi psicologici e sociali, favorenti il raggiungimento degli obiettivi attesi, da valutare ex ante e in itinere. Il dispositivo tecnico normativo deve essere calato nella realtà dal sistema sociale di implementazione, composto da promotori, attuatori e beneficiari che interagiscono tra loro in un contesto che li condiziona e vincola. La riforma ha scontato una fragile teoria del cambiamento per una concatenazione indefinita tra i meccanismi causali del processo a tappe, che inizia con l'input e termina con l'impatto sul lungo periodo passando da output, outcome e relativi indicatori specifici e pre-definiti per il monitoraggio del percorso. 

Gli ultimi 2 capitoli sono dedicati alle problematiche clinico-assistenziale, con il confronto tra l’impostazione della PiC e quella di un’analoga iniziativa portata avanti nell’ATS di Brescia, e al network socioassistenziale di PiC e cura dei soggetti polipatologici, non autosufficienti o fragili.


L’attuazione di una riforma, lungi dall’implicare la mera esecuzione top down delle istruzioni previste dal dispositivo tecnico, si deve confrontare con un autonomo sistema sociale d'azione/regolazione e si configura come un’indagine pratica, come un processo di scoperta e di ricerca sul campo che fa emergere informazioni “sommerse” e caratteristiche sconosciute del contesto. Una riforma è una sorta di esperimento che genera nuova conoscenza nel momento in cui sottopone alla prova dei riscontri empirici la teoria causale, le premesse cognitive spesso implicite e i meccanismi applicativi del programma. La riforma si è rivelata anche una sorta di stress test organizzativo e sociale per i comparti del SSR coinvolti ed i suoi esiti un banco di prova per verificare la bontà e l’efficacia della teoria dell’intervento, in funzione delle reazioni degli attori e dell’impatto a breve termine sui servizi.

 Infine è inevitabile una considerazione sull’evoluzione dello scenario epidemiologico conseguente allo tsunami Covid-19. La risposta organizzativa del sistema ha accentuato la mission ospedaliera a farsi carico degli eventi acuti ed emergenziali, tanto da chiedere il supporto delle cure primarie per arginare sul territorio l’ondata pandemica e proteggere le strutture assediate da SARS-COV 2; l’ospedale si è ristrutturato nel segno del “ripiegamento” su se stesso, della chiusura verso l’ambiente, con rinvio di prestazioni e ricoveri, per fronteggiare la perturbazione pandemica.  Una strategia gestionale agli antipodi rispetto al disegno programmatico della PiC che andava in direzione opposta, ovvero proponeva di trasferire una parte della cronicità dal territorio al nosocomio. Una scelta strategica rivelatasi irrealistica e impraticabile nell’anno che verrà ricordato come d’esordio della più grande “rivoluzione” epidemiologica dell’ultimo secolo, segnando probabilmente anche una crisi irreversibile di una PiC così concepita.

INDICE DEL VOLUME

Il libro, dopo l'introduzione generale e metodologica, si compone di tre parti. Nella prima e nella seconda verranno esaminate le tappe del percorso di applicazione della riforma, sulla base delle strategie adottate dai promotori (decisioni incrementali vs non incrementali) delle scelte dei destinatari (le adesioni degli assistiti) e degli attuatori della PiC (la partecipazione dei MMG e dei CM dei Gestori ospedalieri). La terza ed ultima analizza l’impatto della riforma sulle decisioni cliniche, sulla gestione ambulatoriale delle patologie croniche, sui bisogni socioassistenziali nei polipatologici e fragili, con necessità di cure coinvolgenti il network territoriale.

Il primo capitolo passa in rassegna le norme che hanno definito il perimetro attuativo della PiC nonché i dati statistici disponibili che illustrano il suo impatto sui servizi territoriali. Il secondo è dedicato all’illustrazione delle caratteristiche economiche ed organizzative della medicina convenzionata a partire dalla riforma sanitaria del 1978 che ha inaugurato l’era della medicina convenzionata, presupposto normativo della PiC ante litteram in MG. Il terzo capitolo ripercorre le tappe dell’implementazione analizzate con le categorie esplicative ed interpretative delle decisioni di politica pubblica. Il quarto e il quinto sono dedicati alle scelte degli attuatori e dei destinatari di fronte alle opportunità offerte dalle riforma: i primo propone una lettura della decisione se aderire o meno, che fa riferimento alle caratteristiche delle politiche pubbliche, all’economia comportamentale e alle euristiche/bias che condizionano le scelte in condizioni di incertezza, mentre il successivo tratta dell’importanza della dimensione relazionale e “morale” nella relazione di cura riconducibile ai concetti di fiducia, lealtà e defezione. Il settimo capitolo affronta le problematiche cliniche ed organizzativa  del processo di PiC proponendo il confronto con un’analoga iniziativa di PiC ante litteram, portata avanti in Lombardia nel decennio precedente. Il penultimo capitolo è dedicato all’impatto della riforma lombarda sulla rete sociosanitarie ed assistenziale che sul territorio supporta la gestione dei cronici complessi e fragili, in quanto tali primi beneficiari della riforma. Infine l’ultimo capitolo traccia una sintesi e le conclusioni riguardo agli esiti del primo biennio di realizzazione della riforma.

giovedì 25 marzo 2021

Evoluzione settimanale della pandemia al 24 marzo

 Evoluzione settimanale della pandemia

Nell'ultima settimana si è invertito il trend dell'ultimo mese in costante aumento dall'inizio di marzo, a dimostrazione di un primo effetto positivo delle misure di contenimento adottate. Tutti i principali indicatori sono in diminuzione, tranne la mortalità, segno che siamo entrati nella fase calante della terza ondata.

