mercoledì 26 maggio 2021

Le soluzioni illusorie del PNRR

L'approvazione del PNRR, novello Eldorado sanitario, ha alimentato attese, aspirazioni e promesse di cambiamento radicale e una ridda di soluzioni quasi magiche che potrebbero rivelarsi illusorie. Ecco una breve rassegna di soluzioni semplici per problemi terribilmente complessi, che il PNRR sta alimentando in modo acritico.

1-La riforma radicale delle cure primarie. Per alcuni osservatori al fine di portare a termine questa operazione "rivoluzionaria" servirebbe un'ennesima riforma sanitaria mentre l'ultima del 2012 giace nei cassetti degli assessorati, a cui è importato poco o nulla della medicina del territorio, tranne alcune lodevoli eccezioni. La proposta deriva dal ben noto paradigma giuridico-formale che pervade la politica nostrana, in base al quale alle disposizioni legislative segua meccanicamente il cambiamento comportamentale dei destinatari e dell’organizzazione. Insomma la base del cambiamento sta tutta nella revisione dello status giuridico del  medico: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93033 .  

La PA italiana è storicamente intrisa di cultura giuridico-formale che antepone il rispetto gerarchico delle procedure standardizzate alla concreta soluzione dei problemi e al raggiungimento degli obiettivi prefissati, valutati con idonei indicatori di risultato; in base a questo modello è sufficiente applicare in modo “istruttivo” e top down le norme e le direttive impartite burocraticamente per conseguire gli esiti attesi, salvo quando emergono effetti inattesi o controproducenti, come nel caso del flop della PiC lombarda. Non importa se poi non arrivano i risultati, quello che conta è attenersi scrupolosamente alle norme vigilate dal "superiore" gerarchico. Ecco il mantra delle riforme che il PNRR ha rinfocolato ed ecco l'elenco dei provvedimenti licenziati negli ultimi 20 anni per rilanciare in vario modo la medicina del territorio, rimasti in gran parte lettera morta:

  •       Riforma Bindi L.229/1999: art. 3  sui rapporti tra distretto, ospedale, territorio e dipartimento di prevenzione
  •       ACN 2000 (equipe territoriali e forme associative) e 2005 (equipe territoriali e UTAP)
  •       Piani Sanitari Nazionali 2003-2005 e 2006-2008
  •       Finanziaria del 2007 con il relativo DM attuativo: istituzione delle case della salute su tutto il territorio nazionale
  •       Legge Balduzzi del 2012: istituzione delle forme associative delle cure primarie, ovvero di AFT e UCCP
  •       Patto per la salute 2014-2016 sugli ospedali di comunità
  •       ACN 2010 (specialisti ambulatoriali nell’assistenza domiciliare e nelle UCCP, istituzione del referente nelle UCCP)
  •       DM 70/2015, sugli standard degli ospedali di comunità e l’integrazione ospedale territorio
Insomma con l'ennesima riforma centralista, che richiederà anni tra approvazione formale e messa in atto a parte le interpretazioni regionali delle norme centrali, si risolveranno tutti i problemi che un ventennio di provvedimenti ad hoc hanno lasciato marcire? Qualche dubbio è più che lecito!

2- Il passaggio alla dipendenza.  E' la conseguenza logica della proposta di riforma radicale di cui sopra nel segno del rispetto formale e rigoroso delle norme vigenti da parte dei dipendenti, a prescindere della definizione di obiettivi e della loro verifica empirica. Il passaggio alla dipendenza viene prospettato in alcuni ambienti come soluzione radicale, come se un cambiamento dello status legale - con annessa gerarchia, burocrazia, linea di comando, ordini di servizio, mansionari, protocolli etc..- fosse di per sè la soluzione ideale, la panacea di tutti i problemi a prescindere dalle situazioni locali, dal contesto culturale, dell'assetto sistemico e soprattutto dalla storia (path dependence). In Lombardia negli ultimi anni c'è stato un tentativo in piena regola di passaggio della gestione dei cronici dalla MG ai medici dipendenti, con relativa migrazione dei pazienti verso gli ospedali, e abbiamo visto come è andata a finire: è stato il più grande flop di una riforma sanitaria degli ultimi 30 anni, che verrà ricordato in futuro come esempio di progettazione fallimentare perchè astratta e decontestualizzata rispetto alla rete delle cure primarie!

