sabato 11 aprile 2020

Liberismo, pandemia e fallimenti del "quasi mercato"

Nelle situazioni emergenziali epidemiche il modello dell’economia di mercato applicato ai problemi di salute mostra evidenti limiti. L’equilibrio tra domanda e offerta, architrave del pensiero economico, viene drammaticamente rotto dal picco di domanda per una condizione collettiva a rischio della vita che impone investimenti immediati “fuori mercato” e fuori budget, e misure sociali che annullano la libertà di scelta e ed anche quella personale come è avvenuto nell’Hubei. Già nelle emergenze individuali, si pensi ad un infarto acuto piuttosto che ad un grave trauma stradale, la scelta del luogo di cura è dettata dalle circostanze temporali e dalle contingenze e non certo dalle preferenze dell’interessato.
Quando l’emergenza diventa collettiva prevale a tutti i livelli l’intervento pubblico sull’iniziativa privata, per fronteggiare un imprevisto picco di domanda, a rischio di rottura dell’equilibrio sistemico, con una mobilitazione straordinaria di risorse, strumenti e mezzi. E’ quello che è avvenuto in Cina a gennaio, in Lombardia dal mese di marzo e via via in tutto il resto dell’Europa e del mondo. Del resto storicamente l’autorità sanitaria e gli interventi di igiene pubblica sono nati proprio nell’Italia del nord, tra Milano e Venezia, in occasione delle devastanti epidemie pestilenziali tra il 1400 e il 1600. Si affermano in quel periodo storico i drastici provvedimenti di igiene pubblica per contenere l’epidemia, dall’introduzione della quarantena alle norme comportamentali preventive, delle misure di controllo della mobilità agli editti per modificare le abitudini sociali fino all’isolamento degli appestati nell’isola del Lazzaretto vecchio veneziano, imitato in tutto il resto d’Europa.
Il trionfo del quasi mercato
In una condizione di emergenza la salute pubblica prevale sulla dimensione individuale e sui principi del (quali) mercato sanitario, come quelli che hanno ispirato la politica sanitaria lombarda degli ultimi 20: separazione tra erogatori accreditati ed ente pubblico acquirente e controllore, empowerment del cittadino, pagamento a prestazione, parità e competizione pubblico-privato per conquistare “fette di mercato”. Il modello del quasi-mercato sanitario, pur confermando il principio universalistico, ha introdotto come correttivi
  •     regole e incentivi per favorire la concorrenza tra erogatori pubblici e privati, finalizzati
  •     ad incrementare l’efficienza dell’offerta (tariffe delle prestazioni, libertà di scelta e soddisfazione degli utenti) senza aumentare (o riducendo) la spesa complessiva.
Storicamente il concetto di quasi mercato sanitario regolato si afferma nel mondo anglosassone, nell’ambito del cosiddetto New Public Management (NPM), alla fine degli anni ottanta, con il superamento del pagamento a giornate di degenza, a favore della tariffa fissa dei DRG ospedalieri. In quel frangente storico il quasi mercato ha dimostrato di migliorare l’efficienza del sistema, pur con rischi di distorsione per induzione di prestazioni inappropriate e comportamenti opportunistici. I principi del NPM si impongono sull’onda del liberismo turbofinanziario degli anni novanta, dopo che la natura sociale dell’economia era stata negata dalla famosa affermazione della signora Thacher del 1987: La società non esiste” e quindi TINA (there is not alternative: ovvero non c’è alternativa all’egemonia culturale dell’economia di mercato e dell’homo oeconomicus su tutte le sfere sociali, sanità in primis). Segue la supremazia del businnes sanitario privato e del consumismo da supermarket della salute, rispetto alla dimensione sociosanitaria dei servizi, specie sul territorio.
Non a caso uno degli obiettivi delle politiche liberiste era il ridimensionamento dell’improduttivo stato sociale e, al suo interno, dell’ancor più inefficiente servizio sanitario pubblico. Ora la pandemia di Covid-19 ha fatto riemergere con l’evidenza empirica della recessione economica le profonde radici sociali dell’economia e, come effetto secondario, la necessità di vigorosi interventi di igiene e salute pubblica per contenere l’epidemia e permettere la ripresa economica. Non a caso l’unica arma disponibile per contrastare l’estrema contagiosità del Covid-19 è il distanziamento interpersonale, ovvero la rottura dei legami sociali che di riflesso si riverberano positivamente sull’epidemia, ma negativamente sugli scambi economici e sul mercato. 
Il distanziamento sociale è il tentativo di contrastare il carattere marcatamente sociale della pandemia che tuttavia provoca come effetto collaterale il rallentamento recessivo, ad eccezione del commercio elettronico virtuale che non a caso ha avuto un boom. La sconfitta del virus dipende dal comportamento di ognuno, nel segno della limitazione dei consumi, degli spostamenti e della libertà di scelta, e dai suoi effetti sistemici ed epidemiologici. Il distanziamento paga il prezzo dell’arma a doppio taglio: positiva sul piano epidemico ma deleteria su quello economico e del PIL, proprio per il blocco degli scambi commerciali e dei consumi individuali.
