sabato 14 novembre 2020

Curare il Covid-19 sul territorio, risorse e limiti pratici

Tutti gli osservatori concordano sull'obiettivo di curare il Covid-19 sul territorio per contenere l'accesso al nosocomio e criticano l’inadeguatezza, le carenze organizzative e di risorse della medicina territoriale e in particolare dei MMG. Insomma la medicina territoriale è sul banco degli imputati e il principale colpevole dell'attuale situazione fuori controllo.

Per raggiungere questo obiettivo, mancato nella prima fase e a quanto pare anche nella seconda ondata epidemica, bisogna partire da alcune considerazioni e dati di fatto relativi a tempi, luoghi, modalità e spettro clinico del Covid-19.

TEMPI. Per poter arrivare alla diagnosi di Covid-19 con il test più affidabile attualmente disponibile, vale a dire il tampone molecolare naso-faringeo, servono da 3 a 5 giorni nelle condizioni più favorevoli. Tra l’insorgenza dei sintomi e il primo contatto con il medico del territorio in caso di sintomi non gravi passano come minimo 24-48 ore ed altrettante tra denuncia del sospetto Covid-19, prescrizione, esecuzione del tampone e ricezione del referto per gli opportuni provvedimenti del caso. Se poi il processo viene innescato a ridosso del fine settimana i tempi si dilatano e la stessa cosa può avvenire nelle aree a più elevata incidenza che comporta un allungamento dei tempi dell’esecuzione e della refertazione del tampone. 

Solo dopo un lasso di tempo variabile da 3 a 5 giorni, nella migliore e più ottimistica delle ipotesi, è possibile impostare un programma di cura e di monitoraggio della patologia, ad esempio attivando un accesso domiciliare delle USCA per una diagnosi più circostanziata, ammesso che sia disponibile l’ecografia polmonare e/o il tampone domiciliare. Peraltro anche per portare a termine questo intervento servono altri 1-3 giorni nei contesti organizzativi più efficienti. Corre l'obbligo di ricordare che nell'attuale fase pandemica l'efficacia diagnostica sul territorio (sospetto clinico, denuncia della malattia, diagnosi molecolare, segnalazione dei contatti, follow-up etc..) è incomparabile rispetto a quella della prima ondata, se non altro perchè in primavera al MMG era preclusa la prescrizione del tampone naso-faringeo diagnostico e di controllo/guarigione, come dimostra l'impennata dei casi diagnosticati ad ottobre (l'incidenza media giornaliera a novembre è superiore a quella di due interi mesi estivi).

MODALITA' DI CONTAGIO. E’ ormai accertato che il luogo elettivo della diffusione del Coronavirus è la famiglia, come dimostra l’esperienza pratica sul territorio, e quindi l’obiettivo primario non è quello di “curare a casa” i pazienti ma di isolarli rispetto all’ambiente domestico e alle relazioni familiari per evitare che divampi il focolaio. Tuttavia i tempi minimi del processo diagnostico di cui sopra - a cui vanno aggiunti altri 2 giorni di contagiosità della fase finale di incubazione - indispensabile per isolare il paziente effettivamente portatore di Sars-Cov 2, rendono questo obiettivo difficilissimo perché in quel lasso di tempo critico il virus si è già diffuso nel nucleo familiare e non di rado al primo caso clinico, specie se grande diffusore, ne sono seguiti altri in ragione della numerosità della famiglia. 

La medicina del territorio può quindi fare ben poco per interrompere in fase iniziale la catena dei contatti/contagi in tempi adeguati all’evoluzione del focolaio, per non parlare dell’intervento di tracciamento dei servizi di igiene e prevenzione che arrivano giocoforza a cose fatte, spesso nella fase di remissione della sintomatologia. Quindi l’isolamento del paziente, nei cosiddetti hotel covid laddove siano disponibili, avviene di solito alla dimissione dal PS o più spesso dopo la degenza ospedaliera quando si sono già verificati numerosi contatti stretti o contagi veri e propri tra il primo caso e i familiari.

