lunedì 21 marzo 2016

Pedagogia medica, bisogna fare "più meglio"!

La Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPEM) ha pubblicato le 5 principali pratiche a rischio di inappropriatezza che dovrebbero essere abbandonate nella formazione e nella valutazione delle professioni mediche. L'iniziativa rientra nel progetto "Fare di più non significa fare meglio" promosso da Slow Medicine (da ora SM: http://www.slowmedicine.it/pdf/Pratiche/Scheda%20SIPEM%20.pdf ).

Ecco in sintesi le raccomandazioni dei pedagogisti medici:
·Non usare la lezione frontale non interattiva come strumento didattico principale. Privilegiare invece modalità interattive.
·Non trattare argomenti di clinica o organizzazione senza considerarne anche le implicazioni etiche, sociali, economiche, inter-professionali, le aspettative ed i valori dei pazienti
·Non utilizzare l'esame orale non strutturato e non valutare le abilità pratiche unicamente con strumenti di tipo cognitivo
·Non far apprendere le procedure direttamente sul paziente senza preparazione inappropriato modello di simulazione
·Non utilizzare unicamente test di tipo cognitivo ed a prevalente indirizzo biologico per la selezione all'accesso ai corsi di laurea o specializzazione.

Si tratta di affermazioni forti che configurano una sorta di rivoluzione pedagogica per gli standard del nostro paese e, in quanto tale, piuttosto difficile da attuare in tempi brevi e senza scontare l'opposizione di una parte dagli addetti ai lavori. I suggerimenti degli esperti di pedagogia medica, contrariamente allo spirito astensionista dell'iniziativa (fare di più non significa fare meglio), comportano un cambiamento qualitativo e soprattutto quantitativo, all'insegna del fare di più e del fare meglio. Ad esempio la classica alternativa alla lezione frontale, vale a dire l'apprendimento interattivo in piccolo gruppo basato sui problemi (PBL, problem based learning) comporta per il docente un surplus di impegno didattico e di tempo, e non certo un “fare di meno”, come suggerisce implicitamente lo slogan di SM. Insomma per mettere in pratica le raccomandazioni della SIPeM in positivo si dovrà insegnare “più meglio”, come dicono i bambini.

Inoltre sorprende l'insistenza con cui la SIPeM squalifica la componente cognitiva dell'insegnamento e della valutazione, senza tuttavia precisare l'alternativa pedagocica, che è un po' il limite di simili prese di posizione. Evidentemente la pedagogia medica stà un po' stretta nella cornice metodologica “destruens” dell'iniziativa di SM, che prevede solo l'indicazione di pratiche cliniche inappropriate da abbandonare e non la fase “costruens” di alternative appropriate. La lezione frontale è emblematica dei limiti dell'approccio cognitivo, individualistico, mentalistico e decontestualizzato all'insegnamento, che presuppone il passaggio di nozioni, informazioni e concetti dal docente alla mente del discente, considerato come un passivo ricettore delle medesime. Il sapere teorico ed astratto dal contesto viene trasferito nella lezione frontale da una fonte esperta (insegnante, testo, computer etc..) al discente, al quale spetta quindi il semplice compito di applicarlo “tecnicamente” nel proprio lavoro per risolvere i problemi ed agire con competenza professionale.

Nella realtà invece l'apprendimento efficace e la competenza esperta sono sempre situate, vale a dire mediate e contestualizzate in relazione
  • alla dimensione spazio-temporale ed epidemiologica della pratica professionale
  • alla routine e alle regole esplicite e implicite che governano l'organizzazione
  • ai vincoli normativi del sistema sanitario, locale e regionale/nazionale
  • alle conoscenze tacite personali e al sapere pratico frutto dell'esperienzia
  • alle risorse tecnologiche del posto di lavoro
  • alla cultura, alla storia e alle relazioni sociali della comunità di appartenenza
Come specifica il contributo della SIPeM “la lezione ex cathedra rimane lo strumento più utilizzato nella formazione medica, dai corsi di laurea alla formazione continua, spesso nella più completa ignoranza dei principi elementari della comunicazione e della gestione d'aula”, ovvero con modalità didattiche “associate a scarsa attenzione da parte della maggior parte dei discenti e scarsa ritenzione dei contenuti”. Oltre a queste motivazioni, squisitamente cognitive, la messa in discussione della lezione frontale poggia sul suo carattere astratto e decontestualizzato rispetto al sapere pratico e alla formazione situata.

