Si avvicina capodanno ed è tempo dei bilanci che, con la lenta “normalizzazione” del covd-19, possono abbracciare il triennio orribile 2020-2022. Il dibattito pubblico sulla medicina del territorio durante la pandemia ha avuto tre fasi.
Nel pieno della tempesta perfetta del 2020 sono stati encomiati gli eroi della resistenza al covid-19, se non altro perché un centinaio di loro erano caduti sul campo di battaglia nelle prime due ondate.
L’anno successivo i sopravvissuti sono finiti sul banco degli imputati, come ha osservato Antonio Panti, facendo leva su una rodata stigmatizzazione sociale: “da eroi a capri espiatori il passo è più breve di quanto sembri”. Archiviato l’encomio è andata in onda la campagna pubblica di biasimo verso gli (immaginari) libero-professionisti dai lauti guadagni, fannulloni che lavorano quindici ore e non rispondono al telefono, frutto di pregiudizi e vari bias cognitivi coltivati dai presunti esperti.
A dispetto di un profilo professionale così appetibile sul territorio "abbandonato" - come titolava la lettera di denuncia dei colleghi di Codogno nel marzo 2020 - si ampliava la voragine tra uscita pensionistica anticipata di massa ed entrata in campo di nuove leve, per cui milioni di italiani restano privi di assistenza. Com'è possibile che con tutti questi privilegi in alcune regioni non vengono assegnate tutte le borse del Corso o che una parte dei "diplomati" rinunci alla professione? I dubbio però non sfiora gli accigliati censori dei libero-professionisti di base...
Nella
terza fase sono state avanzate due soluzioni per risollevare le sorti della
categoria in occasione del varo del PNRR: il passaggio dei convenzionati alla
dipendenza pubblica e la trasformazione della Corso regionale di Formazione
Specifica in una specializzazione universitaria. Si tratta dell'ennesima invocazione del mantra che da anni ormai è il leit motif del dibattito pubblico: servono le (ennesime) salvifiche riforme! Che fine hanno fatto queste proposte?
La prima ipotesi, sponsorizzata da una composita lobby politico-sindacale, è tramontata per il combinato disposto tra contraccolpi finanziari pandemici e bellici, da un lato, che hanno prosciugano il fondo sanitario 2023-2025, e dall’altro per la fragilità di un progetto non supportato da un credibile studio di fattibilità economico-finanziaria, nel contesto di un Missione 6C1 di per sé ampiamente sottofinanziata.
E’ quindi rimasta in piedi solo la seconda opzione, accettata obtorto collo anche dai sindacati, accusati di cattiva gestione del Corso regionale, ai quali sarebbe stato impropriamente “appaltato”. Ma qual'è il quadro normativo che ispira il CFSMG? Come dovrebbe essere riconvertito in specializzazione accademica, ritenuta la panacea dei mali del territorio?
Per rispondere a queste domande bisogna risalire alle fonti normative della Formazione Specifica in MG risalente alla direttiva comunitaria 457 del lontano 1986, avente 2 finalità: consentire la libera circolazione dei medici previo reciproco riconoscimento tra gli stati membri dei diplomi comprovanti la formazione in MG conseguita, una volta allineata ai criteri “minimi” introdotti dalla Direttiva stessa.
Curiosamente la Direttiva non fa riferimento alla necessità di una specializzazione universitaria, sebbene non la impedisca, ma sottolinea alcune condizioni che sembrano implicitamente escludere la soluzione accademica: la secondo la direttiva la formazione in MG, della durata minima di 2 anni, deve "essere più pratica che teorica" da svolgersi in forma di tirocinio per 6 mesi presso "centri ospedalieri abilitati" e presso un "ambulatorio di medicina generale" o "in contatto con altri istituti o strutture sanitarie che si occupano di MG", senza indicazioni circa il contesto formativo universitario.
Ma c’è di più: alcune premesse agli articoli della direttiva tracciano un quadro generale e gli obiettivi della formazione specifica in MG che ha poco a che fare con l’insegnamento accademico. Ecco i passaggi principali, che sorprendono per l’attualità in rapporto al dibattito odierno:
· lo sviluppo delle scienze mediche ha prodotto un divario sempre più ampio tra l'insegnamento e la ricerca medica da un lato e la pratica della medicina generale dall'altro, al punto che importanti aspetti della medicina generale non possono più essere insegnati in modo soddisfacente nel quadro della formazione medica di base esistente negli Stati membri;
· a prescindere dal vantaggio che ne trarranno i pazienti, si riconosce altresì che un migliore adattamento del medico generico alla sua funzione specifica contribuirà a migliorare il sistema di dispensazione delle cure rendendo più selettivo il ricorso ai medici specialisti, nonché ai laboratori e ad altri istituti ed attrezzature altamente specializzati;
· poco importa che la formazione in medicina generale venga dispensata o meno nell'ambito della formazione di base del medico ai sensi del diritto nazionale; è opportuno prevedere, in una seconda fase, che l'esercizio delle attività di medico in qualità di medico generico nell'ambito di un regime di sicurezza sociale sia subordinato al possesso della formazione specifica in medicina generale.
Insomma il messaggio è chiaro: il neolaureato, poichè “importanti aspetti della medicina generale non possono più essere insegnati in modo soddisfacente nel quadro della formazione di base”, non è in grado di assolvere ai suoi specifici compiti nel SSN, che abbia ricevuto o meno una formazione in MG nell’ambito della formazione curricolare. Serve invece un ciclo formativo più pratico che teorico, da svolgere dopo il corso di Laurea in centri ospedali e non cliniche universitarie e soprattutto nell’ambulatorio di MG o in analoghe strutture territoriali, ad esempio le future Case ed Ospedali di comunità dal PNRR.
Sorprende che quasi 40 anni or sono nella UE le idee circa una valida formazione dei MMG fossero più chiare e distinte della scontata impostazione “otologica” oggi prevalente, che confida più in una etichetta accademica formale che nell'esperienza formativa di apprendistato socio-cognitivo sul campo.
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