  • i nuovi casi settimanali passano da +158442 a +115908, con una riduzione di 1/3 circa
  • i ricoverati aumentano di 1921 rispetto agli oltre 3500 e i degenti in TS sono +271
  • i decessi tornano a crescere, con 2907 rispetto ai 2621 della scorsa settimana
  • i soggetti in isolamento domiciliare aumentano di oltre 20mila
  • in Lombardia il decremento dei casi è in linea con quello nazionale
  • i tamponi superano i 2,2 milioni con una positività che scende al 5,2% rispetto al 6.8% 




        Andamento mensile e confronto tra prima e seconda ondata

I dati di febbraio indicano una riduzione di alcuni indici rispetto a gennaio, in particolare per quanto riguarda nuovi casi e i ricoverati; aumentano lievemente i degenti in TI e restano sempre elevati i decessi; riduce la percentuale di positivi sui tamponi eseguiti, per l'aggiunta dei tamponi rapidi ai molecolari, e resta stabile la letalità. 

Il trend delle prime due settimane del mese si è invertito nell'ultima, per effetto della diffusione delle diverse varianti che ha portato ad un incremento dell'incidenza e al conseguente cambiamento cromatico, dal giallo all'arancione, prima in numerose province e poi in alcune regioni dall'inizio di marzo.







Report della Protezione Civile: a 30 giorni



Confronto tra prima e seconda ondata





A grandi linee è possibile un confronto tra la prima ondata (marzo-giugno) e la seconda (settembre-dicembre) con l'avvertenza circa la sottostima dei casi registrati nella prima fase della pandemia, che inficia il raffronto statistico tra i principali parametri.

  • incidenza: è aumentata in modo considerevole in autunno (da 60 mila a 460 mila in media al mese) per la possibilità di eseguire il tampone in sede extra ospedaliera, era preclusa in primavera ai MMG, con la conseguente sottostima dei casi gestiti a domicilio e/o non denunciati, emersi nella seconda fase
  • tamponi: nonostante siano più che triplicati (da 1.347.000 a 4.488.000 in media al mese) la percentuale dei positivi è più del doppio (dal 4,4 al 10,2%), aumento parallelo all'incremento di nuovi casi
  • ricoveri: in rapporto all'incidenza i ricoveri sono notevolmente ridotti in autunno rispetto alla primavera mentre di riflesso sono aumentati i dimessi guariti e i soggetti in isolamento domiciliare: in primavera il picco si è avuto all'inizio di aprile con circa 29.010 e nella seconda ondata alla fine di novembre con 34.577.
  • terapie intensive: nonostante l'aumento dei nuovi casi il picco si è avuto in aprile con 3848 degenti e, nella seconda ondata, con quasi 4053 ricoveri all'ultima decade di novembre
  • dimessi guariti: passano da quasi 200 mila della primavera a 1.255.458 in autunno
  • isolamento domiciliare: l'elevatissimo numero di soggetti rimasti in isolamento domiciliare- con un picco di 800 mila in autunno rispetto agli 83 mila della primavera- dimostra la minor gravità dell'infezione e la prevalente gestione sul territorio dei nuovi casi rispetto al ricorso alla degenza
  • decessi e letalità: in numero assoluto i decessi delle seconda fase eguagliano quelli della prima ma sempre per l'elevato numero di nuovi casi si abbatte in maniera drastica la letalità che passa dal 14,4 al 2,1%.

Nel complesso, nonostante le critiche rivolte alla gestione territoriale del Covid-19, la medicina extra-ospedaliera ha diagnosticato e gestito, seppur in modo disomogeneo e poco coordinato, un numero considerevole di casi, mentre il sistema ospedaliero ha retto un impatto che, in termini di ricoveri e di degenze in terapia intensiva, è stato di poco superiore rispetto alla primavera. Grazie alla prescrizione dei tamponi i medici del territorio (MMG, CA e medici USCA) hanno fatto emergere la stragrande maggioranza dei casi e hanno seguito in prima persona la parte sommersa dell'incidenza, che in primavera era rimasta sotto-diagnosticata di 5 a 10 volte rispetto a quelli intercettati a livello ospedaliero. Il numero dei casi diagnosticati in autunno si colloca a metà circa di questa stima, con un andamento temporale dell'incidenza "piatto" rispetto al picco di marzo-aprile.

domenica 21 marzo 2021

Stop precauzionale del vaccino Astra-Zeneca: ecco perchè non avrà effetti sulle adesioni alla campagna vaccinale

Mai come in queste settimane le vaccinazioni sono al centro dell'interesse e delle preoccupazioni della gente, in un'altalena emotiva di timore e speranza. Se i cittadini decidessero solo in modo freddo e distaccato, a mo' di statistici bayesiani, non si porrebbe la questione del rischio vaccinale, perchè il beneficio atteso è inequivocabilmente a favore della vaccinazione, seppure con diverse sfumature statistiche. Ma la sospensione del vaccino Astra Zeneca ha rimescolato le carte, provocato sconcerto e ansie nei soggetti candidati all'inoculazione. 

