Mi tocca per l'ennesima volta rispondere ai rilievi del dott. Polillo alla mia lettera del 26 luglio apparsa sul Quotidiano Sanità; il collega utilizza toni di insolita e insistente personalizzazione del dibattito, che eviterò accuratamente preferendo il confronto dialettico delle idee e delle opinioni, consapevole dello scarso interesse delle polemiche ad personam e non di rado di difficile comprensione per il lettore, che non ha tempo ne voglia di sorbirsi le missive precedenti.
La mia lettera aveva per oggetto, esplicitato nell'esordio, le sole inchieste
giornalistiche che negli ultimi anni hanno gettato discredito sul MMG, e non aveva nulla a che fare con il dibattito in corso da mesi sul QS circa la riforma della MG e men che meno con riserve circa la richiesta di maggiore dignità e tutele normativa per i professionisti del
territorio, anche economiche ovviamente. Per evitare fraintendimenti e fare chiarezza devo nuovamente precisare
che mi riferivo, ad esempio, ai ripetuti articoli dedicati ai “medici
fannulloni” o ad opinioni più articolate, ma non meno impattanti sull’opinione
pubblica, come quelle espresse da un autorevole professore su un quotidiano
nazionale: "Non molto più aderente al diritto alla salute è la medicina
del territorio. Pur riconoscendo molte eccezioni meritevoli, soprattutto in
epoca Covid, i medici di medicina generale è raro che eseguano visite a domicilio,
anche per paura di infettarsi. Spesso è anche difficile accedere agli
ambulatori che sono aperti per poche ore alla settimana, per cui si assiste a
un intasamento dei PS dove le attese sono lunghe e si danneggia così il diritto
alla salute di chi ha veramente urgenza di intervento."
Si tratta con evidenza di accuse esplicite per dirette e pesanti
responsabilità morali e giuridiche di un’intera categoria, dalle gravi conseguenze
negative sul piano organizzativo, che sollecitano provvedimenti risolutivi,
come la proposta di passaggio alla dipendenza contenute nel seguito dell'intervento, di vago sapore sanzionatorio.
Bando ad effimere polemiche ad personam e veniamo al più importante e produttivo confronto delle idee e delle analisi
sui fatti, come lo scarso appeal del lavoro sul territorio. La crisi della MG è
di vecchia data ed si è aggravata per il crescente disallineamento tra
organizzazione ospedaliera ed assistenza primaria, che si manifesta in diversi
ambiti così schematizzabili:
·
Clinico ed epidemiologico: tra approccio tecnologico ed
interventista in situazioni di crisi o eventi acuti versus accompagnamento
lungo il ciclo di vita biologico, familiare e sociale, contrappuntato dalle
patologie croniche;
·
Organizzativo: accesso selettivo al “nucleo tecnico” ospedaliero,
di matrice fordista, versus accessibilità alla rete territoriale di prossimità
al mondo della vita;
· Normativo: rapporto di lavoro subordinato con il SSN versus lavoro
autonomo parasubordinato, coordinato e continuativo, basato su fiducia,
continuità relazionale e scelta/revoca del cittadino;
· Culturale: visione specialistica centrata sulla malattia d’organo/apparato
e sulla logica prestazionale manageriale versus approccio multidimensionale
bio-psico-sociale e culturale, per la presa in carico informale della persona, la
prevenzione e la cura dei fattori rischio o di patologie conclamate, fino
all’invalidità e alla fragilità.
La rete sociosanitaria orizzontale, frammentata in nodi autonomi,
si è via via allontanata dal modello aziendale ospedaliero, che ancora forgia l’identità
professionale, la formazione e le pratiche di prevalente stampo specialistico
che non riconoscono la specificità del territorio. Tale disallineamento
culturale, di schemi valutativi e decisionali induce tensioni per la discrasia
tra regole e norme prescrittive a livello del triangolo relazionale generalista-paziente-specialista,
specie se quest’ultimo opera nel mercato libero-professionale; il MMG si è così trovato nell'incomodo ruolo di parafulmine su cui convergono
e si concentrano nel tempo e nello spazio contraddizioni, perturbazioni
relazionali e vincoli sistemici – secondi per intensità solo a quelli che affliggono
il PS – per il gap tra domanda ed offerta di cui fanno le spese utenti e medici,
in termini di disagi, incomprensioni, stress, accanimento burocratico, equivoci con il II
livello, aspettative irrealistiche e richieste di prestazioni escluse dalla
medicina amministrata.
