Dopo lunghe discussioni sui tempi dell’attuazione del PNRR, con il rinvio di 30 giorni della rendicontazione di marzo per incassare la relativa tranche, si è arrivati alla decisione di chiedere una pausa fino ad agosto per rimodulare il piano, rinunciando ad alcuni interventi per concentrare gli sforzi sugli obiettivi alla portata.
I problemi nell’utilizzo dei fondi comunitari non sono una novità e sono stati paradossalmente aggravati dall’imponente entità delle risorse stanziate. La missione 6C1 sconta per ora ritardi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare, la telemedicina e le Centrali Operative Territoriali, come ha certificato la Corte dei Conti.
I primi dati sullo stato di avanzamento della rete di Case ed Ospedali di Comunità non sono confortanti; a fine 2022 risultano complessivamente attive
- 8,5% case della comunità POR (finanziate dal Pnrr);
- 11,6% di quelle EXTRA POR (finanziate con altri fondi);
- 2,3% centrali operative territoriali attive POR e 25% centrali operative territoriali Extra POR;
- 7,1% ospedali di comunità POR attivi e 27,8% ospedali di comunità Extra POR.
Davvero poco, anche se bisogna tener conto che il percorso è iniziato nel 2022 e non mancano altri ostacoli strutturali. Secondo gli economisti milanesi Boeri e Perotti “si è voluto portare a casa più soldi possibili per porsi il problema di come spenderli” mentre sarebbe stato più conveniente l’operazione inversa, ovvero definire “le nostre esigenze e le nostre priorità, le nostre capacità di realizzare e decidere di conseguenza quanto prendere a prestito”. Per usare la nota metafora è stato posto il carro davanti ai buoi e dopo averlo stipato al massimo se è realizzato che forse i bovini non sono in grado di trasportare tutto quel peso alla meta e quindi non resta che ridurre il carico.
Con lo stesso criterio sono state distribuite le risorse per le case della comunità (CdC); lo stanziamento iniziale di 4 miliardi è stato dimezzato proprio per privilegiare l’assistenza domiciliare ora in difficoltà. Con il risultato di finanziare solo “mega" Case da 45mila abitanti per tutti i territori, invece che una rete Hub&Spoke più adeguata alla diversificazione geo-demografica locale, riproponendo il modello del poliambulatorio INAM senza una reale connessione con la comunità ed adeguati spazi per i professionisti sanitari.
Alcune regioni sono corse ai ripari finanziando di tasca proprio ulteriori CdC incrementandone il numero complessivo da 1350 a circa 1430. Tuttavia secondo una stima indipendente ne servirebbero più del doppio per un appropriato network composta da 1/3 di Hub e 2/3 di Spoke. Non è superfluo ricordare che le iniziali risorse stanziate nella prima versione del PNRR potevano garantire questa configurazione.
Il sottofinanziamento delle CdC non è un caso isolato: nell’ultimo decennio sono stati deliberati progetti sulla carta adeguati ma senza le relative risorse, come la riforma Balduzzi del 2012 rimasta nel limbo per un decennio prima che l'ACN 2016-218, entrato in vigore a metà 2022, recepisse le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), forme organizzative a costo zero dell’assistenza primaria. Così una buona riforma è stata applicata con grande ritardo per mancanza di un cronoprogramma di implementazione a tappe, come quello dettato dalla UE per l’erogazione dei fondi del PNRR. Peraltro anche l’altra forma organizzativa della Balduzzi, le Unità Complesse delle Cure Primarie, è stata recepita solo formalmente senza un adeguato progetto e piano finanziario.
Come si potrebbe presentare oggi
l’assistenza primaria se a suo tempo un ACN avesse subito
attivato le aggregazioni previste e se contestualmente le
regioni avessero attuato
un programma decennale di ristrutturazione della rete
sociosanitaria a tipo
Hub&Spoke? È il percorso che dovrebbe seguire
il PNRR entro il 2026, concretizzando l’incompiuta legge
Balduzzi;
tuttavia la distanza tra "mega" CdC e studi dei MMG
difficilmente verrà colmato
dalla Missione 6C1, a differenza delle AFT e soprattutto delle
UCCP, naturali candidate
al ruolo di presidi Spoke rispetto agli Hub da 45mila
abitanti, a garanzia di prossimità nelle aree
disagiate della collina e della montagna come nel modello di case della salute emiliano-romagnole diffuse capillarmente in tutta la regione. Nel frattempo i mega Hub sono diventati occasione di dispute campanilistiche, potenziali centri di potere e di consenso politico locale, proiezione sul territorio di logiche burocratiche di stampo ospedaliero, lontane dalla dimensione familiare, informale e flessibile com'è quella territoriale.
Dopo l’insediamento
del Governo
Meloni il viceministro Gemmato ha ripetutamente messo in
discussione queste
scelte ma a distanza di 6 mesi non si intravvedono correzioni
a quella che
appare la principale criticità della Missione 6. Aggravata dal
fatto che dopo
quel fatidico 24 febbraio è cambiata l’economia, la
geopolitica, l’orizzonte
strategico, con una diffusa carenza di operatori sanitari sul
territorio che mette a rischio la piena funzionalità degli
Hub.
Ancora recentemente l’onorevole Gemmato ha dichiarato in proposito: “una critica è la parametrazione: una ogni 45mila, non è sanità territoriale”. Per rimediare servirebbe una revisione delle priorità del PNRR, ad esempio stornando sulle CdC i 2 miliardi dirottati verso l'assistenza domiciliare, con 2 obiettivi: trovare una collocazzione per gli operatori sanitari nelle UCCP/Spoke e coprire l’aumento dei costi, a fronte della stabilità di quelli per l’assistenza domiciliare, peraltro oggi a rischio.
Nella rimodulazione del PNRR esistono i margini per una manovra simile? Temo di no: purtroppo ci stiamo avviando verso l'ennesima occasione mancata.
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