Il Quotidiano Sanità pubblica una proposta di riforma, per un vero cambiamento delle cure primarie, formulata da autori di diversa estrazione, a firma Polillo, Cosentino, Preiti e Proia: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93033.
Prima di discutere sulle argomentazioni avanzate da Polillo
e Colleghi, conviene inquadrare il dibattito nella cornice metodologica delle decisioni
di policy, che iniziano abitualmente proponendo l’inserimento del problema nella
cosiddetta agenda pubblica – ovvero nella discussione tra addetti ai lavori e
portatori di interessi – per favorirne successivamente l’inserimento in quella ufficiale;
una volta entrato nell’agenda istituzionale il problema verrà ulteriormente sviscerato
ed analizzato nelle sedi adatte, fino ad esitare nella vera e propria
deliberazione di policy, finalizzata a risolvere il problema di interesse
collettivo attraverso gli opportuni atti istituzionali ai diversi livelli della
macchina amministrativa (Leggi Nazionali, Delibere Regionali, accordi collettivi
nazionali e locali etc..).
Per imporre all’attenzione collettiva una questione di
politica pubblica, urgente o percepita come tale da un’ampia platea di attori in
essa coinvolti, si devono superare altre due tappe del percorso di policy, tra
loro correlate: la precisa definizione del problema oggetto di un successivo
intervento riformatore favorente il cambiamento atteso, generalmente correlato ad una teoria causale circa il problema stesso.
L’occasione per portare all’attenzione dell’opinione
pubblica e delle istituzioni il “problema” medicina del territorio è stata la
pandemia da SARSV-COV-2 che secondo gli autori avrebbe slatentizzato diverse
criticità insite nel sistema sanitario extra-ospedaliero rendendo urgente l’elaborazione
di una soluzione, come quella proposta nel documento pubblicato dal Quotidiano
Sanità. Anche su questo presupposto, dato per scontato dagli autori, si
potrebbero argomentare in modo dissonante, a partire dal numero esorbitante di
casi di Covid-19 gestiti bene o male sul territorio nella seconda e nella terza
ondata dalle USCA, dai MMG e dai PLS, grazie alla possibilità di eseguire i
tamponi, un migliore coordinamento e a dotazioni di DPI adeguate.
La teoria/soluzione del problema proposta nel
documento poggia su due cambiamenti: il rilancio delle strutture distrettuale correlato
al passaggio alla dipendenza degli attuali professionisti convenzionati che verrebbero
integrati, in quanto dipendenti, nell’organizzazione superando l’attuale marginalità
ed estraneità “soggettiva” dei professionisti delle cure primarie, come è
accaduto di recente, ad esempio, con il fallimento della riforma Balduzzi.
Riguardo al primo punto il caso ha voluto che pochi giorni dopo la pubblicazione del documento sia stato divulgato il rapporto del Senato sulla diffusione della Case della Salute e degli Ospedali di comunità ( https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93087 ) che tratteggia un quadro variegato ma tendente al pessimismo: a distanza di 15 anni dai numerosi atti istituzionali che intendevano favorire la diffusione delle strutture territoriali pochi SSR hanno ottemperato alle indicazioni programmatiche condivise tra Stato e Regioni.
Nella tabella del rapporto spicca ad esempio il caso macroscopico delle 7 regioni con zero case della Salute attive, vale a dire Lombardia, Valle d’Aosta, Bolzano, Trentino, Friuli, Puglia e Campania. Al polo opposto troviamo invece Piemonte, Veneto, Toscana, Sicilia ed Emilia Romagna con oltre 50 strutture attive. Quest’ultima regione è saldamente in testa alla classifica con 124 Case della salute in attività rispetto ad un totale nazionale di 493. Come sarebbe cambiato lo scenario delle cure territoriali se tutte le regioni avessero seguito l’esempio virtuoso dell’Emilia Romagna, che non ha a caso ha risposto in modo più appropriato, ad esempio per numero di USCA attivate, all’emergenza pandemica?Questi dati accreditano l’ipotesi che la causa delle
criticità territoriali risieda nello scarso peso e “fiducia” dei decisori
regionali verso le cure primarie, che raggiunge l’acme in alcune zone dove lo loro presunta inaffidabilità si è tradotta in disinteresse e incuria. Valga per tutte l’esempio eclatante della Lombardia dove non solo la Legge
Balduzzi è stata ignorata ma la politica regionale è andata nella direzione opposta,
con esiti a dir poco deludenti nel tentativo di trasferire la cronicità dal
territorio all’ospedale, perseguito dalla riforma della Presa in Carico (PiC). Dalla seconda ondata in poi si susseguono le dichiarazioni programmatiche e i progetti per potenziare l'assistenza primaria, ma tre anni fa in Lombardia veniva implementata una riforma che all'opposto ne proponeva la marginalizzazione nella cura dei pazienti cronici, se non la liquidazione di fatto.
In questo panorama disomogeneo, frammentario e
caratterizzato da policy regionali antitetiche, davvero il passaggio alla
dipendenza degli attuali medici convenzionati sarebbe in grado di invertire la rotta e risolvere
alla radice le presunte cause del “problema” medicina territoriale? C’è da dubitarne, specie se si confronta la virtuosa Emilia Romagna con l’inadempiente
Lombardia, redarguita dal ministro Speranza proprio per le carenze della legge
23 del 2015 sul versante della medicina extra-ospedaliera.
In Emilia Romagna il rapporto convenzionale non pare abbia ostacolato lo sviluppo e la diffusione della Case della salute, dove medici di MG e pediatri sembra che si siano adattati senza troppi problemi pur senza essere dipendenti (si veda il PS). Se in questi anni fosse cambiato il ruolo giuridico dei medici del territorio la situazione nelle regioni meno virtuose o inadempienti sarebbe cambiata in meglio? Quesiti contro-fattuali a cui non si può trovare una risposta, che però mettono in dubbio la rilevanza del profilo giuridico del professionista rispetto alle scelte di politica sanitaria imperniate sulle strutture fisiche di erogazione e integrazione dei servizi territoriali, in cui possono convivere operatori sanitari di diversa estrazione.
Per di più le forme associative
previste dalla riforma Balduzzi a partire dalle AFT, laddove sono state
attivate, hanno interagito e sono entrare in sinergia funzionale con le case
della salute o gli ospedali di comunità. Insomma, se sul potenziamento della case della salute si può convenire la soluzione della dipendenza appare
un po’ astratta e formale rispetto alla concretezza delle pratiche organizzative e della gestione fattuale del network di strutture distrettuali. (I continua: http://curprim.blogspot.com/2021/03/quale-riforma-delle-cure-primarie-ii.html ).
P.S. Scrive Bonaccini, presidente ER, sul Quotidiano Sanità
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