sabato 29 aprile 2017

Responsabilità professionale, cosa cambia con la nuova legge

Quando si pensa agli errori medici tra gli addetti ai lavori prevale l’aspetto operativo: la definizione di errore, infatti, fa riferimento al "fallimento nella pianificazione e/o nell’esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato". Ne deriva, implicitamente, che per evitare di sbagliare basta seguire scrupolosamente le procedure “tecniche” codificate dalla comunità professionale. Il pensiero medico corrente – ovvero la gestione del rischio clinico, di chiara derivazione manageriale - enfatizzando gli aspetti operativi mette contemporaneamente in ombra i processi cognitivi ed inferenziali, tipici del procedimento diagnostico, oggetto del post successivo.

A questa concezione faceva già implicitamente riferimento la Legge Balduzzi del 2012, dal momento che vincolava il giudizio sull'operato professionale “all'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale” da parte del medico accusato di malapratica. Con il varo della legge sulla responsabilità professionale (la n. 24/2017, detta anche legge Gelli) è stato abrogato l'articolo 3 della Balduzzi che viene sostituito con una formulazione più articolata (articolo 6): "Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".

Sia la legge Balduzzi che quella sulla responsabilità professionale hanno fatto proprio e formalizzato l'impostazione generale del risk management, sebbene la precisazione introdotta dalla seconda (la non imputabilità per imperizia, mentre rimane inalterata la punibilità riferibile ad imprudenza e negligenza) rappresenti una svolta importante destinata ad avere effetti sia sull'applicazione della legge che sulle pratiche assistenziali. Proviamo ad immaginare questi effetti.

Di sicuro le linee guida (LLGG) elaborate per le principali patologie avranno un grande impulso e una rinnovata diffusione. Tuttavia si porrà sempre il problema di applicare ai singoli casi clinici le indicazioni generali e le raccomandazioni impersonali contenute nei documenti di consenso, come peraltro specifica la frase finale del comma sopra riportato. Come noto qualsiasi testo prescrittivo è soggetto ad interpretazione ed adattamento alla realtà fattuale, sempre più complessa e sfaccettata rispetto agli schematismi formali. Ad ogni modo i medici saranno portati ad attenersi alla lettera alle linee guida e alle “buone pratiche cliniche”.

Ma a quale LLGG si dovrà fare riferimento il clinico: a quella della società scientifica nazionale o quella anglo-sassone tanto prestigiosa? Già ora il numero di documenti di consenso sfornati dalla letteratura obbliga ad tour de force per valutarne la qualità, l'indipendenza e districarsi tra diverse indicazioni pratiche, non sempre sintoniche. Al problema risponde l'articolo 5 che recita: "gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute". Insomma le Linee Guida redatte dalle società professionali accreditate diventeranno veri e propri documenti ufficiali di valore quasi imperativo, mentre quelle elaborate da associazioni non comprese nell'elenco ministeriale saranno automaticamente squalificate.

E che dire degli assistiti affetti da polipatologie che dovrebbero seguire contemporaneamente diverse LLGG, magari tra loro dissonanti? E’ probabile che per pararsi da eventuali rischi legali i medici siano propensi ad adottare quelle più rigorose e dettagliate. Infine, ma non certo per importanza, c’è un non trascurabile nodo teorico correlato all'applicazione delle raccomandazioni della letteratura: in certi casi potrebbe essere più “etico” e deontologico ignorare o addirittura violare le regole codificate a favore di scelte personalizzate o aderenti ai singoli casi clinici, non raramente unici e particolari. A questa esigenza risponde la clausola finale dell'articolo 6 della legge Gelli...."sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".

