lunedì 21 febbraio 2022

Dipendenza o convenzione pari sono, ovvero il lento tramonto della dominanza

Per analizzare e comprendere il braccio di ferro in atto da mesi tra Regioni e Ministero circa l’ipotesi di passaggio alla dipendenza dei medici delle cure primarie bisogna ricorrere alla dimensione storico sociale, senza la quale è difficile decifrare i contorni del problema e intravvederne gli esiti. L’attuale evoluzione della medicina segnala un malessere che pervade la categoria dall’inizio del secolo, appro-fondito nel 2003 in un testo di riferimento dal sociologo sanitario Guido Giarelli. Il presidente dell’ANAAO Troise nell’intervento della scorsa settimana sul QS ha tratteggiato un disagio profes- sionale che interessa in egual modo dipendenti e convenzionati, per un mal comune che non comporta il proverbiale mezzo gaudio, ma che a dispetto delle differenze di status giuridico a vantaggio dei primi esita in burn out e disaffezione comune ad entrambi.

I poteri controbilanciati e il declino della dominanza

Il punto di partenza dell’analisi è la descrizione delle forze in campo, ovvero dei tre poteri che si controbilanciano e si fronteggiano nell’arena sociale e sanitaria per spostare gli equilibri sistemici a proprio favore: la professione medica, il complesso sanitario-industriale di mercato e quello pubblico regolatore delle relazioni tra gli altri attori. Per tutto il Novecento e fino alla fine degli anni Settanta la “dominanza medica”, descritta dal sociologo americano Freidson, ha giocato un ruolo preminente per via di una delega di potere frutto di un contratto sociale stipulato idealmente tra stato, società e biomedicina.

Per mezzo secolo lo stato ha conferito un mandato in bianco ai medici per esercitare in autonomia un sorta di controllo monopolistico sul settore, giustificato da alcune garanzie fornite dalla professione organizzata: pratiche e compiti fondati su basi tecno-scientifiche e razionali, di matrice positivistica, e una assicurazione etica di servizio disinteressato ed altruistico verso i pazienti e la comunità, di matrice paternalistica, grazie alle quali poteva esercitare un’egemonia sulle altre professioni sanitarie, un controllo sul mercato, sui clienti, sulla formazione e inoltre un’influenza significativa sui decision maker pubblici.

Con la prima riforma sanitaria del 1978 la società, tramite gli organismi del Servizio Sanitario Nazionale, si riprendeva una parte del “potere” delegato alla medicina, controbilanciando con l’influenza della politica nelle USSL il “dominio” della professione. Da allora si è aperta una lunga fase di riequilibrio dei rapporti di forza tra i tre poteri, nel segno del progressivo declino dell’autonomia clinica e dell’autorevolezza professionale, fatta di crescenti interferenze e controlli esterni sull’attività. Ma è con la seconda riforma sanitaria del 1992 che viene inferto il colpo più rilevante alla dominanza, con l’aziendalizzazione e soprattutto con la managerializzazione del servizio sanitario, specie ospedaliero. Anche perché nel frattempo il terzo attore, ovvero il sistema industriale, era balzato in primo piano con un’espansione incontrollata dell’offerta che aveva messo in discussione i fragili equilibri finanziari del wellfare pubblico.

Così la forzatura manageriale trovava la strada spianata per mettere sotto tutela sia l’eccessiva espansione della medicina sia quella sinergica dell’apparato industriale, con una burocratizzazione e standardizzazione delle procedure e delle prestazioni mediate dagli agenti professionali mai attuata in precedenza. Gli interventi della prima CUF ne sono l’esempio emblematico: la riclassificazione del prontuario terapeutico attuata nel 1994 inaugurava la stagione dei vincoli prescrittivi, a base di Note e Piani Terapeutici, prolungata con alterne vicende fino ai nostri giorni, ed espressione del controllo burocratico sulle decisioni mediche, seppur supportato scientificamente dall’appropriatezza EBM. Bisogna considerare che in precedenza il mercato farmaceutico coincideva con il prontuario terapeutico del SSN per cui ogni nuovo prodotto messo in commercio diveniva automaticamente anche “mutuabile”.