C'è un precedente storico che dimostra quanto sia influente l’aspetto emotivo sulle decisioni riguardanti la salute durante una campagna di vaccinazione di massa. Nel 2014 in piena campagna vaccinale le notizie sui presunti decessi attribuiti all'anti-influenzale Fluad seminarono il "panico" tanto che in poche settimane si verificò un calo del 30% circa di adesioni. In quel caso, come oggi con il vaccino Astra Zeneca, era in ballo la salute di persone sane, con tutti i risvolti psicologici di tale decisione in termini di responsabilità individuale. Sia il rischio-vaccino che il rischio-complicanza hanno a che fare con concetti probabilistici, astratti e un po' astrusi, e con la dimensione temporale, che nel caso del COVID-19 però è dirimente.

Tra gli addetti ai lavori ci si interroga sulle motivazioni che spingono al rifiuto del vaccino e sulle dinamiche psicologiche alla base di tale decisione, nonostante i pesanti rischi in caso di contagio da SARS-COV2. All'origine di questa scelta vi è, a mio parere, un'asimmetria del giudizio probabilistico e della valutazione temporale dei possibili effetti avversi della vaccinazione, evento “artificiale”, rispetto al fatto "naturale" della malattia. Aderendo alla proposta di vaccinazione il soggetto si espone deliberatamente e consapevolmente  qui ed ora ad un rischio immediato, sebbene molto piccolo; al contrario rifiutando la vaccinazione proietta la speculare probabilità di contrarre la malattia in un futuro indefinito, com’è appunto il rischio di un ipotetico contagio. Accade il contrario invece quando si assume un antibiotico per un'infezione batterica in atto o meglio ancora come profilassi prima o dopo  un intervento chirurgico: il vantaggio immediato per l'azione anti-batterica del farmaco è incomparabile rispetto al rischio di incorrere in un effetto collaterale. 

Non tutte la campagne di vaccinazione però si equivalgono in quanto non sempre è in gioco lo stesso equilibrio tra valutazione probabilistica e temporale del rischio malattia rispetto ai paventati effetti collaterali del vaccino. Per aderire con convinzione alla proposta di vaccinazione occorre superare quella sorta di asimmetria "causale" che distingue la vaccinazione dall'evento malattia. In passato nel caso del vaccino anti influenzale o anti-morbillo hanno pesato le emozioni negative correlate al disallineamento temporale tra i due potenziali eventi dannosi: sui piatti della bilancia decisionale pesavano, da un lato, un evento attuale e certo (la vaccinazione) che comporta un rischio di effetti avversi immediati - potenzialmente gravi, seppur rari - mentre sull’altro piatto gravava un evento ipotetico (l’eventuale contagio) che a sua volta esponeva a conseguenze negative ma aleatorie, come le complicanze dell'influenza o del morbillo. Il confronto tra i due rischi era potenzialmente sfavorevole, in soggetti particolarmente sensibili al rischio, alla decisione di aderire alla vaccinazione per prevenire una futura malattia, che si collocava in un orizzonte temporale indefinito, più o meno lontano e quindi anche improbabile.

La simultaneità cronologica tra epidemia e vaccinazione

Tuttavia nel caso specifico del coronavirus la situazione è diversa, rispetto alle precedenti campagne vaccinali anti-influenzali e anti-morbillose. La probabilità contrarre il COVID-19 è più elevata rispetto agli effetti collaterali/avversi da vaccino perchè non si tratta di prevenire infezioni future ma di scongiurare un rischio attuale e concreto di pesanti sofferenze fisiche, di ricovero, fino alla morte, presente ormai quotidianamente da un anno nella vita di tutti. Insomma a fare la differenza è la compresenza nel tempo e nello spazio della pandemia assieme alla campagna di vaccinazione, tanto attesa quanto potenzialmente risolutiva di una crisi sanitaria pandemica di portata storica, per le sue pesanti conseguenze a livello sanitario, sociale ed economico. 

Vi è inoltre un precedente significativo e vicino, nel tempo e nello spazio, di queste dinamiche cognitivo-comportamentali. A cavallo tra il 2019 e il 2020, proprio nelle stesse zone dove pochi mesi dopo sarebbe divampata la terza ondata, era stato registrato un numero anomalo di casi di meningite che avevano indotto le autorità sanitarie ad organizzare una campagna straordinaria di vaccinazioni volontarie di massa. La gente aveva risposto immediatamente, affollando in gran numero le sedi di inoculazione del vaccini anti-meningococco C, proprio per la simultaneità del rischio malattia e della tutela del vaccino. In sostanza anche con il COVID-19 la discrasia temporale e probabilistica, che caratterizzava precedenti campagne vaccinali, viene annullata dalla sinergia tra presenza minacciosa del virus e possibilità di protezione offerta dal vaccino, come nel caso della terapia antibiotica in profilassi o per la cura di un'infezione acuta in atto. Di fatto si è invertita la sequenza cronologica tra immunizzazione ed epidemia, per cui oggi i vaccini non hanno una finalità preventiva ma l'obiettivo di "curare" la pandemia, di contrastare la diffusione del contagio di massa.