Insomma la nuova norma potrebbe incentivare comportamenti difensivi basati sulla puntuale applicazione delle Linee Guida, anche se il giudice chiamato a valutare il comportamento del medico non potrà considerarle in modo assoluto. Se si tiene conto che la prevenzione dalle accuse di malapratica è la motivazione principale delle prescrizioni difensive, si può immaginare il rischio di indurre un ulteriore impulso a scelte di questo tipo.

mercoledì 26 aprile 2017

Antibiotici e infezioni delle vie aeree, il dilemma del medico di MG

La fine dell'inverno segna il declino dell'influenza e delle virosi respiratorie in genere, peraltro presenti in modo sporadico tutto l'anno, complice l'utilizzo spesso scriteriato dei climatizzatori nei mesi estivi. Le infezioni delle vie aeree sono la prima causa di consultazione in MG e propongono il principale dilemma terapeutico per il medico del territorio: quando è appropriata la prescrizione di un antibiotico?

In teoria l'antibiotico va prescritto in tre casi: nelle forme chiaramente batteriche ab inizio, nelle virosi respiratorie complicate da una sovrainfezione da germi oppure, a scopo preventivo, nei pazienti a rischio per una patologia cronica (diabete, asma, BPCO, scompenso cardiaco etc). Tuttavia alcuni medici per l'incertezza della diagnosi, in presenza di febbre elevata, tosse e/o faringodinia, e per non sottovalutare un'infezione batterica, sono indotti a prescrivere l'antibiotico anche a persone giovani e in buona salute.

In genere il medico, in mancanza di informazioni dirimenti sulla natura del disturbo, propende per un trattamento che lo mette al riparo da un eventuale "errore". Questo atteggiamento riguarda sia la fase diagnostica che quella terapeutica, e rivela il grado di tolleranza per l'incertezza del decisore. In caso di dubbio il medico, piuttosto che attendere l'evoluzione spontanea delle virosi nell'arco di 2-3 giorni, tende ad agire in due direzioni: acquisire nuove informazioni sulla causa dell'infezione, attraverso la prescrizione di indagini eziologiche, e/o iniziando una terapia antibiotica. In questo atteggiamento prudenziale è spesso spalleggiato dal paziente, preoccupato per la propria salute e desideroso di guarire in fretta. In buona sostanza la prescrizione dell'antibiotico compensa un deficit di conoscenza circa la natura dell'infezione in atto.

Purtroppo la prima strategia, ovvero il ricorso a test per una diagnosi differenziale tra virus e batteri non è agevole, ad eccezione delle faringotonsilliti e delle rinosinusiti dove i tamponi per la coltura batterica possono fornire informazioni dirimenti. Tuttavia nelle situazioni acute i tempi tecnici per ottenere la risposta del tampone - almeno tre giorni lavorativi - non consentono di attenderne l'esito prima di instaurare la terapia corretta. In questi casi possono venire in aiuto del medico alcuni score clinici, che si basano sulla rilevazione di parametri come livello della febbre, presenza o meno di dolore o rigonfiamento delle ghiandole linfatiche etc.., che con buona approssimazione consentono di distinguere la faringite virale da quella batterica (streptococco beta emolitico).

Negli altri casi non esistono test affidabili per sciogliere i dubbi sulla causa dell'infezione. In pratica non abbiamo strumenti diagnostici semplici, di facile ed immediato utilizzo ambulatoriale o domiciliare per stabilire l’eziologia di un’infezione delle vie aeree. Questo è il nodo cruciale che condiziona la gestione diagnostico-terapeutica delle infezioni acute delle alte vie respiratorie. Un'altro elemento contribuisce all'incertezza: non esistono cure specifiche per gli innumerevoli virus che si localizzano tra naso e gola, con l'eccezione di alcuni anti-virali parzialmente attivi sul virus influenzale. Una battuta circola a proposito delle terapie per le virosi respiratorie "alte": senza cure il raffreddore guarisce in una settimana ma con le cure in 7 giorni.

