martedì 31 gennaio 2023

Buon compleanno PiC! Bilancio e prospettive di una riforma mancata

PRESA IN CARICO DELLA CRONICITA’ IN LOMBARDIA VALUTAZIONE E PROPOSTE DI REVISIONE

Esiti di una riforma mancata e prospettive di cambiamento

Edizione KDP, gennaio 2023, pag. 150, versione cartacea ed e-book su Amazon

Prefazione del Prof. Vittorio Mapelli Clicca qui per la prefazione e l'introduzione

Il 30 gennaio del 2017 veniva pubblicata in Lombardia la prima DGR di riforma della Presa in Carico (PiC) della cronicità e fragilità, a cui se ne sarebbero aggiunte altre 3 nel corso dello stesso anno prima dell'avvio ufficiale della PiC nella primavera del 2018.

E' tempo quindi di bilanci, al termine del triennio di sperimentazione della PiC in contemporanea con la "scadenza" della Legge 23 del 2015, che ne era la madre. Con la pandemia la riforma ha avuto una battuta d’arresto a cui è seguita la revisione della riforma del 2015, sostituita con la legge 22 del dicembre 2021, e nel biennio 2021-2022 dal varo del PNRR tradotto in termini operativi dal DM 77 sugli standard delle Case ed Ospedali di Comunità, delle COT etc.

La prima DGR del 2017 prevedeva la centralità dei Gestori organizzativi della PiC, delegata al Clinical Manager ospedaliero come referente dei cronici in sostituzione del generalista, e la complementare marginalizzazione clinico-assistenziale della MG, poi parzialmente corretta dalle successive DGR.

L’esperienza della PiC costituisce un punto di riferimento nel momento in cui il PNRR propone il rilancio della medicina del territorio, che la LR 22 ha recepito in toto con una chiara discontinuità rispetto al recente passato; il DM 77 ha creato le condizioni per il ritorno della PiC dal nosocomio al territorio, sede naturale delle cure e dell’integrazione tra professionisti (MMG/PLS e specialisti). 

 Il volume propone un bilancio della riforma che riguarda la sola valutazione dell’implementazione, non essendo disponibili dati finali sull’impatto clinico-assistenziale nel primo triennio per l’interruzione del percorso nel biennio 2020-2021. Il testo fotografa la fase di transizione dalla prima PiC alla seconda PiC, scaturita dai cambiamenti introdotti alla fine del 2021 nella legislazione regionale che, a sua volta, ha recepito le novità del PNRR.

      La parabola della prima PiC illustra in negativo e in modo esemplare i limiti delle politiche pubbliche confidenti nelle virtù della concorrenza sul quasi mercato e diffidenti verso la dimensione cooperativa ed integrativa tra servizi di I e II livello. L’esito della “tormentata” vicenda della riforma lombarda può essere di utile insegnamento nel momento in cui si mette mano al rilancio della medicina del territorio con l'introduzione degli standard per la futura rete sociosanitaria territoriale.  Il testo si compone di 9 capitoli: il primo propone un inquadramento culturale multidimensionale dei problemi posti dalla gestione della cronicità. 

I successivi entrano nello specifico dell’impostazione delle politiche regionali e nell’evoluzione delle riforme introdotte nell’ultimo decennio nel “laboratorio” lombardo. Il quinto capitolo espone lo sviluppo della PiC e gli esiti della sua implementazione nel triennio 2018-2020. Gli ultimi capitoli si focalizzano sulla valutazione in itinere, sulle dinamiche psicosociali e cognitive implicate negli esiti mentre il penultimo traccia un bilancio della riforma e propone alcuni spunti per la sua revisione anche in relazione alla Misura 6C1 del PNRR per la ristrutturazione della rete territoriale, resa operativa dal DM 77 del luglio 2022 sugli standard della rete sociosanitari. L’ultimo capitolo contiene la bozza di proposta di revisione della PiC, presentata alla commissione regionale per le cure primarie, parzialmente recepita dalla DGR 7758 sugli indirizzi di programmazione per il 2023.

martedì 24 gennaio 2023

Il professionalismo e la crisi dello stato sociale nella democrazia del narcisismo

La descrizione di Roberto Polillo sul QS del tramonto della dominanza medica, con i contraccolpi sui professionisti sanitari, mi spinge ad intervenire per aggiungere alcuni tasselli al mosaico abbozzato. La “guerriglia” ingaggiata a suo tempo da Medicina democratica contro il baronato clinico ed universitario ha analogie con la ventata libertaria americana degli stessi anni degli alternativi Jobs e Gates, poi sfociata nella rivoluzione informatica del decennio successivo. Il loro obiettivo era la democratizzazione della conoscenza, gratuita e accessibile a tutti, ma l’esito è stato un po’ diverso: fake news, hater e gruppi antiscientifici, camere dell'eco e radicalizzazione politica, marketing d’ogni tipo sul web profondo, sorveglianza sociale elettronica in stile grande fratello, campagne di disinformazione politica in grande stile, monopoli multinazionali che sfuggono al controllo statale e alle imposte, violazione della riservatezza e commercio dei dati etc...