Pandemie, conseguenze socio-politche e quasi mercato
Non sono solo economici i riflessi distruttivi delle pandemie. Secondo lo storico Carlo Ginzburg la dissoluzione dei legami sociali provocata dall’epidemia di peste descritta da Tucidide ha “contribuito all’idea della guerra primordiale di tutti contro tutti, avanzata nel Leviatano (Hobbes) come legittimazione dell’istituzione dello stato”. Sulla base di questo precedente storico Ginzburg paventa il rischio che “la specie umana potrebbe essere costretta ad assoggettarsi ad un potere ancora più pervasivo e schiacciante di quello dello Stato-Leviatano, per soccorrere una natura guasta e vulnerata”. Oggi si può forse scongiurare questo rischio proprio grazie al prevalere delle logiche economico-finanziarie internazionali sulla sfera politica dello stato nazionale (si vedano le recenti decisioni finanziarie dell'euro gruppo  della BCE in risposta alla crisi economica).
Nel contesto emergenziale le teorie del NPM, imperniate sul tentativo di innestare nel sistema sanitario le dinamiche dell’economa di mercato, hanno mostrato il fianco e sono entrate in crisi, come del resto sta accadendo a tutta la sfera commerciale e dei consumi. Le leggi della finanza e del profitto non si adattano alle emergenze collettive e alla risposta dell’organizzazione sanitaria pubblica. Un esito analogo era già accaduto per quanto riguarda la cronicità.
Nel 2017, verificati vantaggi del pagamento a prestazioni nell’assistenza nosocomiale si era pensato di estenderlo anche alla gestione della cronicità a livello di cure primarie. Il tentativo di esportare le logiche concorrenziali sul territorio, ad esempio con la presa in carico della cronicità (PiC) in Lombardia, ha dimostrato i limiti di questo modello, prima di tutto per la reazione “di rigetto” dell’ambiente ospedaliero; infatti l’obiettivo di spostare la cronicità dal territorio all’ospedale, mettendo in competizione generalisti e Clinical Manager ospedalieri, per attirare il maggior numero di “clienti” a scapito dei concorrenti, è stato di fatto vanificato dal comportamento degli specialisti ospedalieri. Anche la PiC presupponeva la scotomizzazione della componente sociorelazionale, a favore dell’intervento “tecnico” specialistico, nella cura delle condizioni croniche sul territorio. La strategia del quasi mercato ha influenzato negativamente le policies regionali verso il territorio, come dimostrano altre scelte sintomatiche della sottovalutazione delle cure primarie, a partire dalla mancata attivazione delle forme associative sul territorio.
Emergenza pandemica e fallimenti del mercato in sanità
Ora la pandemia virale ha amplificato, con la concentrazione degli eventi nello spazio regionale e nell’arco di poche settimane, i limiti del gioco economico della domanda-offerta nella gestione dei problemi emergenziali, sia a livello individuale che di sanità pubblica. Tant’è che si può forse aggiungere un nuovo capitolo ai fallimenti del mercato in sanità, che si volevano in qualche modo aggirare con la proposta “edulcorata” di un quasi mercato. D’ora in avanti alla lista degli elementi che decretano il fallimento dell’economia di mercato in sanità (asimmetria informativa, rapporto di agenzia, induzione della domanda da parte dell’offerta, selezione avversa e azzardo morale, esternalità negative etc..) bisognerà aggiungere anche l’emergenza epidemica, come fattore turbativo dell’equilibrio di mercato. Anzi c’è chi avanza l’ipotesi che l’epidemia sia la più grande esternalità negativa mai subita dall’umanità (il debito accumulato dal sistema per eccessivo carico allostatico, così definito da Vineis in "Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica", Einaudi, 2019) per il trionfo culturale del liberismo mercantile degli ultimi decenni, grazie alla globalizzazione degli scambi e della finanza.
Mai come nell’emergenza epidemica la dinamica domanda-offerta e le preferenze dei consumatori si dimostrano incapaci di compensare lo squilibrio indotto dal Covid-19, che porta con se la necessità di dirigismo statale e una drastica azione di governance della sanità pubblica. Il tentativo di far prevalere il paradigma economico-finanziario sulla gestione sociorganizzativa della sanità sta mostrato tutti i suoi limiti ed effetti perversi. Quante vite e quante risorse si potevano “risparmiare” senza i tagli inferti alle strutture e ai servizi negli ultimi 20 anni che, in nome della razionalità economica, hanno indebolito la reazione di un sistema che si è trovato impreparato all’emergenza specie sul territorio. Il futuro assetto dei SSR non potrà non tenere conto degli effetti della pandemia sul sistema sanitario, sia a livello ospedaliero che di cure primarie, in particolare nell’epicentro epidemico lombardo.

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