In particolare l’associazione tra febbre elevata e tosse insistente spaventa non poco l’interessato e pone il sospetto di tracheobronchite o broncopolmonite, che nelle prime fasi può non dare segni clinici specifici. Proprio per questo alcuni medici, timorosi di “sbagliare”, prescrivono comunque un antibiotico a scopo prudenziale, talvolta per l'esplicita richiesta degli assistiti convinti della sua efficacia a 360 gradi.

Il problema sono le attese non sempre realistiche della gente che sopravvaluta le potenzialità sia diagnostiche che terapeutiche, ritenute efficaci a 360 gradi su tutte le infezioni. Per evitare di sovra-trattare in modo improprio con un antibiotico una virosi respiratoria, e quindi aumentare il rischio di resistenze batteriche, servirebbe invece l'accettazione e la condivisione tra medico e assistito di una parte di incertezza.

domenica 16 aprile 2017

Sovraccarico del PS e la filiera dei colli di bottiglia

I sindacalisti ospedalieri dell'ANAAO hanno elaborato un documento di analisi del sovraffollamento del PS, che arriva a conclusioni non dissimili da quelle del SIMEU, l'associazione dei medici del PS: il problema è dovuto alla riduzione dei posti letto ospedalieri specie nelle medicine, con la conseguente impossibilità di ricoverare gli assistiti critici, che quindi "intasano" il PS:

http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=49054&fr=n

La metafora più utilizzata per descrivere il problema è quella del "collo di bottiglia" che può essere estesa a tutto il percorso dell'emergenza/uregenza ospedaliera. Per comprendere le radici del sovraffollamento del PS bisogna puntare l'ettenzione sui flussi degli assisti lungo tutto il percorso assistenziale. La metafora del collo di bottiglia si presta a concettualizzare gli intoppi che intralciano il regolare e fluido passaggio degli assistiti da un comparto all'altro, a causa dell'interdipendenza sistemica dell'organizzazione e dello squilibrio tra domanda ed offerta. Secondo un luogo comune il sovraccarico del PS sarebbe dovuto ad un insufficiente filtro territoriale degli accessi impropri e non alle concause descritte nel documento dell'ANAAO. Vediamo scheticamente le tappe di questa sorta di filiera del collo di bottiglia.

1- Il primo collo coincide con il triage in PS a cui si devono assoggettare i nuovi contatti. Naturalmente se il PS non fosse sovraffollato, in particolari circostanze temporali ed epidemiologiche, il flusso dal triage alla valutazione clinica non subirebbe ritardi "patologici", che comportano svariate ore di permanenza in loco dei codici bianco/verdi. Ad ogni modo, nonostante lunghe attese, gli accessi impropri vengono gestiti e dimessi con un fisiologico turn-over, senza eccessiva saturazione del processo clinico-assistenziale complessivo. In sostanza i codici bianco/verdi stazionano in PS  per tempi variabili, correlati all'eventuale overcrowding, ma una volta accertato il loro carattere non urgente vengono dimessi per far posto ad altri accessi, senza contare le "dimissioni" spontanee dal PS per il prolungato triage.

2- Più problematico e "stretto" è il successivo collo di bottiglia, che si realizza tra PS e reparti di degenza e di cui fanno le spese i codici gialli, in particolari frangenti epidemiologici. Secondo il documento ANAAO nei PS dei grandi centri urbani, dove l’overcrowding è più frequente, ben 25000 pazienti meritevoli di ricovero hanno atteso per un tempo compreso tra le 24 e le 60 ore prima che si liberasse un posto letto per loro. I recenti dati dell'ATS di Brescia sugli accessi in PS nel periodo 2011-2016 dimostrano un aumento degli accessi di assistiti over 65enni, passati da 99.602 del 2011 a 112.774 del 2016, a fronte di una riduzione  del numero complessivo dei contatti.  Inoltre i dati confermano che gli over-65 vengono più frequentemente ricoverati, non di rado per problematiche socio-sanitarie, dopo la valutazione in Pronto Soccorso, con percentuali del 43% tra gli ultra 85enni (le patologie sono tipicamente internistiche: scompenso cardiaco, infezione delle basse vie respiratorie, riacutizzazione di bronchite cronica, neoplasie, vasculopatia cerebrali acute e alterazioni dello stato di coscienza).