Agli effetti collaterali della “rivoluzione” democratica in medicina, descritti da Polillo, vorrei aggiungere due risvolti del paradigma epidemiologico, promossi da altri portatori di interessi: la dimensione “tecnica” e il concetto di rischio nella cornice della definizione di salute.

La dominanza medica è stata disarticolata dal modello della razionalità tecnica, già analizzato da Schon all'inizio degli anni ottanta, impersonificata dal medico “tecnico della salute” nei luoghi di lavoro, caro a Medicina Democratica, tanto quanto destava sospetto il clinico della persona, accusato di approfittare in modo opportunistico dall’asimmetria di potere e della chiusura sociale elitaria, fonte di privilegi di status simbolici e materiali.

Ancor più rilevante è stata l’influenza culturale del rischio, tanto da pervadere l’intera società. Il rischio è scivolato dall’originaria impostazione preventiva epidemiologica nella dimensione clinica individuale, favorendo una interpretazione in senso deterministico e personale piuttosto che stocastico collettivo, come nella logica dell'EBM fatta propria dalle major farmaceutiche le uniche a poter condurre trial metodologicamente solidi. 
 
Come ha rilevato Daniele Cohen l’approccio epidemiologico è insensibile per definizione alle vicissitudini dei casi individuali” in quanto “la prevenzione farmacologica offre la certezza di un beneficio di popolazione al costo dell’incertezza per quanto riguarda vantaggi e rischi per il singolo individuo”; una volta edotti di ciò i pazienti potrebbero “sentirsi un po’ meno a proprio agio, perché realizzerebbero che stanno partecipando a una specie di lotteria perché quello che si sta trattando non è in realtà la loro malattia, ma il rischio di una popolazione di cui fanno parte”.
 
L’apparato industriale ha cavalcato l’avversione sociale ai rischi in nome di un perfettismo, vincente sul piano socioculturale ma alla lunga insostenibile, così definito dal bioeticista americano Callahan nel suo "False Hopes", eufemisticamente tradotto in italiano con il titolo di "La medicina impossibile" Le utopie e gli errori della medicina moderna

La disintermediazione del web ha favoriro la medicalizzazione della vita e la promessa del rischio zero promossa dal marketing sanitario ha alimentato le aspettative, che si sono convertite in incertezza esistenziale, patofobia collettiva ed emergente disturbo d’ansia da malattia. Il terzo pagante pressato della proliferazione dei rischi, divenuti bisogni inderogabili, ha dovuto ridurre la copertura di quelli non più sostenibili, per via della legge ferrea dei rendimenti marginali decrescenti, indossando i panni del priore che passa ai confratelli quel che può il convento. A pagare il fio dei vincoli di bilancio sono stati i professionisti, stretti tra lacciuoli burocratici prescrittivi e il disease/risk mongering, induttore della domanda tra “esigenti” ben informati, rivendicativi e ingovernabili, tanto diffidenti verso il “generico” quanto fiduciosi nell’autorevolezza del collega Google dalla prodigiosa IA.

Il mercato si è fatto prontamente avanti per compensare ciò che lesinava il priore, grazie all’eufemistico out of pocket per ottenere le prestazioni dai veri libero professionisti a colpi di centinaia di euri. L’esito finale è stato da un lato l’accanimento burocratico regolatorio verso i (mitici) libero-professionisti convenzionati e, dall’altro, la proletarizzazione dei dipendenti nelle grandi strutture sanitarie private. Così i professionisti si sono trovati soli a fronteggiare le richieste degli “esigenti” sedotti e abbandonati dal terzo pagante, che ha alimentato risentimento e rabbia; anche perchè a causa delle disuguaglianze socioeconimiche c'è sempre chi può godere di quelle tutele e di quelle protezioni negate ai più ma garantite alle elite, presunte o effettivamente tali. Peraltro le burocrazie ministeriali, intrise di bias cognitivi e pregiudizi aneddotici, sono rimaste indifferenti al cupo clima emotivo di malessere che spinge professionisti stanchi e demotivati alle dimissioni o all’uscita pensionistica anticipata per una sorta burn-out collettivo, premessa per la desertificazione dei servizi di confine come il PS e la medicina territoriale. 

Come ha osservato il sociologo della complessità Edgar Morin gli operatori sanitari sono “vittime sia di una politica neoliberista che viene applicata dappertutto per privatizzare ed atrofizzare i servizi pubblici sia di una gestione statale iperburocratizzata sottoposta sempre più alle pressioni di potenti lobby”. In sostanza il professionalismo ha subito prima l'erosione della dominanza medica ad opera della razionalità tecnica descritta, descritta da Schon, e dalla società del rischio e poi è stato messo alle corde dai due contropoteri, il mercato e l'apparato burocratico statale, rispetto ai quali pretendeva di essere la terza via in nome dell'autonomia, della professionalità e della motivazione etica.