Dalla seconda alla terza riforma e gli effetti della managerializzazione

Ben presto emergevano però i problemi di applicazione delle Note, con contraccolpi sulle relazioni tra I, II livello e assistiti, correlati alla “discrezionalità” di alcune prescrizioni, specie da parte degli specialisti, effetti che si riverberavano soprattutto sul generalista. L'effetto perturbante delle Note non è dovuto tanto al loro contenuto "tecnico", ovvero ai criteri inseriti nel dispositivo vincolante per il professionista, ma al loro impatto sul sistema di relazione del network sociosanitario, i cui attori interpretano a diverso titolo e in modo difforme la Nota.

La riforma Bindi ter del 1999 tentava di porre rimedio alle tensioni generate dalle note, introducendo il cosiddetto obbligo di appropriatezza per tutti i professionisti del SSN, ma con scarsi effetti pratici. Il tentativo di regolamentazione veniva reiterato dopo una quindicina di anni con i LEA per l’appropriatezza delle prestazioni diagnostiche e specialistiche, ma con analoghi risultati deludenti.

A fare le spese della razionalizzazione burocratica e dei controlli esterni, in termini di conseguenze sulla relazione con pazienti sempre più informati ed esigenti per un diffuso consumerismo, erano paradossalmente i medici convenzionati, che in teoria godevano di margini di manovra più ampi in quanto lavoratori autonomi rispetto ai colleghi subordinati. Le Note terapeutiche e diagnostiche avevano un impatto destabilizzante sulla relazione di cura, in dissonanza con la retorica prevalente che prescriveva ai medici di promuovere empatia, autonomia, empowerment, ascolto e partnership del paziente, olismo e integrazione in un sistema sostanzialmente dis-integrato per il disallineamento tra le regole ospedaliere e quelle vigenti sul territorio.

A questi ideali faceva da contrappeso il New Public Management nel tentativo di trasferire le logiche del libero mercato all’area sanitaria pubblica, a base di managed care e competition, libertà di scelta, sovranità del cliente, concorrenza amministrata, consumerismo e quasi mercato, accountability, separazione tra erogatori e acquirenti di prestazioni, come nel modello lombardo di SSR.

La promozione retorica dell’empowerment e della personalizzazione delle cure si scontrava con la standardizzazione tecnocratica iscritta nella deriva manageriale, mediata dall’imposizione di decisioni diagnostico-terapeutiche predeterminate e procedure routinarie verso tutti i pazienti, a prescindere dalla loro complessità, varietà e unicità, in nome della razionalizzazione delle cure. La burocratizzazione degli standard clinici presupponeva un ruolo di passivo esecutore del MMG in una cornice di compiti impiegatizi ed amministrativi delegati al territorio, in misura complementare alla proletarizzazione del medico salariato, incaricato di indurre la domanda e attivare la “catena di montaggio” per la mercificazione della salute a beneficio dei profitti delle grandi organizzazioni sanitarie private.

La medicina del territorio veniva stretta in una rigida tenaglia: da un lato le pressioni del paziente, grazie all’uso “ricattatorio” della revoca per ridurre a miti consigli il medico recalcitrante a soddisfarne i desiderata, e dall’altro la pressione del controllo burocratico-manageriale a base di budget, medie prescrittive, centri di costo, controlli contabili, protocolli, linee guida, report di spesa etc.. Con un declino della dominanza proporzionale alla stretta della morsa.

L'impatto della pandemia e la proposta di dipendenza

La pandemia ha assestato un ulteriore colpo all’autonomia di una medicina territoriale abbandonata a sè stessa nella maggioranza delle regioni - come nell’epicentro lombardo - ma ritenuta responsabile in prima persona dell’inefficace risposta organizzativa, a dispetto di una vacanza contrattuale ultradecennale e di una riforma Balduzzi rimasta inattuata. Anche il mercato sembrava messo da parte dal massiccio intervento pubblico durante la pandemia, moltiplicatore del deficit sanitario per fronteggiare l’emergenza tanto quanto impegnato a tagliare i finanziamenti negli anni precedenti.

Solo in apparenza però, perché gli imponenti stanziamenti pubblici sono andati alla socializzazione delle cure ospedaliere e soprattutto all’immunizzazione di massa, che ha incrementato gli utili delle grandi major farmaceutiche e del settore medicale in genere. Mentre sul versante delle prestazioni il mercato privato si è fatto avanti per colmare il gap tra domanda e offerta pubblica, alle prese con liste d’attesa infinite, effetto queste ultime del blocco delle prestazioni diagnostiche e specialistiche per fronteggiare a livello ospedaliero l’emergenza Covid-19, con una privatizzazione di fatto in settori chiave come la chirurgia e l’assistenza ai cronici.