Che siano inviati dal MMG o accedano al PS di propria iniziativa questi assisti sono comuque destinati alla degenza per una specifica necessità clinica. Nell'attesa di un posto letto i codici gialli "intasano" il PS e il rallentamento del flusso dal PS verso il ricovero si riverbera a ritroso su tutta la filiera; inoltre l'impegno di risorse umane ed organizzative per l'assistenza ai pazienti in attesa di ricovero si riflette anche sulle dimissioni dal PS dei codici bianco-verdi, che nel frattempo si sono recati in PS, il cui normale turn-over subisce un analogo rallentamento.

3-Alla schematica analisi di cui sopra manca un ultimo tassello, che spiega l'intasamento del PS per l'interdipendenza sistemica della "filiera", vale a dire il terzo collo di bottiglia. I pz. fragili ricoverati per scompensi di polipatologie croniche necessitano spesso di lunghi periodi di degenza per recuperare l'equilibrio funzionale e stabilizzare la situazione clinica; l'allungamento della degenza e le difficoltà delle dimissioni bloccano il turn-over anche nei reparti di medicina o geriatria, con inevitabili ripercussioni a monte sul flusso di codici gialli in entrata dal PS. A ciò si aggiungono i tempi morti ospedalieri per l'esecuzione di accertamenti diagnostici, non sempre prontamente dispobili, e quelli per il trasferimento dei degenti in strutture per post-acuti e riabilitative, dopo la stabilizzazione delle condizioni cliniche.

Insomma l' "ingolfamento" del PS è secondario all'inceppamento dei flussi, per i tre colli di bottiglia dovuti allo squilibrio (spazio-temporale) tra domanda ed offerta; le perturbazioni sistemiche sull'intera filiera vanno dal triage fino alla dimissione dal nosocomio, di cui fanno le spese assistiti ed operatori dell'emergenza/urgenza.
  • Il primo collo di bottiglia viene scontato in termini di attesa al triage dai codici bianco/verdi, ma in quanto tali sono comunque destinati, in tempi più o meno rapidi, all'uscita dalla "filiera", senza effetti a valle del PS.
  • Chi invece subisce le conseguenze del blocco del flusso a causa del secondo collo di bottiglia sono i codici gialli, ovvero coloro che meriterebbero il ricovero ma devono forzatamente attendere anche intere giornate prima di trovare un posto letto. A questo livello intermedio si inceppa il percorso sistemico, con effetti sulla funzionalità delle strutture di emergenza e sugli assistiti in attesa di una sistemazione in corsia.
  • Infine l'ultimo collo di bottiglia ha ripercussioni sistemiche ed organizzative a monte della degenza, come abbiamo visto, ma senza troppe conseguenze per il paziente, che comunque resta ricoverato in attesa delle dimissione o di un'altra sistemazione.
In conclusione se si osserva e si concettualizza il problema in chiave di flussi e di interdipendenza sistemica, con i relativi blocchi da sovraccarico di domanda, le soluzioni sono intuitive e in linea con l'analisi del documento ANAAO. Sul banco degli imputati va posto il taglio "lineare" dei posti letto dei reparti medici che, al contrario, dovrebbero essere potenziati in modo selettivo per affrontare il crescente numero di assistiti portatori di complessità clinica ed elevata intensità assistenziale.