Ecco perchè lo stop temporaneo del vaccino Astra Zeneca avrà un impatto negativo marginale sulla campagna di vaccinazione di massa, come sembrano confermare i primi dati sulle disdette degli appuntamenti dopo la ripresa delle vaccinazioni. Mai in passato il beneficio di una vaccino è stato così consistente ed attale tanto da contrastare entrambi i rischi, quello dell'epidemia in atto e contemporaneamente quello dei possibili effetti collaterali del vaccino stesso. Solo un fattore negativo può controbilanciare la propensione alla vaccinazione: la presenza di altri vaccini con un profilo di rischio più favorevole potrebbe spingere alcuni ad attendere per essere inoculati in un secondo momento con un preparato più "sicuro".

Infine un altro elemento può favorire il superamento “razionale” della discrasia tra l’esposizione al rischio di effetti avversi, qui ed ora, e il beneficio preventivo del vaccino: la consapevolezza dell'importanza delle conseguenze sovraindividuali ed "ecologiche" della campagna vaccinale, ovvero le cosiddette esternalità positive, così definite dall'economia sanitaria. Grazie alla vaccinazione anche SARS-COV 2, come altri virus in passato, potrebbe essere eradicato, mentre una bassa copertura vaccinale nella popolazione ne vanificherebbe l'efficacia preventiva. In questo senso la vaccinazione di massa è equiparabile ad un bene comune, come è stato più volte sottolineato, mentre nella decisione di non vaccinare prevalgono le motivazioni strettamente individuali ed "egoistiche". 

giovedì 18 marzo 2021

Evoluzione settimanale della pandemia al 17 marzo

Evoluzione settimanale della pandemia

Nell'ultima settimana continua il trend in aumento dell'ultimo mese, segno di una diffusione generalizzata delle varianti:

  • i nuovi casi settimanali passano da +146942 a +158442
  • i ricoverati aumentano di 3635, e i degenti in TS sono +490
  • i decessi tornano a crescere con 2621 rispetto ai 2176 della scorsa settimana
  • i soggetti in isolamento domiciliare aumentano di quasi 48mila
  • in Lombardia l'incremento dei casi è in linea con quello nazionale
  • i tamponi superano i 2,3 milioni con una positività che sfiora il 7% 



        Andamento mensile e confronto tra prima e seconda ondata

I dati di febbraio indicano una riduzione di alcuni indici rispetto a gennaio, in particolare per quanto riguarda nuovi casi e i ricoverati; aumentano lievemente i degenti in TI e restano sempre elevati i decessi; riduce la percentuale di positivi sui tamponi eseguiti, per l'aggiunta dei tamponi rapidi ai molecolari, e resta stabile la letalità. 

Il trend delle prime due settimane del mese si è invertito nell'ultima, per effetto della diffusione delle diverse varianti che ha portato ad un incremento dell'incidenza e al conseguente cambiamento cromatico, dal giallo all'arancione, prima in numerose province e poi in alcune regioni dall'inizio di marzo.







Report della Protezione Civile: a 30 giorni



Confronto tra prima e seconda ondata





A grandi linee è possibile un confronto tra la prima ondata (marzo-giugno) e la seconda (settembre-dicembre) con l'avvertenza circa la sottostima dei casi registrati nella prima fase della pandemia, che inficia il raffronto statistico tra i principali parametri.

  • incidenza: è aumentata in modo considerevole in autunno (da 60 mila a 460 mila in media al mese) per la possibilità di eseguire il tampone in sede extra ospedaliera, era preclusa in primavera ai MMG, con la conseguente sottostima dei casi gestiti a domicilio e/o non denunciati, emersi nella seconda fase
  • tamponi: nonostante siano più che triplicati (da 1.347.000 a 4.488.000 in media al mese) la percentuale dei positivi è più del doppio (dal 4,4 al 10,2%), aumento parallelo all'incremento di nuovi casi
  • ricoveri: in rapporto all'incidenza i ricoveri sono notevolmente ridotti in autunno rispetto alla primavera mentre di riflesso sono aumentati i dimessi guariti e i soggetti in isolamento domiciliare: in primavera il picco si è avuto all'inizio di aprile con circa 29.010 e nella seconda ondata alla fine di novembre con 34.577.
  • terapie intensive: nonostante l'aumento dei nuovi casi il picco si è avuto in aprile con 3848 degenti e, nella seconda ondata, con quasi 4053 ricoveri all'ultima decade di novembre
  • dimessi guariti: passano da quasi 200 mila della primavera a 1.255.458 in autunno
  • isolamento domiciliare: l'elevatissimo numero di soggetti rimasti in isolamento domiciliare- con un picco di 800 mila in autunno rispetto agli 83 mila della primavera- dimostra la minor gravità dell'infezione e la prevalente gestione sul territorio dei nuovi casi rispetto al ricorso alla degenza
  • decessi e letalità: in numero assoluto i decessi delle seconda fase eguagliano quelli della prima ma sempre per l'elevato numero di nuovi casi si abbatte in maniera drastica la letalità che passa dal 14,4 al 2,1%.

