sabato 7 gennaio 2017

Corsi e ricorsi sanitari, il sovraffollamento del PS durante l'epidemia influenzale

Da almeno una decina di anni a gennaio, in corrispondenza del picco dell'epidemia influenzale, entrano in crisi le strutture ospedaliere che più soffrono per l'effetto "collo di bottiglia": posti di Pronto Soccorso (PS) sovraffollati e reparti di rianimazione con indisponibilità di posti letto. Puntualmente le cronache registrano proteste, malcontento e disagio dei cittadini per le lunghe attese e degli operatori per le difficili condizioni di lavoro che, nelle settimane di passaggio dal 2016 al 2017, si sono accentuati a causa dell'epidemia influenzale e per il concomitante "allarme" sociale correlato ai casi di meningite.

Sulla complessità della crisi del PS sono stati spesi i proverbiali fiumi di inchiostro, ma puntualmente rispunta l'idea di "dare la colpa" al Medico di Medicina Generale (MMG), come già proponeva la dott.ssa Carucci, direttore Ares del Lazio, nel 2014 in una dichiarazione sulla crisi dei PS della capitale: "Il medico di famiglia, dove dovrebbero andare, o non lo trovano o non gli da l'affidabilità necessaria, fatto sta che l'ospedale è molto attrattivo per i pazienti e la medicina territoriale molto meno".

La crisi del PS ha radici lontane, concause profonde e riguarda tutti le nazioni europee ( http://www.pulsetoday.co.uk/news/commissioning/commissioning-topics/emergency-admissions/red-cross-deployed-to-cope-with-nhs-humanitarian-crisis/20033586.article ). Sul PS convergono e si concentrano nel tempo e nello spazio le contraddizioni e i limiti del sistema, di cui fanno le spese per primi gli operatori, in termini di stress, sovraccarico di lavoro e concreto rischio professionale. In pratica medici e paramedici devono fronteggiare quotidianamente una continua emergenza organizzativa nell’ambito dell'emergenza sanitaria. Ecco un sommario elenco dei determinanti della crisi tratto da un documento ministeriale *:
  • un sempre maggior bisogno del cittadino di ottenere dal servizio pubblico una risposta ad esigenze urgenti o comunque percepite come tali;
  • il miglioramento delle cure con aumento della sopravvivenza in pazienti affetti da pluripatologie che con sempre maggior frequenza necessitano dell’intervento del sistema d’emergenza-urgenza;
  • il ruolo di rete di sicurezza rivestito dal Pronto Soccorso per categorie socialmente deboli;
  • la convinzione del cittadino di ottenere un inquadramento clinico terapeutico migliore e in tempi brevi;
  • la preminenza del modello di salute tecnologico centrato sull'Ospedale rispetto al modello preventivo-territoriale centrato sulla Medicina di Base.
 A questi determinanti si devono aggiungere altri nodi problematici, di natura sistemico-organizzativa e psicologico-comportamentale individuale, trascurati dal documento ministeriale vale a dire:
  1. la ristrutturazione della rete ospedaliera, con la chiusura dei piccoli ospedali e la riduzione dei posti letto, che produce il cosiddetto “effetto imbuto” in PS, nel senso che non è possibile ricorrere al ricovero, come accadeva un tempo per il completamento delle indagini diagnostiche e le cure appropriate in caso di pazienti problematici e "fragili" affetti da complicanze influenzali  ( http://www.simeu.it/blog/?p=1743 );
  2. l’aumento dei tempi d’attesa per prestazioni diagnostiche e specialistiche, con conseguente domanda inevasa dall'offerta pubblica sul territorio che, per effetto della legge dei vasi comunicanti, spinge in PS assistiti per poter accedere alle prestazioni diagnostiche prescritte;
  3. le difficoltà del sistema sanitario nel suo complesso, e in particolare del singolo medico del territorio, ad influenzare le decisioni autonome dagli assistiti di recarsi in PS, generalmente in preda all'ansia per la propria salute (i ben noti “codici bianchi”).
Un’ansia generata da un clima sociale di allarme, riguardo ai problemi sanitari e complice l' "allerta" sulla presunta epidemia di meningite, che cerca e trova conforto nella "potenza" e nell'offerta tecnologica dell'istituzione ospedaliera. Laddove la tecnologia diagnostica è offerta in modo pronto, affidabile e "attrattivo" per la gente. Attrattività che si autoalimenta ed induce la propria domanda, indipendentemente dalla volontà del singolo operatore, in un classico circolo vizioso (o virtuoso) organizzativo.