domenica 9 aprile 2017

Iinternisti ed infermieri si fanno largo sul territorio

Si chiama, nel gergo della sociologia delle professioni, bracconaggio professionale; è una strategia collaudata da decenni, utilizzata spesso per farsi largo nelle riserve sanitarie a caccia di nuove (facili) prede (W.Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, Il Mulino Ed., Bologna, 2000). Si basa su una strategia comunicativa imperniata sulla costruzione di un'immagine del territorio sguarnita di figure professionali competenti e qualificate, in quanto poco preparate nella diagnosi e/o nella terapia di questa o quella patologia. L'ultimo esempio in ordine di tempo risale all'ottobre 2016 e vede alla ribalta dei media la denuncia della storica Società Italiana di Medicina Interna (SIMI).

http://www.dottnet.it/articolo/19400/addio-ai-medici-internisti-un-milione-di-pazienti-in-difficolta-/?tag=10244904462&cnt=1

Per accreditare la discesa in campo sul territorio dell'Internista niente di più efficace dell'indiretta squalifica del ruolo di altri professionisti: quando il paziente viene dimesso dall'ospedale e torna a casa trova il vuoto assistenziale, nessuna continuità assistenziale sul territorio, men che meno un professionista che coordina ed armonizza gli interventi assistenziali con una visione integrata e generale della persona con polipatologie, nemmeno un banale prescrittore di farmaci cronici. Nulla, al povero malcapitato abbandonato a se stesso e privo di un valido referente professionale sul territorio, non resta che un defatigante slalom tra i vari ambulatori per avere controlli e contatti con specialisti di branca, che si ignorano reciprocamente e magari si intralciano pure con prescrizioni controindicate o a rischio di interazione.

Il medico del territorio, nello scenario a tinte fosche degli internisti, è inesistente e scotomizzato in un trionfo di auto-referenzialità. Fino a qualche tempo fa andava di moda l'esaltazione enfatica del "ruolo centrale" del MMG, ma nonostante l'ormai ventennale corso di formazione specifica in MG non è si è ancora imposta quell'aura specialistica che i giovani colleghi rivendicano da tempo. D'altra parte ubi maior minor cessat, e non si può certo dire che agli internisti faccia difetto la preparazione e la competenza professionale per valutare l'operato dei "generici mutualisti" i quali, da non specialisti in un settore popolato da iper-specialisti, soffrono di inevitabili limiti e carenze professionali. Insomma la MG è un facile bersaglio, come colpire la proverbiale CR!

La strategia comunicativa ha evidentemente fatto scuola tanto da essere adottata anche da altre categorie. E' il turno infatti degli infermieri che scendono in campo e si fanno largo sul territorio, previa implicita squalifica della MG.

http://www.lastampa.it/2017/04/08/italia/cronache/pronto-intervento-e-aiuto-alle-mamme-quandolinfermiere-sostituisce-il-medico-S4HkwlZUv9yBiyEhAf3rpL/pagina.html

L'argomento di fondo è lo stesso degli internisti, sebbene non venga mai nominato il MMG, con buona pace della retorica sull'integrazione, collaborazione, comunicazione, cooperazione inter-professionale, lavoro in team etc..

L'immagine del territorio è la medesima: un luogo desertico, dove gli assistiti sono lasciati a se stessi, abbandonati e privi di contatti e supporto da parte dei servizi sanitari. Tant'è che si devono recuperare con la tecnologia informatica, a mo' di latitanti renitenti alle cure: "grazie ai nostri sistemi informatici sappiamo chi sono e dove abitano, quando sono stati ricoverati e che medicine prendono, così li andiamo a trovare e verifichiamo come stanno...etc..". A quanto pare i "cacciatori" di assistiti non vengono sfiorati dall'idea che anche sul territorio è in vigore la legge sulla privacy, che tutela dati sensibili come la dimissione dall'ospedale.

La scotomizzazione della MG e il suo by-pass è scontato e fisiologico, a vantaggio di interlocutori più professionali, ovvero gli specialistici. L'esempio degli internisti ha evidentemente fatto scuola, tant'è che l'infermiere di famiglia "quando verifica qualche problema" non si rivolge al suo omologo medico, ma bensì direttamente allo specialista di riferimento, saltando a piè pari l'inesistente MG.