Così la crisi pandemica è stata l’occasione per spingere in cima all’agenda pubblica il passaggio alla dipendenza dei medici convenzionati come soluzione dei problemi emergenti, complice un revival del centralismo statale nel coordinamento regionale della crisi e sull’onda di una campagna mediatica denigratoria verso la categoria, focalizzata sulla denuncia dei medici fannulloni, libero-professionisti estranei al SSN, inadatti ad arginare il covid per via di sole 15 ore di attività ambulatoriale, latitanti al telefono e spesso anche nell’assistenza ai cronici.

In questo contesto il passaggio alla dipendenza si configura come ultimo atto della progressiva erosione di una dominanza professionale peraltro debole, ma per alcuni ancora impregnata di corporativismo, di cui restano poche tracce sul territorio, come dimostra il percorso evolutivo sopra schematizzato. Il passaggio alla dipendenza segnerebbe il venire meno della residua autonomia organizzativa e professionale dei convenzionati, ormai confinata nella gestione del proprio studio e delle modalità di contatto e relazione con l’ambiente.

Le criticità della transizione

Infine la pandemia ha peggiorato la conflittualità latente tra MMG e pazienti sfiduciati, incerti e non raramente incattiviti, specie quelli dell’area no vax, fino all’intimidazione legale. In questo contesto la produzione di nuove Note AIFA corredate da Piani Terapeutici di dubbia utilità, nel pieno della peggiore ondata della peggiore pandemico dell’ultimo secolo, ha avuto un impatto perturbante su una categoria già nel mirino dei media, desiderosi di additare alla riprovazione pubblica i peones dell’assistenza primaria, oppressi da una burocrazia deprofessionalizzante ma colpevoli delle carenze nella gestione pandemica. Per giunta nel biennio pandemico sono proliferate le piattaforme informatiche a silos, monadi di una burocrazia elettronica che non scambia informazione e moltiplica le stesse procedure.

La componente giovanile e femminile della categoria, e i colleghi nei contesti più esposti alle tensioni con i pazienti, si sono dimostrati interessati allo scambio proposto dall’operazione dipendenza: in cambio del rapporto di subordinazione sarebbero state garantite maggiori tutele lavorative e previdenziali (malattia, ferie, gravidanza, assicurazioni etc..) e il disinnesco del ricatto della revoca, spada di Damocle brandita da pazienti ingovernabili, pretenziosi e conflittuali fino alla vera aggressività verbale o fisica.

In periodo di vacche grasse la transizione dall’autonomia al rapporto di subordinazione, sebbene di complessa attuazione, era proponibile. Ma con i chiari di luna per un debito pubblico al 150% del Pil lo scambio è a rischio di insostenibilità finanziaria, criticità normative, compatibilità logistico-organizzative, incertezza sugli esiti e possibili effetti collaterali. Da qui il braccio di ferro irrisolto tra regioni paladine della dipendenza e ministro propugnatore di un’evoluzione normativa incrementale rispetto allo status quo convenzionale, come la proposta di ACN delle 38 ore, peraltro di implementazione non certo più agevole.

Comunque il combinato disposto di questi incertezze sta già destabilizzando gli equilibri dei servizi territoriali per due fenomeni sinergici: da un lato il pensionamento anticipato degli ultra sessantenni, per il deteriorarsi delle condizioni di lavoro e per le incerte prospettive del futuro e, dall’altro, lo scarso appeal della professione sui neolaureati che potrebbero accedere al corso di formazione specifica in MG con una borsa di misera entità. Con il risultato pratico che i posti vacanti, lasciati liberi dai pensionati, vengono occupati solo in parte dai giovani privando milioni di cittadini dell’assistenza primaria.

In conclusione la dipendenza segnerebbe la revoca definitiva del mandato ricevuto a suo tempo e l’ultimo atto della parabola declinante di una “dominanza medica” quanto mai debole sul territorio e arrivata al capolinea del  suo ciclo storico, all’insegna della burocratizzazione e della deprofessionalizzazione, all’origine di un malessere comune a convenzionati e dipendenti nella frustrazione, nel risentimento e nello scoramento emerso con la defezione di massa dalla sanità pubblica.

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