martedì 5 maggio 2020

Testing, tracing and treating, ma senza tamponi sul territorio?

E’ il mantra del periodo di declino pandemico che sfocia nella fase 2: il virus si può sconfiggere sul territorio, e non in ospedale, facendo più tamponi ed isolando i malati, secondo lo schema di intervento basato sulle tre T: “testing, tracing and treating”, ovvero testare i sospetti, tracciare i contatti e trattare i contagiati ( https://www.tpi.it/cronaca/vespignani-coronavirus-intervista-virologi-italiani-e-3t-20200503595940/ ).  Peccato che le armi messe in campo, a partire appunto dai tamponi, siano state precluse ai medici del territorio e riservate all’ospedale. A partire dall’indicazione di non recarsi in PS ma di contattare il MMG, che peraltro era impossibilitato a visitare il paziente per mancanza di DPI e di fare diagnosi per l’impossibilità di eseguire il tampone nasale. E’ stata una delle tante indicazioni contraddittorie che hanno punteggiato la gestione del Covid-19, specie nelle prime settimane, assieme a criteri diagnostici “geografici” iniziali, di fatto inapplicabili per i medici lombardi ed emiliani (nessuno dei primi casi aveva avuto contatti con viaggiatori provenienti dalla Cina o dalla zona rossa del lodigiano). Come si poteva tracciare i contatti sul territorio se non si potevano prescrivere i tamponi ai paucisintomatici?

Certo era fondamentale evitare un eccessivo afflusso verso i PS, ma con quale organizzazione territoriale e con quali risorse alternative al nosocomio? Serviva un’organizzazione della medicina territoriale pronta ad applicare la strategia delle T per evitare che l'emergenza travolgesse anche la più solida organizzazione ospedaliera. Se non che il territorio, in particolare quello lombardo all’epicentro dell’epidemia, è stato abbandonato da anni e i MMG lasciati soli di fronte all’emergenza.

Le restrizioni iniziali sui tamponi erano comprensibili per la sproporzione tra una “domanda” inattesa e la scarsa disponibilità di test e laboratori accreditati ed attrezzati. Ora invece siamo nella situazione opposta: abbiamo molti laboratori attivi e buona disponibilità di test, anche sierologici, a fronte di un’incidenza in continuo calo. Ma ancora non è possibile richiedere tamponi se non per il rientro in azienda dei lavoratori dipendenti che hanno avuto sintomi simil-influenzali e, oltre tutto, con procedure rigide e farraginose. Nella fase 2 vengono quindi esclusi sia coloro che non devono rientrare al lavoro - dai disoccupati ai nonni alle prese con la custodia dei nipoti, dalle casalinghe ai libero-professionisti - sia chi non ha avuto sintomi influenzali tipici, dalla semplice anosmia ai disturbi gastroenterici. Se poi dovesse ripartire l'epidemia come sarà possibile "attivare" la prima T, che mette in moto le altre due in presenza di nuovi casi sospetti, se sul territorio non si possono fare i tamponi? 

Anche nel caso dei tamponi per la guarigione prevalgono criteri e protocolli rigidi che non si adattano alla varietà delle situazioni cliniche osservate sul territorio, riconducibili ad infezioni paucisintomatiche da Covid-19. Perché non consentire anche ai laboratori privati di offrire al pubblico test per i pazienti che vogliono conoscere la propria situazione, per tutelare se e i propri familiari? Cosa lo impedisce, dopo la validazione nazionale del test sierologico e la fornitura ufficiale dei reagenti da parte dell'azienda che ha vinto la gara nazionale? Fino ad ora tutto è rimasto fermo ma gradualmente si stanno aprendo nuove opportunità anche nel settore privato.

