Qualcuno forse ricorda il film “le invasioni barbariche” uscito giusto vent’anni fa. Alcune scene proponevano le impietose condizioni in cui venivano curati alcuni malati ricoverati in un ospedale canadese sovraffollato. Sembravano immagini da “terzo mondo”, come si diceva un tempo, che non si sarebbero mai avverate al di qua dell’atlantico.
Invece da tempo anche le cronache sanitarie documentano disagi simili nei nostri PS. Nello stesso anno il sociologo sanitario Guido Giarelli dava alle stampe un testo di “diagnosi” delle sfide epocali all’origine del “malessere della medicina”, così schematizzabili:
1. la sfida inflattiva dei costi crescenti, a fronte dei rendimenti via via marginalmente decrescenti in termini di risultati clinici sul lungo periodo;
2. la sfida dell’iper-specificità tecno-specialistica, che si accompagna al rischio di insoddisfazione relazionale tra medico e paziente e di effetti iatrogeni;
3. la sfida consumistica che si concretizza nella proposta mercantile di una una sanità modello supermarket, in direzione di una strisciante privatizzazione;
4. la sfida epidemiologica della cronicità che ha fatto emergere i limiti dei sistemi sanitari pubblici nella gestione delle polipatologie degenerative e della fragilità.
Come se non bastasse a questa impegnativa lista, che evoca la mission impossible, ne andrebbe aggiunta una quinta: quella che il bioeticista Daniel Callahan ha analizzato all’inizio del secolo in un libro dal titolo profetico “La medicina impossibile” - versione peraltro edulcorata rispetto al ruvido titolo originale False Hopes – vale a dire l’eccesso di aspettative di efficacia a 360 gradi coltivate dai cittadini, divenuti da pazienti utenti “esigenti”, per l’impatto della definizione di salute del 1948. Per Callahan quel modello di medicina si sarebbe rivelata via vai insostenibile da vari punti di vista.
Lo stato di completo benessere fisico psichico e sociale è diventato nei decenni la pietra di paragone per valutare interventi sanitari, cure, risultati e grado di soddisfazione, con il metro di un’ideale e forse utopica condizione. In quella fase storica, contrassegnata da aspettative crescenti verso una salute/benessere totale per tutti, è cresciuta la generazione dei baby boomer, ora approdata alla pensione in un clima sociale di aspettative decrescenti. Tuttavia per i pensionati boomer gli standard sanitari attesi per la soddisfazione dei propri bisogni restano quelli delle precedenti aspettative, venute al pettine con la crisi endemica dello stato sociale e della spesa pubblica da cui traeva le risorse.
Eccoci quindi alle prese con la “medicina impossibile” di Callahan, alimentata dal desiderio di potenziamento delle prestazioni psico-fisiche e mentali di esigenti allergici ad imperfezioni e limiti; il sistema deve fare i conti con l’insostenibilità descritta dagli economisti ed evocata dalla sindrome di Sisifo, che si rifà all’eroe greco a cui gli Dei ordinano di spingere un masso in cima alla montagna che però alla sommità gli sfugge, rotola a valle e costringe Sisifo a ricominciare tutto daccapo. Qualcosa di simile accade anche all’assistenza sanitaria, nel senso che la spesa genera nuovi bisogni che a loro volta fanno aumentare ulteriormente la spesa per un circolo che si automantiene in loop sistemico vizioso, per le ristrettezze del bilancio pubblico, o virtuoso per le aspettative crescenti degli azionisti delle major del settore.
Alla classe politica, sotto la spinta delle richieste degli elettori, non resta che fare buon viso a cattivo gioco destinando maggiori risorse al sistema sanitario; se gli interventi sono efficaci aumenta la sopravvivenza e il numero dei malati cronici, che fanno lievitare ulteriormente la domanda. Nei paesi in cui l’assistenza sanitaria è di tipo assicurativo ai cittadini non resta che destinare un’ulteriore quota di reddito alla copertura delle polizze o, in caso contrario, accettare una riduzione delle prestazioni. Ma che succede nei paesi con un servizio sanitario pubblico e universalistico?
Il guaio è che il sistema politico continua a proporsi come garante delle aspettative crescenti, in sintonia con l’apparato industriale-professionale, mentre la realtà propone crescenti gap
· tra bisogni percepiti e concrete possibilità di soddisfarli
· tra medicalizzazione che spinge la domanda e offerta “razionata” di prestazioni
· tra risorse necessarie e budget pubblici limitati
· tra fabbisogno di operatori sanitari e carenza sul mercato del lavoro
Riuscirà l’ennesima riforma sanitaria – la quinta se non erro – a risolvere tutti i nodi problematici? Per sciogliere questa matassa gordiana bisognerebbe richiamare in azione il protagonista della leggendaria soluzione tranchant. Tuttavia dato che “la democrazia non abita a Gordio”, come titolava un limpido libretto di Luigi Bobbio, difficilmente gli intricati nodi che stringono la sanità pubblica saranno districati dall’ennesima riforma, unanimemente invocata a mo’ di panacea. In quanto a virtù salvifiche delle riforme in Lombardia siamo reduci da un lustro di cambiamenti, esordito e chiuso con altrettante revisioni del SSR, costati periodi di incerta transizione, per non parlare degli improvvidi esiti del quasi mercato nella gestione della cronicità sul territorio.
Proviamo invece ad immaginare in quali condizioni sarebbe oggi la medicina territoriale se, all’indomani del varo della legge Balduzzi nel 2012, fosse stato subito firmato un ACN di recepimento della riforma, se tutte le regioni avessero avviato un piano quinquennale di ristrutturazione della rete sociosanitaria, come previsto negli anni precedenti, e se le forme associative della MG fossero state finanziate ed implementate in modo capillare e non con un decennio di ritardo. Sul banco d’accusa è la deformazione in senso giuridico-formale della pubblica amministrazione che disegna sulla carta un bellissimo progetto ma si dimentica di trovare le risorse necessarie, di dettare il cronoprogramma attuativo e di verificare le tappe della realizzazione.
È
ciò che dovrebbe accadere invece da qui al 2026 grazie al
PNRR, che peraltro sconta all’avvio incognite e rischi di
insuccesso per il gap tra programma e complessità delle
procedure e dei vincoli comunitari e nazionali. Insomma la
Missione 6 C1 promette di attuare dopo un decennio e con i
fatti l’incompiuta legge Balduzzi: l’ennesima riforma
sanitaria elaborata a tavolino, magari senza adeguate risorse
e tappe predefinite, potrebbe garantire esiti meno aleatori?
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