La
teoria della decisione è dominata da due diverse impostazioni: i
modelli istruttivi o normativi, che prescrivono al decisore il
miglior modo per raggiungere l’obiettivo (la teoria della scelta
razionale), e quelli descrittivi, che all’ opposto si limitano ad
osservare e prendere atto dei processi decisionali messi in atto dai
soggetti, in contesti sperimentali o naturali. Nel campo dell’errore
medico prevalgono gli approcci normativi: i modelli bayesiani e il
cosiddetto risck management (RM). Entrambi suggeriscono il modo
migliore per decidere ma, ciononostante, la gente resta
inesorabilmente affetta da fallibilità e quindi serve a poco
indicare la retta via se poi ogni tanto nella vita reale si imbocca
quella sbagliata.
Secondo
il primo filone il decisore per conseguire il suo intento basta che
applichi in modo rigoroso il teorema di Bayes, cioè la complicata
formula elaborata del reverendo inglese per correggere le probabilità
di un evento alla luce dell’acquisizione di nuove informazioni. Per
decidere correttamente serve quindi un soggetto iper-razionale,
freddo calcolatore in grado di computare tutte le informazioni in suo
possesso, ma non è affatto facile trovare nella realtà fattuale un
soggetto in grado di portare a termine in tempi utili e di routine
calcoli così complicati, ammesso che disponga di capacità mentali
sufficienti e i dati per applicare la fatidica formula.
Secondo
il RM invece per evitare sbagli basta seguire procedure predefinite
che sono una sorta di garanzia di “infallibilità”. Il
RM si concentra sugli eventi avversi prevedibili, cioè quelli che
possono essere evitati applicando in modo scrupoloso protocolli
operativi, linee guida, check list, schemi d'azione etc.. garanti
dell'efficacia/successo clinico. Da qui la definizione di errore,
inteso come “fallimento
nella pianificazione o esecuzione di una sequenza di azioni che
determina il mancato raggiungimento, non casuale, dell’obbiettivo
desiderato".
Ma se in un certo settore mancano LLGG o ve ne sono più di una, tra
loro dissonanti? Entrambi i modelli condividono la stessa
impostazione istruttiva, il
medesimo presupposto implicito in base al quale per evitare l’errore
basta applicare
regole, procedure, formule, linee guide etc.,
predefinite
da ricercatori e “tecnici”, da
implementare nella pratica clinica.
I
decisori in carne ed ossa sono purtroppo affetti da una irrimediabile
“razionalità limitata” individuale, formula coniata oltre mezzo
secolo fa del premio Nobel per l'economia Herbert Simon per
descrivere come in realtà vengono prese le decisioni nei contesti
naturali: oggi si direbbe, in modo scherzoso, che le persone
utilizzano le
formule in modo
spannometrico. Servirebbe
invece una sorta di navigatore che avverta per tempo il decisore che,
il più delle volte inconsapevolmente, ha scelto un tragitto
sbagliato, onde evitare che dal quasi errore cada nell'errore. Perchè mentre si sta sbagliando non ci si accorge dell'errore, che richiede uno scarto temporale per emergere dall'inconscio cognitivo alla consapevolezza.
La
chiave di volta stà in un un aforisma del filosofo Cartesio che
recita: l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra
tale. Se lo sbaglio sfugge alla percezione e alla consapevolezza, in
quanto inapparente e subdolo, il primo obiettivo pratico è quello di
percepire quanto prima l'errore stesso, il che non è agevole proprio
per il suo carattere sfuggente e sub-liminale. Nel momento in cui si
compie non ci si avvede dell’errore per una sorta di anosognosia
cognitiva, simile a quella che colpisce alcuni soggetti affetti da un
deficit neurologico motorio, che però disconoscono come tale,
comportandosi come se nulla fosse e come se potessero contare
sull’integrità del sistema motorio. Serve quindi una tecnica, una
procedura affidabile che smascheri l'anosognosia cognitiva e riveli
l’errore all’errante inconsapevole, quanto più precocemente per
poter rimediare e correggere il percorso. Discrepanza temporale e mismatch cognitivo sono le due facce della stessa medaglia.
Alcuni
psicologi (Rizzo et al 1996) hanno proposto un modello a più stadi,
per descrivere il processo di "svelamento" dell'errore,
così articolato:
1. il
primo passo consiste nell’ emergere di una discrepanza
percettivo-valutativa (mismatch) spesso in modo vago ed “epidermico”,
a pelle
2. a
cui segue la scoperta (consapevolezza) che è stato commesso un
errore
3. l'identificazione
(individuazione) dell'origine e
della natura della
discrepanza
4. il
superamento della discrepanza tra obiettivo prefissato e il risultato
conseguito (strategie per eliminarla, capirla e rimuovere le cause).
La
mismatch è frutto della mancata corrispondenza tra informazioni ed
aspettative (ipotesi, previsioni etc..) e dati empirici, oppure al
fatto che queste non sono corrette o non sono state aggiornate. Gli
autori si riferisco più che altro ad azioni finalizzate e procedure
pratiche; nel campo della diagnosi medica significa che serve una
certa sensibilità per percepire i segnali di mismatch o ricercare
attivamente i feed-back che testimoniano la discrepanza tra realtà e
la sua rappresentazione mentale, che è il punto nodale per
riconoscere quanto più precocemente il quasi-errore diagnostico, affinché
non si traduca in
errore vero
e proprio
dalle conseguenze pratiche.
A
volte la discrepanza parte da una sensazione sgradevole di
insoddisfazione, da uno stato d'animo di perplessità, di fastidioso
dubbio o sfasatura; in altri casi invece si presenta come
un'improvvisa "sorpresa", rivelazione o illuminazione sulla
differenza tra rappresentazione e realtà dei fatti. Il disagio
cognitivo indotto dal mismatch è radicato nel vissuto e può essere
superato con un atteggiamento di riflessione sull'esperienza, dai
connotati meta-cognitivi chiaramente distanti se non antitetici
rispetto all'impostazione istruttiva del RM.
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