Nella fase post pandemica la transizione antropologica e sociale dal paziente obbediente e deferente all’esigente consapevole e protagonista, descritta con preveggenza dal professor Cavicchi all’inizio del secolo, è arrivata al culmine con lo sfilacciamento di una relazione un tempo sotto il segno dell’alleanza ed ora all’origine di conflitti e tensioni tra medico e paziente; si è creato un clima emotivo in cui quest'ultimo vede nel generalista un ostacolo alla realizzazione dei suoi desiderata e un detestato rappresentante di uno stato nemico e tirchio, da spremere per i propri comodi. Da questo contesto culturale e relazionale deriva il profondo disagio del professionista stretto tra la medicina amministrata e burocratizzata, da un lato, e le pressioni di “esigenti” pretenziosi e non di rado rivendicativi, dall’altro, pronti alla revoca per futili motivi al primo diniego.
Certo lo spostamento del baricentro relazionale
dalla “dipendenza” dal paziente/esigente verso l’organizzazione gerarchica aziendale,
garantita dal rapporto di subordinazione, potrà disinnescare il ricatto della
revoca e migliorare le tutele ma dubito che possa automaticamente indurre quel
cambiamento culturale e sociale necessario per restituire dignità e autorevolezza
ai paria del territorio. Anzi osservando quanto accade quotidianamente in PS ai
dipendenti, assediati e spesso oggetto di aggressioni non solo verbali, non è affatto
detto che sia la panacea di tutti i mali e garanzia di serenità e soddisfazioni
professionali, se contestualmente non si allenterà la morsa della medicina
amministrata e della deriva mercantile. Non è un caso che un certo numero di dipendenti ed emergentisti in uscita si rifugino nel lavoro sul territorio, idealizzato come approdo sicuro e tranquillo. Vedremo se sul lungo periodo queste attese saranno realizzate.
Può la dipendenza risolvere questi nodi organizzativi e sociorelazionali, micro e macro, riallineare ospedale e territorio senza tradire la specifica mission della MG e minare la continuità assistenziale? Non si rischia di irrigidire l’assistenza primaria con ulteriore burocrazia, riducendo la discrezionalità necessaria per far fronte ad un’ampia varietà di contesti e di bisogni, latori di altrettanta incertezza? Si può governare una rete territoriale composta da nodi autonomi e interdipendenti e con approcci multi-disciplinari con gli strumenti dell’apparato gerarchico tecno-burocratico di stampo centralista?
L’obiettivo di “integrare un sapere specialistico con uno di
tipo olistico che considera le persone nella loro globalità” è possibile solo
se “le professioni implicate si relazionano sulla base di una reciproca
legittimazione”, mentre se dovesse prevalere una “colonizzazione del territorio
con la stessa cultura di governo utilizzata nella gestione dei sistemi
ospedalieri” (Bertin) anche la riforma della MG sarà a rischio, sia con il
passaggio alla dipendenza sia con il mantenimento del rapporto convenzionale
(mi scuso per la citazione).
La rete territoriale può essere gestita solo da una governance che coinvolga gli attori interconnessi al network sociosanitario, composto da professionisti di diversa estrazione, cultura, status giuridico, comunità di riferimento, istituzione etc. e da soggetti non professionali. Il passaggio alla dipendenza farebbe regredire la gestione ad una forma di government verticale, top down e di tipo istruttivo poco adatta al contesto turbolento della rete territoriale orizzontale e sostanzialmente agerarchica. Al contrario il modello più adatto a supportare lo sviluppo professionale e la verifica della qualità è quello della New Public Governance, di tipo interattivo o auto-regolato, ad esempio con una formazione centrata sul peer-audit.
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