Insomma sul territorio c'è un vuoto assistenziale, un rischioso deficit di presa in carico dei malati più critici e bisognosi di cure a causa di MMG incompetenti e latitanti, per cui ci si propone di riempire questa pericolosa carenza: "Forti della loro formazione avanzata gli infermieri fanno quello che una volta facevano i medici condotti: vanno di casa in casa a seguire chi non può o non vuole muoversi".

P.S. Ben diversa è la posizione dell'IPASVI sulla gestione integrata territoriale della cronicità, in sinergia collaborativa con la MG: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?approfondimento_id=9282

"Le competenze infermieristiche in questi ambiti non solo favoriscono la personalizzazione degli impegni assunti dalla persona verso la propria salute in fase prospettica, riducendo il rischio di istituzionalizzazione/ospedalizzazione, ma creando con il  medico di medicina generale (Mmg) un’ alleanza che fa da tramite tra le esigenze della persona assistita e il medico di fiducia; favorisce condizioni e relazioni per raggiungere gli obiettivi di salute e mantenimento della persona assistita, coerentemente con gli obiettivi terapeutici previsti”.
 
“Questo tipo di strategia – conclude la presidente Ipasvi - consente al Mmg di focalizzarsi sui problemi di salute più complessi dal punto di vista clinico-terapeutico, potendo affidare i casi più emblematici dal punto di vista della cronicità (stabilità clinica e aderenza terapeutica, comportamenti e stili di vita) all'infermiere sul territorio, nell’ottica della cooperazione professionale e condivisione della pianificazione delle cure alla persona". 

sabato 8 aprile 2017

Libertà di scelta/revoca tra lealtà e defezione: è la medicina liquida, bellezza!

L'editore Il Mulino ha riedito, a distanza quindici anni, un libro che a suo tempo rappresentò una svolta teorica e pratica nelle scienze sociali. Si tratta del volume dell'economista e sociologo tedesco Albert O. Hirschmann, ebreo emigrato negli USA per sfuggire alle persecuzioni naziste, intitolato "Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato", che conserva inalterata la sua attualità, a cavallo tra economia, sociologia e psicologia della decisione (http://www.secondowelfare.it/primo-welfare/lazzardo-di-rimuovere-le-barriere.html).
Secondo lo studioso statunitense la relazione tra un fornitore di beni o servizi e i consumatori è influenzata da una sorta di lealtà che lega l’acquirente al “brand” prescelto. Questa lealtà è instabile e allorché il consumatore giudica insoddisfacente la qualità del bene o del servizio, rispetto alle aspettative e al bisogno, la relazione entra in crisi e può sfociare in due comportamenti opposti.

L’uscita o exit (defezione). È la strategia più “economica” e l'utente, allorché lo scontento supera la soglia fisiologica, rompe la relazione e si rivolge alla concorrenza. Questa scelta “di rottura” ha un carattere impersonale e privato, in quanto sanzione anonima ed aspecifica per il fornitore. Sta all’azienda "abbandonata" comprendere le motivazioni dell’insoddisfazione che sta dietro l’uscita di un consistente numero di consumatori. I clienti possono con la loro uscita decidere il destino di intere aziende, tant'è che le imprese private sono sensibili ai segnali di defezione della clientela, ad esempio cali inattesi delle vendite. Il boicottaggio attivo di un prodotto o di un marchio è una forma di uscita collettiva, coordinata ed intenzionale, ad esempio a fini politici. Al contrario in un assetto monopolistico il "cliente" non può esercitare l’opzione uscita e deve accettare passivamente lo status quo.