Nel complesso, nonostante le critiche rivolte alla gestione territoriale del Covid-19, la medicina extra-ospedaliera ha diagnosticato e gestito, seppur in modo disomogeneo e poco coordinato, un numero considerevole di casi, mentre il sistema ospedaliero ha retto un impatto che, in termini di ricoveri e di degenze in terapia intensiva, è stato di poco superiore rispetto alla primavera. Grazie alla prescrizione dei tamponi i medici del territorio (MMG, CA e medici USCA) hanno fatto emergere la stragrande maggioranza dei casi e hanno seguito in prima persona la parte sommersa dell'incidenza, che in primavera era rimasta sotto-diagnosticata di 5 a 10 volte rispetto a quelli intercettati a livello ospedaliero. Il numero dei casi diagnosticati in autunno si colloca a metà circa di questa stima, con un andamento temporale dell'incidenza "piatto" rispetto al picco di marzo-aprile.

domenica 14 marzo 2021

Quale riforma delle cure primarie? (II parte)

Il secondo ingrediente della ricetta per una vera riforma delle cure primarie, avanzata da Polillo e Coll. sul QS, è il passaggio alla dipendenza di MMG e Pediatri, che verrebbero inquadrati nel ruolo di Dirigente medico (al link la I parte: http://curprim.blogspot.com/2021/03/quale-riforma-delle-cure-primarie.html )

Con il passaggio alla dipendenza cambierebbe il contesto economico e relazionale su diversi piani

  • si ridurrebbero i margini di libertà e discrezionalità professionale, nel senso della prevalenza dei vincoli del rapporto subordinato e delle compatibilità organizzative “aziendali” (rispetto di protocolli, ordini di servizio, subordinazione gerarchica verso i "capi" etc.);
  • si limiterebbe la facoltà di scelta dei pazienti, nel momento in cui ad un medico verrebbe attribuito un numero di 1000 pazienti, ma soprattutto “un compenso fisso per svolgere la funzione di medico di fiducia nei confronti di chi lo ha scelto”, come si legge nella proposta di Polillo & C;
  • verrebbero quindi meno le conseguenze economiche per il medico della scelta/revoca, che negli ultimi anni sono alla base degli effetti perversi della ricusazione, utilizzata strumentalmente da alcuni pazienti “esigenti” per ottenere vantaggi personali, violando regole e vincoli normativi, dalle note AIFA e quelle dei LEA etc.

In buona sostanza il medico potrebbe tranquillamente dire molti più NO alle richieste indecenti o semplicemente irricevibili di alcuni pazienti, attualmente “incontrollabili” per via di una facoltà di scelta/revoca facile, discrezionale e capricciosa. In altri termini al paziente esigente e pretenzioso verrebbe sottratto l’uso strategico ed opportunistico dell’incertezza correlata alla “minaccia” della revoca, da giocare nel caso in cui il medico non fosse disponibile ed assecondarne i desiderata del "cliente". Con la dipendenza si sposterebbero alcuni degli attuali equilibri normativi a favore di una maggiore tutela per il medico come la retribuzione fissa, garanzie normative circa i costi di produzione, ferie e malattie, una maggiore copertura per la responsabilità professionale etc.. Peraltro l'obiettivo di introdurre una parte dei compensi in relazione al raggiungimento di obiettivi di salute e indicatori di performances clinica, a prescindere dal numero di pazienti, può essere raggiunto anche con lo status giuridico convenzionato, a patto di superare le pervicaci resistenze dei sindacati ad accettare retribuzioni sulla base dei risultati.

La relazione medico-paziente diverrebbe più rigida e formale rispetto all’attuale, di carattere “negoziale”, informale ma potenzialmente instabile sul versante del paziente. A prezzo però di ridurre la libertà di scelta dei cittadini e con il rischio di irrigidire e spersonalizzare la relazione, come accade nelle grandi ed anonime organizzazioni sanitarie in cui prevale la funzione sulla personalizzazione del rapporto. Insomma la “scelta del medico di fiducia” e il “rapporto fiduciario che può cessare in ogni momento, a richiesta dell’assistito e del medico” verrebbero ridimensionati dal passaggio alla dipendenza, soprattutto per il paziente.

Se c'è un aspetto che la gente detesta è la discontinuità del rapporto, il continuo ricambio di interlocutori e il carattere impersonale/anonimo della relazione di cura, che viene attivamente ricercato rivolgendosi alla libera-professione specialistica, per chi naturalmente se la può permettere. Questa esigenza vale soprattutto nella dimensione della cronicità e meno nelle situazioni acute, quando ci si deve rivolgere giocoforza a chi è di turno in quel momento. Il rischio delle case della salute multiprofessionali è quello che prevalga la funzione impersonale dell'organizzazione sulla continuità e sulla personalizzazione della relazione di cura, tanto esaltata con enfasi retorica ma che è l'eccezione nelle grandi strutture, se non altro per via dei turni della copertura H24.  