Una verifica empirica della modesta efficacia dell'insegnamento teorico si ha durante il tirocinio post-laurea. Basta esercitare il ruolo di tutor valutatore del tirocinio propedeutico all'esame di stato per toccare con mano i limiti dell'insegnamento basato sulla lezione frontale, specie per quanto riguarda la metodologia clinica ed il procedimento diagnostico. Svolgendo la funzione tutoriale si avverte l'importanza del sapere pratico ed esperienziale - rispetto alla dimensione puramente cognitiva - che i neo-laureati hanno l'occasione di "sperimentare" nel mese di frequentazione dello studio. Anche per loro il tirocinio rappresenta un'occasione di apprendimento sul campo non assimilabile al tirocinio ospedaliero svolto al VI anno per il suo carattere situato nel contesto territoriale.

Nell'esperienza del tirocinio si fondono in modo unico, come in un “crogiuolo”, le componenti cognitive, pratiche, tacite, riflessive e sociorelazionali della professione, che sono state oggetto di distinti insegnamenti teorici durante la formazione curricolare, spesso di buona qualità ma in genere tra loro irrelati. In particolare la metodologia clinica dovrebbe avere la funzione di collante delle dimensioni semeiotico-percettiva, inferenziale e decisionale della pratica clinica; purtroppo non sempre nel contesto formativo ospedaliero si realizzano le condizioni perché si concretizzi questo apprendimento interattivo, che riflette inevitabilmente le caratteristiche epidemiologiche delle cure primarie (alta prevalenza di disturbi minori e auto-limitanti, di condizioni croniche e di problematiche piso-sociali etc..). Il tirocinio pre-esame di stato sopperisce a questo deficit in quanto permette al neo-laureato di venire in contatto con la componente di sapere tacito, informale e situato della pratica ambulatoriale, che per sua natura è la parte meno codificabile e trasmissibile del bagaglio professionale, specie se si utilizzano tecniche didattiche tradizionali.

Al momento della valutazione finale il tutor sconta un certo disagio nel giudicare le abilità e competenze del neo-laureato, che dovrebbe essere preminenti rispetto alla valenza formativa che viene impropriamente ad assumere il tirocinio stesso. Il sistema proposto infatti presuppone una valutazione decontestualizzata della competenza acquisita, mentre nella realtà fattuale il tirocinio serve più che altro a colmare le lacune pratiche del neo-laureato, specie per quanto riguarda il procedimento diagnostico nel contesto epidemiologico e relazionale territoriale, tema trascurato a favore della tradizionale semeiotica di tipo ospedaliero. 

Non c'è nulla di più utile dell'esperienza sul campo per attivare processi meta-cognitivi, di apprendimento e riflessione nel corso dell'azione, proposti quotidianamente a 360 gradi dai problemi del contesto ambulatoriale. Così il tirocinio da momento valutativo evolve in occasione di apprendimento compensativo della formazione di base, per via dei limiti di una formazione prettamente “cognitiva”, messa all'indice dai pedagogisti medici nella lista "nera" stilata per "Fare di più non significa fare meglio". Come afferma la psicologa sociale Zucchermaglio è "necessario ridare centralità alle pratiche reali con cui le persone imparano e lavorano nei contesti lavorativi e di vita quotidiana e superare una visione razionalista, individualistica ed empiristica dell'apprendimento e della conoscenza".

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