La voce. In alternativa all'exit, il cittadino può esprimere apertamente il proprio malcontento arrivando a forme di esplicita protesta, individuale o collettiva. Quando la delusione supera il livello di lealtà del consumatore egli può decidere di “alzare la voce”, denunciando l’inefficienza di un servizio, la scadente qualità di un bene o la lesione di alcuni diritti. L’opzione voce, all'opposto della defezione, richiede una mobilitazione attiva, ha un carattere pubblico in quanto si rivolge esplicitamente al fornitore di beni e servizi per rivendicare ed ottenere un cambiamento.

L’opzione uscita è precisa (o si esce o si rimane) e favorisce l’autoregolazione del mercato, mentre la voce è un processo più complesso, attiene alla sfera pubblica e richiede un impegno personale. Alla base della voce troviamo l’insoddisfazione per aspettative o diritti: quando il cittadino giudica che alcuni principi siano disattesi può scegliere l’opzione voce, che rispetto alla defezione è più efficace per indurre un cambiamento e coerente con il carattere comune del diritto negato. Sebbene la delusione del consumatore per beni durevoli sia frequente essa può riguardare anche i servizi pubblici per una sorta di reazione, in caso di un elevato livello di aspettative non soddisfatte e per la variabilità della qualità e dell’efficacia delle prestazioni.

Ma cosa c'entra con la MG questo semplice ed elegante schema interpretativo delle dinamiche socio-economiche? La MG convenzionata costituisce un’eccezione nel panorama della sanità pubblica, fin dalla sua nascita, per la centralità della libera scelta/revoca del cittadino. La facoltà di revoca del MMG istituzionalizza l’opzione uscita, che viene ad assumere quindi un ruolo di regolazione dei rapporti tra medico e paziente ed influenza, indirettamente, anche le relazioni tra i professionisti. La consuetudine e la continuità assistenziale tra medico e assistito rafforza in genere la lealtà di quest’ultimo, in particolare nei piccoli centri dove il medico è inserito in una fitta rete sociale e di relazioni informali (conoscenze, rapporti amicali e di vicinato, parentela, partecipazione ad attività sociali ecc.). Il MMG può quindi far leva su una certa quota di lealtà da parte dei suoi assistiti, che controbilancia eventuali tendenze alla defezione.

Tuttavia quando la delusione per il deterioramento della relazione o della qualità assistenziale supera una certa soglia la lealtà può venir meno e l’assistito può ricorrere all'opzione uscita. La revoca infatti è una forma di defezione a cui corrisponde in automatico una scelta alternativa: il professionista revocato viene sostituito da un concorrente per il soddisfacimento del bisogno frustrato. I risvolti economici della facoltà di scelta/revoca sono intuibili e possono condizionare il comportamento del medico che, in contesti ad alta concorrenza, vive la revoca come una sorta di ricatto continuo o, all'opposto, la può utilizzare strategicamente a proprio vantaggio in modo opportunistico, ad esempio con una maggiore disponibilità verso i “desiderata” inappropriati degli assistiti.

Negli ultimi anni la continuità del rapporto medico-assistito è stata messa a dura prova dai cambiamenti intervenuti a livello socio-economico ed organizzativo, che si avvertono in MG proprio grazie a quella sorta di sismografo delle tensioni tra assistiti e medici che è la scelta/revoca. Le cause dell'instabilità del rapporto fiduciario sono molteplici e segnalano l'evoluzione verso una “medicina liquida”: un generale sfilacciamento delle relazioni sociali, la riduzione dell'asimmetria informativa tra medico e assistito per effetto della rete, un certo clima rivendicativo e conflittuale nei confronti delle èlite e delle intermediazioni professionali, la precarietà economica e la mobilità lavorativa conseguente ai processi di globalizzazione e alla crisi economica, i vincoli burocratico-amministrativi, le compatibilità economiche della medicina amministrata etc..

La chiava di lettura dello schema “lealtà, defezione, protesta” di Hirschmann, in sinergia con la concause sopra accennate, aiuta a mettere a fuoco il deterioramento e la precarizzazione di una relazione che, fino a pochi anni fa, era invece stabile e duratura.