Quando
l’emergenza diventa collettiva prevale a tutti i livelli l’intervento pubblico
sull’iniziativa privata, per fronteggiare un imprevisto picco di domanda, a
rischio di rottura dell’equilibrio sistemico, con una mobilitazione
straordinaria di risorse, strumenti e mezzi. E’ quello che è avvenuto in Cina a
gennaio, in Lombardia dal mese di marzo e via via in tutto il resto dell’Europa
e del mondo. Del resto storicamente l’autorità sanitaria e gli interventi di
igiene pubblica sono nati proprio nell’Italia del nord, tra Milano e Venezia,
in occasione delle devastanti epidemie pestilenziali tra il 1400 e il 1600. Si
affermano in quel periodo storico i drastici provvedimenti di igiene pubblica per
contenere l’epidemia, dall’introduzione della quarantena alle norme
comportamentali preventive, delle misure di controllo della mobilità agli
editti per modificare le abitudini sociali fino all’isolamento degli appestati
nell’isola del Lazzaretto vecchio veneziano, imitato in tutto il resto
d’Europa.
Il trionfo del quasi mercato
In una
condizione di emergenza la salute pubblica prevale sulla dimensione individuale
e sui principi del (quali) mercato sanitario, come quelli che hanno ispirato la
politica sanitaria lombarda degli ultimi 20: separazione tra erogatori
accreditati ed ente pubblico acquirente e controllore, empowerment del
cittadino, pagamento a prestazione, parità e competizione pubblico-privato per
conquistare “fette di mercato”. Il modello del quasi-mercato sanitario,
pur confermando il principio universalistico, ha introdotto come correttivi
- regole e incentivi per favorire la concorrenza tra erogatori pubblici e privati, finalizzati
- ad incrementare l’efficienza dell’offerta (tariffe delle prestazioni, libertà di scelta e soddisfazione degli utenti) senza aumentare (o riducendo) la spesa complessiva.
Non a caso
uno degli obiettivi delle politiche liberiste era il ridimensionamento
dell’improduttivo stato sociale e, al suo interno, dell’ancor più inefficiente
servizio sanitario pubblico. Ora la pandemia di Covid-19 ha fatto riemergere
con l’evidenza empirica della recessione economica le profonde radici sociali
dell’economia e, come effetto secondario, la necessità di vigorosi interventi
di igiene e salute pubblica per contenere l’epidemia e permettere la ripresa
economica. Non a caso l’unica arma disponibile per contrastare l’estrema
contagiosità del Covid-19 è il distanziamento interpersonale, ovvero la rottura
dei legami sociali che di riflesso si riverberano positivamente sull’epidemia,
ma negativamente sugli scambi economici e sul mercato.
Il distanziamento
sociale è il tentativo di contrastare il carattere marcatamente sociale della
pandemia che tuttavia provoca come effetto collaterale il rallentamento
recessivo, ad eccezione del commercio elettronico virtuale che non a caso ha
avuto un boom. La sconfitta del virus dipende dal comportamento di ognuno, nel
segno della limitazione dei consumi, degli spostamenti e della libertà di
scelta, e dai suoi effetti sistemici ed epidemiologici. Il distanziamento paga
il prezzo dell’arma a doppio taglio: positiva sul piano epidemico ma deleteria
su quello economico e del PIL, proprio per il blocco degli scambi commerciali e
dei consumi individuali.
Pandemie, conseguenze socio-politche e quasi mercato
Non sono
solo economici i riflessi distruttivi delle pandemie. Secondo lo storico Carlo
Ginzburg la dissoluzione dei legami sociali provocata dall’epidemia di peste
descritta da Tucidide ha “contribuito all’idea della guerra primordiale di
tutti contro tutti, avanzata nel Leviatano (Hobbes) come legittimazione
dell’istituzione dello stato”. Sulla base di questo precedente storico Ginzburg
paventa il rischio che “la specie umana potrebbe essere costretta ad
assoggettarsi ad un potere ancora più pervasivo e schiacciante di quello dello
Stato-Leviatano, per soccorrere una natura guasta e vulnerata”. Oggi si può forse
scongiurare questo rischio proprio grazie al prevalere delle logiche economico-finanziarie
internazionali sulla sfera politica dello stato nazionale (si vedano le recenti decisioni finanziarie dell'euro gruppo della BCE in risposta alla crisi economica).