In sostanza si ridurrebbero i margini di discrezionalità e di autonomia del medico – che attualmente si trincererebbe spesso nello status di libero-professionista, come si legge nel documento, per svolgere attività assistenziale separata e di scarsa efficacia - a favore di una sua maggiore integrazione nella struttura aziendale ed indipendenza dal paziente. Peraltro un giudizio di inefficacia e inappropriatezza così pesante verso un’intera categoria, al limite della squalifica professionale generalizzata, dovrebbe essere supportato da prove empiriche e sottoposto al vaglio dei diretti interessati; negli ultimi decenni diverse indagini demoscopiche hanno fatto emergere tra gli utenti del SSN orientamenti di opposta valutazione, ovvero un gradimento e un apprezzamento per la MG superiore a quello riservato ad altri comparti del SSN.  Per evitare il rischio di generalizzazione autoreferenziale - a prescindere dai contesti, dalla storia, dalle situazioni locali e dalle opinioni altrui - insito in giudizi esternati da chi ha poca esperienza pratica del territorio, non resta che sondare opinioni e percezioni degli utenti direttamente coinvolti nel servizio. E solo dopo mettere mano ad una progetto di riforma radicale! La credenza che lo status libero-professionale  equivalga ad "un'attività assistenziale separata e di scarsa efficacia" è un tipica teoria causale del problema che richiederebbe prove schiaccianti che tuttavia gli autori non si preoccupano di esibire.

Infine due brevi considerazioni di carattere generale.

Il modello organizzativo proposto (un centro territoriale ogni 15 mila abitanti, con 15 ex MMG e 10 ex medici di CA + specialisti a personale sociosanitario) può essere adatto per centri medico-grandi ma non certo per i comuni con meno di 10 abitanti, deve vive quasi 1/3 della popolazione, specie in zone disagiate e lontane da strutture ospedaliere.  In queste località l’attuale rete di medici single o di medicine di gruppo con 3-5 componenti resterebbe la formula che garantisce la maggiore accessibilità e capillarità della copertura dei bisogni della popolazione rurale o delle zone di collina/montagna, lontane dalle città.

I costi della riconversione logistica e giuridica della medicina del territorio (strutture distrettuali diffuse nei comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti e passaggio alla dipendenza degli attuali 60 mila professionisti convenzionati) sembrano proibitivi e difficilmente sostenibili per le finanze pubbliche, se non attingendo copiosamente nei prossimi anni ai fondi del ricovery plan, che è l’occasione che ha indotto diversi portatori di interessi ad avanzare il progetto qui analizzato; la proposta di riconversione alla dipendenza dei convenzionati grazie ai finanziamenti europei dovrebbe favorire il passaggio della riforma delle cure primarie dall’agenda pubblica a quella istituzionale. Saranno i tecnici incaricati di valutare dal punto di vista finanziario un proposito così impegnativo a decidere della sua compatibilità rispetto ai vincoli delle risorse riservate all’Italia dalla UE.

sabato 13 marzo 2021

Quale riforma delle cure primarie? (I parte)

Il Quotidiano Sanità pubblica una proposta di riforma, per un vero cambiamento delle cure primarie, formulata da autori di diversa estrazione, a firma Polillo, Cosentino, Preiti e Proia: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93033.

Prima di discutere sulle argomentazioni avanzate da Polillo e Colleghi, conviene inquadrare il dibattito nella cornice metodologica delle decisioni di policy, che iniziano abitualmente proponendo l’inserimento del problema nella cosiddetta agenda pubblica – ovvero nella discussione tra addetti ai lavori e portatori di interessi – per favorirne successivamente l’inserimento in quella ufficiale; una volta entrato nell’agenda istituzionale il problema verrà ulteriormente sviscerato ed analizzato nelle sedi adatte, fino ad esitare nella vera e propria deliberazione di policy, finalizzata a risolvere il problema di interesse collettivo attraverso gli opportuni atti istituzionali ai diversi livelli della macchina amministrativa (Leggi Nazionali, Delibere Regionali, accordi collettivi nazionali e locali etc..).

Per imporre all’attenzione collettiva una questione di politica pubblica, urgente o percepita come tale da un’ampia platea di attori in essa coinvolti, si devono superare altre due tappe del percorso di policy, tra loro correlate: la precisa definizione del problema oggetto di un successivo intervento riformatore favorente il cambiamento atteso, generalmente correlato ad una teoria causale circa il problema stesso.

L’occasione per portare all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni il “problema” medicina del territorio è stata la pandemia da SARSV-COV-2 che secondo gli autori avrebbe slatentizzato diverse criticità insite nel sistema sanitario extra-ospedaliero rendendo urgente l’elaborazione di una soluzione, come quella proposta nel documento pubblicato dal Quotidiano Sanità. Anche su questo presupposto, dato per scontato dagli autori, si potrebbero argomentare in modo dissonante, a partire dal numero esorbitante di casi di Covid-19 gestiti bene o male sul territorio nella seconda e nella terza ondata dalle USCA, dai MMG e dai PLS, grazie alla possibilità di eseguire i tamponi, un migliore coordinamento e a dotazioni di DPI adeguate.