Può capitare, ad esempio, che un assistito decida di recarsi in ospedale piuttosto che frequentare, magari a pochi minuti da casa, l'ambulatorio del medico di famiglia, dove potrebbe essere visitato in tempi brevi, a dispetto delle lunghe attesa in P.S., dovute proprio alla presenza dei "codici bianchi" in eccesso sfuggiti al filtro della Medicina Generale. La risposta alle interpretazioni semplificate sta nel ribadire che è impossibile per il singolo medico del territorio reggere la concorrenza dell’offerta tecnologica dell’emergenza sanitaria. Prima di tutto perchè non è il suo compito, essendo altra la mission della Medicina Generale negli ultimi anni, ovvero la gestione delle patologie croniche sul territorio sia a livello ambulatoriale che domiciliare per gli assistiti fragili o multiproblematici.

In secondo luogo è la disponibilità della tecnologia diagnostica e specialistica a fare la differenza rispetto all'offerta territoriale, attraendo la gente ed inducendo il medico del PS a prescrivere giustamente accertamenti, a prescindere dall'accesso più o meno appropriato dell'assistito. Lo spiega l’economia sanitaria con una delle sue leggi ferree. In sanità vale la regola che l’offerta organizzativa di servizi e prestazioni crea la propria domanda, a prescindere dall'intervento del singolo operatore, come recita un noto aforisma: mettete un ecografo nel deserto dopo qualche settimana si sarà formata una lista d'attesa.

E’ normale e “naturale” che si ricorra alla tecnologia diagnostica quando è prontamente disponibile, sia per venire incontro alla domanda implicita degli utenti sia per motivi clinici, specie se il professionista deve tenere conto di protocolli, linee guida aziendali, aiuti alle decisioni etc.., elaborati proprio per fare fronte a situazioni di incertezza, prevenire il rischio clinico e tutelare gli operatori stessi da eventuali conseguenze medico-legali. L'incertezza decisionale, specie quella diagnostica, si riduce ricercando nuove informazioni - vale a dire ricorrendo ad ulteriori accertamenti diagnostici prontamente disponibili solo nelle strutture ospedaliere - o ricorrendo al parere dello specialista, in particolare di fronte a nuovi casi o disturbi di dubbia interpretazione, all'esordio, atipici, inconsueti o sotto-soglia.

L'analisi del SIMEU sul caos PS sottolinea che "nei periodi di iperafflusso i cosiddetti accessi impropri incidono peraltro in piccola parte sull’affollamento (fino a meno del 5%) e non sono il fattore causale principale”. Il motivo è intuitivo: dopo una valutazione generale del problema ed un'osservazione breve i codici bianco/verdi vengono dimessi dal nosocomio e quindi il turn-over dei contatti non “intasa” la struttura. Ben diverso è il caso dei pazienti più “impegnati” e problematici dal punto di vista diagnostico e terapeutico, spesso anziani, multiptoblematici che, in assenza della valvola di “sfogo” del ricovero in un reparto di degenza, devono essere trattenuti in PS per tempi prolungati al fine di una valutazione diagnostica completa e della stabilizzazione delle condizioni cliniche.
Insomma è impossibile negare in PS un minimo di esami ematici, qualche accertamento per immagine o consulenze specialistiche, sia per motivi oggettivi sia per evitare di incappare in un errore diagnostico, date le difficoltà decisionali del contesto emergenziale, con il rischio di essere denunciati per malapratica, finire sui giornali e magari pure sul banco degli imputati pagando personalmente per deficit gestionali e strutturali. Come si può chiedere al singolo medico extra-ospedaliero di gestire sul territorio la medesima incertezza diagnostica a mani nude, ovvero senza il supporto decisionale della tecnologia, quando nessuno in PS giustamente vi può rinunciare? Gli assistiti hanno capito da tempo queste dinamiche e quindi si recano in P.S, anche a rischio di dover attendere ore ed ore e sborsare qualche decina di euri, ma con la sicurezza di by-passare le liste d'attesa ed eseguire accertamenti e visite in "tempo reale" che invece sul territorio richiederebbero tempi lunghi e farraginose procedure burocratiche.

Le cose potrebbero forse andare diversamente se si potenziasse l’offerta organizzativa delle cure primarie - ad esempio nel senso della continuità assistenziale ambulatoriale nelle 12 ore diurne - incentivando le forme associative previste dalla riforma Balduzzi, vale a dire le Unità Complesse che restano per ora al palo nella maggioranza delle regioni. L’obiettivo è quello di intercettare una parte dei codici bianchi prima che si rivolgano nosocomio e quindi ridurre parzialmente il loro impatto sulle strutture di emergenza-urgenza. Infine l'uso della tecnologia si impone da sè perchè il PS è un contesto professionale difficile, stressante, ad elevato rischio professionale e di errore cognitivo, come ammettono i professionisti che vi lavorano:
http://www.acemc.it/sito/eventi/doc/relazioni/strategie_cognitive.pdf

Insomma per la crisi del P.S. vale l'aforisma per cui sono improponibili soluzioni semplici e lineari per problemi di natura sistemica maledettamente complessi.

*http://www.agenas.it/psn_op/Doc/Normative/09_LINEE_GUIDA_ASSISTENZA_H24.pdf

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