Insomma, la strada della perdizione è lastricata di buone intenzioni, che inciampano però nel rischio (tanto per cambiare) di effetti perversi.

Ma c’è di più. Altri effetti collaterali sono emersi dal successo della definizione positiva di salute dell'OMS, come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo assenza di malattia o infermità, più attinente all'ideale della "felicità" che non alla pratica e prosaica cura di uomini in carne ed ossa. La seconda parte della definizione non è meno importante e gravida di risvolti sociali: “Il godimento del più alto livello possibile di salute è uno dei fondamentali diritti di ogni essere umano senza distinzione di razza, religione, credenza politica, condizione economica o sociale”.

La definizione positiva di salute ha favorito una graduale sovrapposizione tra legittimi bisogni sanitari ed assistenziali e desiderio soggettivo di benessere, colorato di edonismo e narcisismo fino agli estremi del potenziamento delle normali funzioni organiche, nel segno del perfezionismo sanitario e della generalizzata avversione al rischio per una fiducia in un progresso medico-sanitario senza limiti. L’associazione tra la promessa di salute totale e un diritto positivo introduce una componente normativa in senso democratico e di protezione del welfare con importanti risvolti di consenso e aspettative sociali, sfociate in un’endemica crisi finanziaria e nella parziale ritirata dell’offerta.

La definizione positiva di salute ha indotto un perfezionismo sanitario e la generalizzata avversione sociale al rischio come tratti distintivi del “La medicina impossibile”, descritta da Daniel Callahan nel filone della Nemesi medica di Ivan Illich, sotto l’influenza dell’idea di progresso continuo ed illimitato in campo medico-sanitario. Come ha osservato il bioeticista statunitense "l’ossessione della perfezione e della riduzione del rischio, da un lato incoraggia lo sviluppo di tecnologie costosissime che vanno a beneficio di un numero comparativamente ridotto di individui o che giovano a molti ma solo marginalmente; dall’altro, acuisce la tensione tra ciò che le persone chiedono alla medicina e ciò che la medicina può dare (Callahan 2000, p.85-86).

Per comprendere più approfonditamente le radici della crisi odierna dello stato sociale, venuta al pettine nella sfera sanitaria con la pandemia, bisogna fare un altro passo indietro allargando la prospettiva storica fino alla prima metà dell’ottocento. Per il professor Orsina la crisi del wellfare può essere ricondotta alle contraddizioni delle democrazie liberali, esposta in “La democrazia del narcisismo”, risalenti all’analisi della “Democrazia in America” di Tocqueville . Secondo la chiave di lettura di Orsina “quello democratico è un disegno intrinsecamente contraddittorio” in quanto accredita ”la promessa che ciascun essere umano abbia pieno ed assoluto controllo della propria esistenza conducendola come e dove meglio crede” fino alla “pretesa da parte degli esseri umani che quella promessa sia mantenuta” (Orsina 2018, p. 21).

La promessa di autorealizzazione ed emancipazione soggettiva si converte in diritto dovuto e sfocia nella deriva della democrazia del narcisismo, destinata però ad essere delusa in quanto “l’assoluta autodeterminazione individuale è incompatibile con la condizione umana, perciò è sempre stata e sempre resterà un’utopia” (ibidem p. 105). La democrazia liberale ha assecondato e rilanciato quella promessa e così facendo “si è cacciata in una trappola che, da cinquant’anni a questa parte, lentamente ma inesorabilmente la sta stritolando” (ibidem p. 105).

In questo senso il passaggio dalle attese di un benessere totale all’avversione per i più piccoli rischi è breve; salvo poi constatare quanto i limiti offerta pubblica non siano in grado di soddisfare una domanda virtualmente illimitata ed altrettanto insostenibile. Questa cornice storica pone il SSN nell’epicentro del sisma che scuote il wellfare state occidentale per la vana attesa “che la promessa democratica di autodeterminazione integrale sia integralmente mantenuta” (ibidem p. 48).

Il 21 gennaio sul supplemento Politica del quotidiano Domani il sociologo Gino Mazzoli ha osservato in proposito: Si è dato per scontato che una volta sanciti nella Costituzione, i diritti fossero acquisiti per sempre dalle generazioni successive, così si è pensato che, istituti i servizi di welfare, ci si potesse concentrare solo sui nuovi diritti che sono l'emblema di una società meno sadica, senza però tutelare le dimensioni bulimiche, distruttive e autodistruttive che strutturalmente attraversano le società, come se la storia non avesse mostrato a più riprese che quando si sanciscono dei diritti si apre una voragine desiderante che ne esige sempre di più e una competizione per averne più degli altri; lo stato è impossibilitato a far fronte a tutte queste richieste, con un'inevitabile sequenza di piani e interventi che da un lato per esigenze di consenso, mettono qualche "pezza" a favore di chi urla più forte e dall'altro applicano in un'ottica meramente burocratica norme decise molti anni prima senza adattarsi alle novità del contesto e soprattutto senza avvicinarsi mai alle persone.