La teoria/soluzione del problema proposta nel documento poggia su due cambiamenti: il rilancio delle strutture distrettuale correlato al passaggio alla dipendenza degli attuali professionisti convenzionati che verrebbero integrati, in quanto dipendenti, nell’organizzazione superando l’attuale marginalità ed estraneità “soggettiva” dei professionisti delle cure primarie, come è accaduto di recente, ad esempio, con il fallimento della riforma Balduzzi.

Riguardo al primo punto il caso ha voluto che pochi giorni dopo la pubblicazione del documento sia stato divulgato il rapporto del Senato sulla diffusione della Case della Salute e degli Ospedali di comunità ( https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93087che tratteggia un quadro variegato ma tendente al pessimismo: a distanza di 15 anni dai numerosi atti istituzionali che intendevano favorire la diffusione delle strutture territoriali pochi SSR hanno ottemperato alle indicazioni programmatiche condivise tra Stato e Regioni. 

Nella tabella del rapporto spicca ad esempio il caso macroscopico delle 7 regioni con zero case della Salute attive, vale a dire Lombardia, Valle d’Aosta, Bolzano, Trentino, Friuli, Puglia e Campania. Al polo opposto troviamo invece Piemonte, Veneto, Toscana, Sicilia ed Emilia Romagna con oltre 50 strutture attive. Quest’ultima regione è saldamente in testa alla classifica con 124 Case della salute in attività rispetto ad un totale nazionale di 493. Come sarebbe cambiato lo scenario delle cure territoriali se tutte le regioni avessero seguito l’esempio virtuoso dell’Emilia Romagna, che non ha a caso ha risposto in modo più appropriato, ad esempio per numero di USCA attivate, all’emergenza pandemica?

Questi dati accreditano l’ipotesi che la causa delle criticità territoriali risieda nello scarso peso e “fiducia” dei decisori regionali verso le cure primarie, che raggiunge l’acme in alcune zone dove lo loro presunta inaffidabilità si è tradotta in disinteresse e incuria. Valga per tutte l’esempio eclatante della Lombardia dove non solo la Legge Balduzzi è stata ignorata ma la politica regionale è andata nella direzione opposta, con esiti a dir poco deludenti nel tentativo di trasferire la cronicità dal territorio all’ospedale, perseguito dalla riforma della Presa in Carico (PiC). Dalla seconda ondata in poi si susseguono le dichiarazioni programmatiche e i progetti per potenziare l'assistenza primaria, ma tre anni fa in Lombardia veniva implementata una riforma che all'opposto ne proponeva la marginalizzazione nella cura dei pazienti cronici, se non la liquidazione di fatto.

In questo panorama disomogeneo, frammentario e caratterizzato da policy regionali antitetiche, davvero il passaggio alla dipendenza degli attuali medici convenzionati sarebbe in grado di invertire la rotta e risolvere alla radice le presunte cause del “problema” medicina territoriale? C’è da dubitarne, specie se si confronta la virtuosa Emilia Romagna con l’inadempiente Lombardia, redarguita dal ministro Speranza proprio per le carenze della legge 23 del 2015 sul versante della medicina extra-ospedaliera.

In Emilia Romagna il rapporto convenzionale non pare abbia ostacolato lo sviluppo e la diffusione della Case della salute, dove medici di MG e pediatri sembra che si siano adattati senza troppi problemi pur senza essere dipendenti (si veda il PS). Se in questi anni fosse cambiato il ruolo giuridico dei medici del territorio la situazione nelle regioni meno virtuose o inadempienti sarebbe cambiata in meglio? Quesiti contro-fattuali a cui non si può trovare una risposta, che però mettono in dubbio la rilevanza del profilo giuridico del professionista rispetto alle scelte di politica sanitaria imperniate sulle strutture fisiche di erogazione e integrazione dei servizi territoriali, in cui possono convivere operatori sanitari di diversa estrazione. 

Per di più le forme associative previste dalla riforma Balduzzi a partire dalle AFT, laddove sono state attivate, hanno interagito e sono entrare in sinergia funzionale con le case della salute o gli ospedali di comunità. Insomma, se sul potenziamento della case della salute si può convenire la soluzione della dipendenza appare un po’ astratta e formale rispetto alla concretezza delle pratiche organizzative e della gestione fattuale del network di strutture distrettuali. (I continua: http://curprim.blogspot.com/2021/03/quale-riforma-delle-cure-primarie-ii.html ).

P.S. Scrive Bonaccini, presidente ER, sul Quotidiano Sanità

Dove investire queste risorse? In Emilia-Romagna abbiamo scelto la strada del potenziamento della medicina di territorio. Questo non significa lasciare in secondo piano le grandi strutture.
Però, dal confronto continuo con i professionisti della sanità, con chi ogni giorno opera sul campo, mi sono convinto che sia necessario introdurre un livello intermedio di assistenza tra l’ospedale e il domicilio. Per tante ragioni.
La prima ce l’ha ricordata la pandemia: senza medicina di territorio, senza un controllo capillare, una vicinanza con le persone, nessuna assistenza sanitaria è in grado di fornire risposte tempestive ed efficaci. La lotta al virus in Emilia-Romagna ha cambiato marcia quando abbiamo attrezzato squadre speciali, le cosiddette Usca, che andavano a ‘stanare’ i potenziali positivi casa per casa.
E successivamente erano in grado di monitorare contagiati o persone in quarantena lasciandole al loro domicilio. Oggi, circa il 95% dei contagiati è curato da casa. Per questo, continueremo a realizzare Case della Salute: ne abbiamo già costruite 120 e ne faremo altre. Ce le chiedono tutti i sindaci, di ogni colore politico.
Ne comprendono l’importanza: sono punti di riferimento, anche sociali, per piccole comunità, evitano il sovraffollamento degli ospedali e dei pronto soccorso, permettono cure più specifiche e garantiscono uno standard e una qualità della vita migliore alle persone che devono portarle avanti.

