1. Assistiti portatori
di uno o più fattori di rischio ad elevata prevalenza (ipertensione
arteriosa e/o diabete di tipo II e/o dislipidemia) ma senza danno d’organo o
complicanza: per questa categoria il PAI in realtà appare superfluo in quanto
coincide di fatto con le indicazioni del relativo PDTA, applicato in modo
flessibile e personalizzato. Si tratta della parte più consistente dei cronici,
costituita da un 25% circa di ipertesi e un 10% di diabetici e/o dislipidemici
(la stragrande maggioranza dei diabetici è anche iperteso o dislipidemico)
2. Pazienti dello stesso gruppo portatori di uno o più danni d’organo o affetti da monopatologia evoluta ad elevata
intensità clinico-assistenziale (Diabete tipo I o II in fase di complicanze,
esiti di ictus, coronaropatia, vasculopatia cerebrale o periferica, IRC,
Scompenso cardiaco, FA, demenza, BPCO grave etc..): il PAI è elettivamente
indicato in caso di polipatologie concomitanti e dovrebbe essere redatto e
condiviso dal MMG con lo specialista di riferimento o Clinical Manager (CM)
3. Assistiti
multipatologici, disabili, invalidi civili con accompagnamento, fragili, non
autosufficienti etc.. che
richiedono valutazione funzionale e multidimensionale, con PAI clinico e
socio-assistenziale, redatto dal team multi-professionale distrettuale,
coordinato da un casa/care manager, specie nei pazienti in ADP/ADI.
L’impegno
del Clinical Manager della struttura (CM) o del MMG nella redazione del PAI si deve quindi concentrare sulle
categorie 2 e 3, al fine di un’appropriato utilizzo delle risorse umane ed
organizzative disponibili. E’ quanto indica in modo esplicito anche il Piano
Nazionale per la Cronicità (PNC) quando traccia il profilo e gli obiettivi del
PAI: l’approccio integrato alla cronicità è “ancorato
al riconoscimento degli elementi di complessità che connotano sia l’individuo,
con il suo fenotipo e i suoi specifici bisogni, sia il contesto nel quale
questo si colloca e interagisce con persone, servizi e strutture sanitarie e
sociosanitarie”, mentre nei pazienti con condizioni cliniche multiple “si renderebbe necessario seguire le
indicazioni di due o più linee guida (una per ogni singola malattia) con la
conseguenza di far fronte ad eventuali incompatibilità o eventuali scelte da
compiere tra i vari percorsi diagnostico-terapeutici presentati singolarmente
ma non nella loro complessità interazionale”.
E’
quindi necessaria la “programmazione di
un percorso di cura individuale” vale a dire “l’esecuzione effettiva nel tempo di prestazioni sanitarie per i
pazienti con malattia cronica” previa conoscenza e identificazione di
“percorsi alternativi fattibili adeguati alla gestione di pazienti cronici con
multimorbidità”. In soldoni il PAI dovrebbe operare una sintesi pratica dei PDTA o delle Linee Guida di riferimento per armonizzare il percorso gestionale delle varie patologie di cui è portatore il singolo paziente cronico "complesso".
Proprio
sulla redazione e gestione del PAI nella polipatologia si sono
verificate differenti valutazioni e talvolta divaricazioni pratiche tra MG e CM ospedaliero. Ad esempio nel documento critico verso la PiC,
stilato dai Primari Ospedalieri lombardi dell’ANPO, si legge che il CM “è un professionista con competenze
tuttologiche, non definito”, incaricato di redigere “un fantasmagorico PAI sintetizzando Linee Guida, PDTA e Consensus di
più specialità, di scrivere terapie ed esami per un periodo definito anche di
un anno” con una “coercizione
metodologica che comporta gravi difficoltà….e risvolti medico-legali non
indifferenti”.
Non meno problematico è il documento elaborato dall’Ordine
Milanese, che sottolinea specifica-tamente i rischi medico-legali del PAI per lo
specialista ospedaliero, in quanto “comporterà
maggiori difficoltà rispetto all'abituale attività svolta in passato nel dover
estendere il proprio operato, in particolare per i casi di pluri-patologie, a
branche specialistiche plurime e diverse rispetto a quella del proprio titolo”.
Si profila quindi come soluzione a questi problemi il ricorso ad una girandola di consulenze specialistiche
propedeutiche alla compilazione del PAI, anche per prevenire il rischio di
malapratica.