Il tampone può avere tre finalità che hanno tempi, modalità di esecuzione e significati diversificati
  • diagnosi all’esordio della sintomatologia, specie nei casi paucisintomatici, per un’appropriata gestione clinica domiciliare
  • conferma della guarigione dopo la remissione dei sintomi o la dimissione, per il ritorno alle normali attività
  • screening per individuare i portatori sani da isolare per prevenire la diffusione del contagio, in particolare negli ambienti sanitari e socioassistenziali.
Sensibilità, specificità e interpretazione del test hanno significati variabili in relazione ai diversi momenti, contesti clinici ed obiettivi pratici. Ad esempio un tampone negativo in presenza di una diagnosi di polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria verrà tranquillamente trascurato e verranno attuate tutte le terapie come se fosse un caso di Covid-19. Al contrario quando si tratta di verificare la guarigione la relativa frequenza dei falsi negativi consiglia di eseguire di routine un secondo tampone per minimizzare il rischio del falso negativo, che con 2 tamponi passa dal 33% al 13% circa.  

All’inizio della pandemia le indicazioni ministeriali, e conseguentemente anche la formazione dei medici, hanno privilegiato la dimensione epidemiologica e il contesto ospedaliero rispetto a quella clinica sul territorio (si veda ad esempio la scarsa attenzione alla gestione clinica della FAD curata dalla Federazione degli ordini) per cui è impossibile una stima reale dei contagiati tra la popolazione generale, per non parlare dei portatori sani. Il coronavirus può essere agevolmente sospettato quando si osservano i due quadri clinici più specifici, sebbene collocati agli estremi del continuum della gravità: da un lato la polmonite interstiziale bilaterale con dispnea/ipossia e, dal lato opposto, l’anosmia/ageusia senza rinite, che rappresentano i sintomi/segni clinici più specifici dello spettro.

Paradossalmente l’innocua anosmia ha una specificità diagnostica superiore rispetto alla ben più impegnativa polmonite! Quanti casi di improvvisa anosmia osserva in un anno un MMG medio? Anche dal punto di vista del calcolo probabilistico bayesiano l’anosmia fa fare un salto di qualità al processo diagnostico superiore a tutti gli altri segni/sintomi clinici e giustifica di per se la quarantena. Peccato che non fosse inserita nei criteri di sospetto diagnostico e nemmeno in quelli per l’esecuzione del tampone. E’ chiaro che nella fase più acuta della pandemia bisognava privilegiare la diagnosi dei casi di grave polmonite, ma a prezzo di non tracciare i contagi sul territorio e quindi di favorire la diffusione del Covid-19.

Va detto che fronte a sintomi tanto insoliti quanto specifici, come l’anosmia e l’ageusia, il tampone potrebbe essere addirittura superfluo mentre, come già sottolineato, l’esito negativo del tampone in un soggetto affetto da polmonite interstiziale bilaterale non esclude il Covid 19. Ben diverso è il caso della sindrome influenzale aspecifica, numericamente prevalente sulle altre forme, in cui l’incertezza diagnostica potrebbe essere risolta con la pronta esecuzione del tampone e il conseguente isolamento dell’infetto. Nella fase 2 il tampone nasale farà la differenza: se in futuro si vuole davvero intercettare nuovi casi e bloccare altri pericolosi focolai sul nascere, evitando nel contempo che la gente finisca per rivolgersi ed infettare il PS, si deve approntare un’organizzazione territoriale in grado di intervenire prontamente al domicilio o in strutture ad hoc con il tampone diagnostico, come a quanto pare accade in Germania. Le USCA dovrebbero svolgere il ruolo fondamentale di intercettare i nuovi casi ad attivare a cascata le altre due T.

E’ chiaro che astratti criteri diagnostici, specie se dicotomici, di natura epidemiologia più che clinica non possono render conto della sfaccettatura dei singoli casi. I dilemmi e la dialettica tra criteri e linee guida definite a priori e la varietà della realtà clinica è il pane quotidiano per i medici pratici, abituati alla conversazione riflessiva con la situazione problematica e ad adattare la decisione alla varietà e variabilità degli eventi individuali.

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