giovedì 11 marzo 2021

Evoluzione settimanale della pandemia al 10 marzo

Evoluzione settimanale della pandemia

Nell'ultima settimana tutti i principali indicatori sono in aumento, segno di una diffusione generalizzata delle varianti:

  • i nuovi casi settimanali passano da +127861 a +146942
  • i ricoverati raddoppiano in una settima, passando da +1546 a +3119, e i degenti in TS sono 2827 (+413)
  • i decessi tornano a superare i 2 mila rispetto ai 1969 della scorsa settimana
  • i soggetti in isolamento domiciliare aumentano di oltre 46mila
  • in Lombardia l'incremento dei casi è sempre consistente
  • i tamponi superano i 2,2 milioni con il 6% di positivi








        Andamento mensile e confronto tra prima e seconda ondata

I dati di febbraio indicano una riduzione di alcuni indici rispetto a gennaio, in particolare per quanto riguarda nuovi casi e i ricoverati; aumentano lievemente i degenti in TI e restano sempre elevati i decessi; riduce la percentuale di positivi sui tamponi eseguiti, per l'aggiunta dei tamponi rapidi ai molecolari, e resta stabile la letalità. 

Il trend delle prime due settimane del mese si è invertito nell'ultima, per effetto della diffusione delle diverse varianti che ha portato ad un incremento dell'incidenza e al conseguente cambiamento cromatico, dal giallo all'arancione, prima in numerose province e poi in alcune regioni dall'inizio di marzo.









Report della Protezione Civile: a 30 giorni



Confronto tra prima e seconda ondata





A grandi linee è possibile un confronto tra la prima ondata (marzo-giugno) e la seconda (settembre-dicembre) con l'avvertenza circa la sottostima dei casi registrati nella prima fase della pandemia, che inficia il raffronto statistico tra i principali parametri.

  • incidenza: è aumentata in modo considerevole in autunno (da 60 mila a 460 mila in media al mese) per la possibilità di eseguire il tampone in sede extra ospedaliera, era preclusa in primavera ai MMG, con la conseguente sottostima dei casi gestiti a domicilio e/o non denunciati, emersi nella seconda fase
  • tamponi: nonostante siano più che triplicati (da 1.347.000 a 4.488.000 in media al mese) la percentuale dei positivi è più del doppio (dal 4,4 al 10,2%), aumento parallelo all'incremento di nuovi casi
  • ricoveri: in rapporto all'incidenza i ricoveri sono notevolmente ridotti in autunno rispetto alla primavera mentre di riflesso sono aumentati i dimessi guariti e i soggetti in isolamento domiciliare: in primavera il picco si è avuto all'inizio di aprile con circa 29.010 e nella seconda ondata alla fine di novembre con 34.577.
  • terapie intensive: nonostante l'aumento dei nuovi casi il picco si è avuto in aprile con 3848 degenti e, nella seconda ondata, con quasi 4053 ricoveri all'ultima decade di novembre
  • dimessi guariti: passano da quasi 200 mila della primavera a 1.255.458 in autunno
  • isolamento domiciliare: l'elevatissimo numero di soggetti rimasti in isolamento domiciliare- con un picco di 800 mila in autunno rispetto agli 83 mila della primavera- dimostra la minor gravità dell'infezione e la prevalente gestione sul territorio dei nuovi casi rispetto al ricorso alla degenza
  • decessi e letalità: in numero assoluto i decessi delle seconda fase eguagliano quelli della prima ma sempre per l'elevato numero di nuovi casi si abbatte in maniera drastica la letalità che passa dal 14,4 al 2,1%.

Nel complesso, nonostante le critiche rivolte alla gestione territoriale del Covid-19, la medicina extra-ospedaliera ha diagnosticato e gestito, seppur in modo disomogeneo e poco coordinato, un numero considerevole di casi, mentre il sistema ospedaliero ha retto un impatto che, in termini di ricoveri e di degenze in terapia intensiva, è stato di poco superiore rispetto alla primavera. Grazie alla prescrizione dei tamponi i medici del territorio (MMG, CA e medici USCA) hanno fatto emergere la stragrande maggioranza dei casi e hanno seguito in prima persona la parte sommersa dell'incidenza, che in primavera era rimasta sotto-diagnosticata di 5 a 10 volte rispetto a quelli intercettati a livello ospedaliero. Il numero dei casi diagnosticati in autunno si colloca a metà circa di questa stima, con un andamento temporale dell'incidenza "piatto" rispetto al picco di marzo-aprile.