Nel contesto
emergenziale le teorie del NPM, imperniate sul tentativo di innestare nel
sistema sanitario le dinamiche dell’economa di mercato, hanno mostrato il
fianco e sono entrate in crisi, come del resto sta accadendo a tutta la sfera commerciale
e dei consumi. Le leggi della finanza e del profitto non si adattano alle
emergenze collettive e alla risposta dell’organizzazione sanitaria pubblica. Un
esito analogo era già accaduto per quanto riguarda la cronicità.
Nel 2017,
verificati vantaggi del pagamento a prestazioni nell’assistenza nosocomiale si
era pensato di estenderlo anche alla gestione della cronicità a livello di cure
primarie. Il tentativo di esportare le logiche concorrenziali sul territorio,
ad esempio con la presa in carico della cronicità (PiC) in Lombardia, ha
dimostrato i limiti di questo modello, prima di tutto per la reazione “di
rigetto” dell’ambiente ospedaliero; infatti l’obiettivo di spostare la
cronicità dal territorio all’ospedale, mettendo in competizione generalisti e
Clinical Manager ospedalieri, per attirare il maggior numero di “clienti” a
scapito dei concorrenti, è stato di fatto vanificato dal comportamento degli
specialisti ospedalieri. Anche la PiC presupponeva la scotomizzazione della
componente sociorelazionale, a favore dell’intervento “tecnico” specialistico,
nella cura delle condizioni croniche sul territorio. La strategia del quasi
mercato ha influenzato negativamente le policies regionali verso il territorio,
come dimostrano altre scelte sintomatiche della sottovalutazione delle cure
primarie, a partire dalla mancata attivazione delle forme associative sul
territorio.
Emergenza pandemica e fallimenti del mercato in sanità
Ora la
pandemia virale ha amplificato, con la concentrazione degli eventi nello spazio
regionale e nell’arco di poche settimane, i limiti del gioco economico della
domanda-offerta nella gestione dei problemi emergenziali, sia a livello
individuale che di sanità pubblica. Tant’è che si può forse aggiungere un nuovo
capitolo ai fallimenti del mercato in sanità, che si volevano in qualche modo
aggirare con la proposta “edulcorata” di un quasi mercato. D’ora in avanti alla
lista degli elementi che decretano il fallimento dell’economia di mercato in
sanità (asimmetria informativa, rapporto di agenzia, induzione della domanda da
parte dell’offerta, selezione avversa e azzardo morale, esternalità negative
etc..) bisognerà aggiungere anche l’emergenza epidemica, come fattore turbativo
dell’equilibrio di mercato. Anzi c’è chi avanza l’ipotesi che l’epidemia sia la
più grande esternalità negativa mai subita dall’umanità (il debito accumulato dal sistema per eccessivo carico allostatico, così definito da Vineis in "Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica", Einaudi, 2019) per il trionfo culturale
del liberismo mercantile degli ultimi decenni, grazie alla globalizzazione degli
scambi e della finanza.
Mai come
nell’emergenza epidemica la dinamica domanda-offerta e le preferenze dei
consumatori si dimostrano incapaci di compensare lo squilibrio indotto dal
Covid-19, che porta con se la necessità di dirigismo statale e una drastica
azione di governance della sanità pubblica. Il tentativo di far prevalere il
paradigma economico-finanziario sulla gestione sociorganizzativa della sanità sta
mostrato tutti i suoi limiti ed effetti perversi. Quante vite e quante risorse
si potevano “risparmiare” senza i tagli inferti alle strutture e ai servizi
negli ultimi 20 anni che, in nome della razionalità economica, hanno indebolito
la reazione di un sistema che si è trovato impreparato all’emergenza specie sul
territorio. Il futuro assetto dei SSR non potrà non tenere conto degli effetti
della pandemia sul sistema sanitario, sia a livello ospedaliero che di cure
primarie, in particolare nell’epicentro epidemico lombardo.
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