SPETTRO CLINICO. Le statistiche descrivono lo spettro clinico dei pazienti affetti da COVID-19: il 5% circa viene ospedalizzato e di questi il 10% circa necessita di ricovero in terapia intensiva, ovvero lo 0,5% del totale mentre il restante 95% resta comunque a casa perché presenta sintomi gestibili a domicilio oppure vi ritorna dopo un accesso in PS (nelle aree covid dei PS laziali i casi sono quadruplicati tra l’inizio e la fine di ottobre). Basta applicare queste percentuali all'incidenza di nuovi casi degli ultimi 30 giorni nella seconda ondata (al 15 novembre erano 461897) per rendersi conto di quante persone, nonostante le presunte carenze della medicina territoriale, siano state seguite e gestite a domicilio e che non meno di 20 mila, per situazioni cliniche oggettivamente gravi, si siano dovute rivolgere ad un ospedale per essere ricoverate (peraltro in Veneto sono segnalati numerosi casi di persone asintomatiche o paucisintomatiche degenti in ospedale). 

Se in primavera arrivavano in PS persone per fare il tampone oggi sul territorio vengono diagnosticati precocemente con il test molecolare casi con sintomi paucisintomatici assai variegati, dalla diarrea alla cefalea. Inoltre l’evoluzione clinica dei disturbi respiratori spiega la frequenza del ricorso al PS per uno stato clinico di necessità ed urgenza: è comune il caso di un paziente che nell’arco di poche ore o di una giornata, spesso nei primi giorni della malattia quando è in corso il processo diagnostico, accusi un repentino aggravamento delle condizioni respiratorie, per l’insorgenza della polmonite interstiziale bilaterale in un soggetto fragile o ad alto rischio, con conseguente intervento dell’ambulanza o accesso autonomo in PS. Viceversa il paziente paucisintomatico giunto inappropriatamente in PS dovrebbe essere dimesso dopo gli idonei accertamenti diagnostici, che non sono certo disponibili sul territorio.

Infine, con quali cure mirate sarebbe possibile prevenire a domicilio l'insorgenza della polmonite interstiziale bilaterale onde evitare l'ospedalizzazione per insufficienza respiratoria acuta? Ad oggi non sono raccomandate terapie farmacologiche nella fase extra-ospedaliera in grado di modificare il decorso clinico del Covid-19, per cui il medico del territorio non è nelle condizioni di impostare trattamenti sicuri ed efficaci per i pazienti diagnosticati, a parte i farmaci sintomatici e l’ossigenoterapia, come testimoniano le recenti polemiche sulle annunciate linee guida per la gestione domiciliare (http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=89914).

Proporzione (%) di casi di COVID-19 segnalati in Italia negli ultimi 30 giorni per stato clinico e classe di età (dato disponibileal 15 novembre per 461.897 casi)

CONCLUSIONI. La combinazione di queste variabili fa si che la medicina territoriale nel suo complesso (medici di MG, CA, USCA, infermieri di famiglia e medici di sanità pubblica) abbia pochi margini di intervento spazio-temporale, organizzativo e clinico per evitare il ricorso all’ospedale nella fase di maggior incidenza della malattia, in particolare quando si manifesta in forma di focolaio familiare e/o con un’espressione clinica respiratoria ingravescente e improvvisa. 

Le cause dei problemi di gestione della pandemia sul territorio, come spesso rilevato, sono remote piuttosto che attuali e fanno riferimento alle storiche carenze normative, strutturali, formative, di investimenti ed interesse/attenzione per le cure primarie, che in alcuni contesti regionali hanno sconfinato nell'incuria e nella deliberata volontà di smantellare la rete territoriale per lasciare spazio alla concorrenza sul quasi mercato sanitario.

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