Il PNC, dal canto suo, indica il profilo del professionista più adatto alla redazione
del PAI nei pazienti polipatologici complessi, ovvero quello che si sintonizza
con “il concetto di medical generalism,
in cui la conoscenza della persona nel suo intero e dei suoi bisogni, la
visione continua degli eventi (non solo) sanitari del singolo soggetto -
integrate con le conoscenze basate sulle evidenze - determinano scelte più
appropriate e fattibili per il singolo paziente (evidence based practice)”.
L’ “imbarazzo” dello specialista ospedaliero di fronte al compito di redigere “un fantasmagorico PAI” è comprensibile poiché il malato cronico multiproblematico mette in crisi la visione settoriale e monodimensionale del processo clinico-assistenziale. E’ comprensibile che il CM, di fronte per la prima volta ad un cronico complesso, provi disagio per l'incertezza di doversi confrontare con una multiproblematicità non abituale, nella misura in cui risulta “privo di quella conoscenza della persona nel suo intero e dei suoi bisogni” e della “visione continua degli eventi (non solo) sanitari del singolo soggetto”. Il malato cronico separato dal suo contesto di vita, irrelato rispetto alle sue vicende anamnestiche e al flusso di eventi che hanno condotto alla situazione attuale, appare un oggetto misterioso, di difficile inquadramento e pianificazione clinica per il futuro.
La polipatologia cronica per la sua natura viola i confini disciplinari, codificati dall’organizzazione ospedaliera e dalle suddivisioni accademiche, come ha efficacemente sottolineato Mauro Ceruti nel suo ultimo libro, dedicato al “tempo della complessità (R.Cortina Editore, pag. 94-95)”.
“Scienziati, filosofi, intellettuali compiono allora una ritirata [dalla quale] nasce quella figura dello specialista che prevale ancor oggi nei laboratori e nelle accademie. La sconfinata estensione del sapere e del cosmo viene limitata, intersecata, imbrigliata da netti confini disciplinari. In una parola: viene territorializzata [....] attraverso la collaborazione fra tanti individui e tanti gruppi, ognuno dei quali si incarica di esplorare un tassello sempre più ristretto dell’immenso mosaico dell’universo. [….]. La giustapposizione delle singole conoscenze parcellari, locali, è considerata la strategia adeguata per ottenere un panorama adeguato e dettagliato dell’“oggetto” globale e [.…] ha modellato l’idea stessa di università, erigendo confini tra discipline e tra dipartimenti. E in ciascun dipartimento, in ciascuna disciplina lo specialista opera da padrone a casa propria, convinto che le poche interazioni necessarie fra i vari territori del sapere siano facilmente garantite da alcune regole e da alcune occasioni ritualizzate. Questa fase della modernità ha anche modellato l’idea delle professioni extra-accademiche. L’esperto è dotato di una conoscenza analitica di porzioni ristrette della conoscenza: esercita scelte a breve termine, e rifugge dagli scenari a lungo termine. Più in generale, questa fase della modernità ha fatto sorgere l’idea stessa dell’inevitabilità della separazione funzionale, che ha prodotto il modello dell’organizzazione industriale fordista”.
Può il MMG, non specialista per eccellenza ma con una naturale vocazione alla visione multidimensionale, rivendicare per sè il ruolo di “medical generalism”, ovvero di “professionista con competenze tuttologiche”? Per i “veri” specialisti, a disagio con la compilazione del PAI, potrà apparire una sorta di improprio sconfinamento nella sfera delle competenze altrui. Tuttavia il numero di arruolamenti alla PiC, a 2/3 del percorso semestrale di adesione (si veda il post precedente), sembra accreditare il MMG come professionista di riferimento per operare quella sintesi clinica indispensabile alla gestione appropriata e integrata della cronicità.
P.S. Da anni nei più diversi contesti, dalla medicina di precisione a quella narrativa, dalla farmacogenomica all'antropologia medica, si enfatizza la necessità di una personalizzazione delle cure, sovente in modo retorico. Oggi al contrario clinici e medici legali trovano una convergenza nella critica al PAI per la polipatologia cronica, che con tutta evidenza costituisce uno strumento per adattare le indicazioni generali ed impersonali delle linee guida alla singola persona in carne, ossa, emozioni, relazioni e storia.
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