Peraltro nel PNRR non è previsto il passaggio alla dipendenza e d'altra parte non tutti i MMG potranno aggregarsi come dipendenti a case della Comunità ogni 50mila abitanti, sia per mancanza di spazi idonei ad ospitare 30-35 tra MMG, CA e PLS, più infermieri e specialisti vari, sia per il fatto che 1/3 degli italiani vive in comuni con meno di 10mila abitanti lontani dalla Case stesse, peraltro ben poco accessibili per i pazienti. Dove si troveranno le ingenti risorse per passare dalla convenzione alla dipendenza con il 165% di debito sul PIL e SENZA poter attingere ai fondi del Recovery, che non possono essere utilizzati per la spesa corrente ma solo per gli investimenti?

2-La soluzione strutturale. Le case della Comunità ogni 50mila abitati del PNRR sono la riproposizione dei poliambulatori INAM di un tempo, sempre nella logica della gestione della PA, con un direttore che amministra i professionisti subordinati con l'armamentario della PA, a base di standardizzazioni, rispetto formale delle regole, pianificazione manageriale, controlli e burocratizzazione protocollare della professione. Nel PNRR si parla di 1288 case della Comunità e di uno standard di 15-20 mila abitanti ma i conti matematici non tornano con una popolazione di 60 milioni di abitanti.  

Qualsiasi seria ipotesi di rafforzamento della medicina territoriale deve partire in modo pragmatico dall'attuale articolazione organizzativa a rete composta da: micro team, medicine di gruppo, Unità Complesse/Aggregazioni Funzionali, case della salute in comuni con 15-20 mila abitanti e case/ospedali di comunità da 50-100 mila. Puntare solo su mega case della comunità come cattedrali (vuote) nel deserto non ha alcun senso, è velleitario e porterà con se il rischio di effetti perversi e controproducenti. Anche un ragazzino capirebbe l'incongruenza del progetto in relazione alle variabili demografiche e logistiche. Evidentemente c'è chi, essendo avulso dalla realtà, non se ne rende conto, questo è il guaio: la strada della perdizione è lastricata di buone intenzioni!

4-Con le mega case della comunità verrebbero abbandonati interi territori disagiati e piccoli comuni lontani dai centri urbani. Una struttura ogni 50mila abitanti non potrà mai adattarsi alla varietà dei contesti geo-demografici ed orografici italiani quanto mai diversificati, senza contare i problemi di gestione e di reperimento sul mercato di tutti i professionisti che vi dovranno operare, a partire dalla prossima ondata di pensionamenti dei MMG. Lo standard di una casa ogni 50mila abitanti può funzionare come riedizione dei poliambulatori INAM o come sede dell’ospedale di Comunità, ma non certo come le Case della Salute del modello Emiliano, dove il problema è stato risolto razionalmente adattando la struttura al territorio, con tre tipologie di casa: piccola, media e grande. 

Un solo modello rigido e calato top down su tutto il territorio, a prescindere dalle singole realtà, non ha alcun senso e troverà pochi medici disposti a trasferirvisi, se non nelle aree cittadine e metropolitane densamente popolate. Per gli altri sarà giocoforza restare nel proprio comune, a meno che si voglia smantellare forzatamente l’attuale capillare rete di studi di MG, che coprono zone disagiate, piccoli comuni con popolazione dispersa e lontana dagli ospedali, ovvero oltre il 30% della popolazione già ora di fatto abbandonata dal SSN, tranne che dai MMG.

5-La soluzione tecnologica. Anche la previsione di un ADI tecnologica, come soluzione per la cura delle persone con polipatologie desta qualche perplessità; i soggetti fragili e soprattutto non autosufficienti hanno bisogno di assistenza ad personam per l'accudimento quotidiano e il soddisfacimento dei bisogni primari, ovvero di badanti o supporto a care giver familiari. Per l’assistenza domiciliare bastano periodici accessi del MMG in Assistenza Domiciliare Programmata o integrata con quella infermieristica, che assicuri controlli periodici di parametri clinici, aderenza ed educazione terapeutica, medicazioni/prelievi etc. mentre saranno pochi coloro che usufruiranno di una telemedicina di non agevole utilizzo. Se poi la promessa rivoluzione digitale per una vera integrazione tra ospedale e territorio - altro storico mantra del gergo sanitario - dovesse effettivamente decollare servirebbero a poco l'intruppamento di decine di professionisti nella stessa struttura.

1 commento:

  1. Condivido, non credo nelle ADP e nell'ADI come formalizzazione di qualcosa che dovrebbe essere di per sé, come standard normale di attività che superi il modello della visita domiciliare rituale e consolatoria e diventi monitoraggio personizzato a prevalente gestione infermieristica, dove però l'infermiere collabora direttamente con il medico, senza mediazione burocratica!

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